L’allevamento dei bachi da seta.
Una donna dell’Unitre è di Ostra, come si legge tra le righe del testo. Sono quattordici fogli scritti a mano. La nonna di chi scrive aveva una famiglia numerosa. Il padre, sposato con sei figli, viveva sotto lo stesso tetto con altri due fratelli, uno con due figli, l’altro con tre. Uno zio della nonna lavorava la terra assieme a suo padre, mentre un altro zio era fattore, “una persona che gestiva una serie di fondi agricoli per conto dei proprietari”. La sua era una famiglia ricca perché “erano proprietari del fondo su cui vivevano e di altri fondi, in più gestivano per conto di altri, altri terreni sparsi un po’ in tutta la zona. Lo zio Peppe, il fattore, aveva avviato un fiorente commercio di bachi da seta, che vendeva ad once ai proprietari dei terreni vicini e di tutta la zona. Una volta formati i bozzoli, provvedeva al loro ritiro, alla scottatura prima poi alla commercializzazione degli stessi”. L’allevamento dei bachi da seta era una pratica diffusa anche nelle campagne del maceratese. Erano soprattutto le ragazze ad occuparsi di loro, come mi raccontava mia mamma. Viveva in una famiglia contadina nella zona di Acquevive, una contrada di Macerata, poco lontana da Corneto, altra frazione del capoluogo di provincia. La cura dei bachi l’aveva ereditata da sua mamma Maria, mia nonna materna. Nei venti anni di permanenza in Brianza, interessandomi di storia locale, ho trovato sempre molte analogie con la mia terra d’origine, le Marche e il territorio, dove sono vissuto per un lungo periodo. In tutta l’alta pianura asciutta della Lombardia, la pratica della gelsi – bachicoltura era una attività agricola assai diffusa fin dalla metà del mille e seicento. Ad essa si affiancò, prima quella della lavorazione dei bachi da seta nelle filande, poi nelle più moderne tessiture disseminate lungo i fiumi Lambro e Adda.
Continua nel suo racconto la signora di Ostra: “La nonna raccontava che durante la magnarella, cioè durante il periodo di maggior sviluppo dei bachi da seta, quando si avvicinava il momento in cui dovevano fare il bozzolo, tutte le ragazze erano addette a raccogliere le foglie dei gelsi di cui i bachi erano golosissimi. Portavano con loro delle ceste, le crimelle in dialetto locale, nelle quali riponevano le foglie sempre fresche. Mattina, pomeriggio e sera era un andirivieni di ragazze tra i dodici, quindici, sedici anni che facevano la spola tra la casa colonica e la campagna. Si arrampicavano sui gelsi e iniziavano a raccogliere le foglie. Anche per vincere la monotonia del lavoro, ripetitivo e sempre uguale, si mettevano a cantare. A loro rispondevano con altri canti altre ragazze di contadini vicini che erano lì per lo stesso motivo. Cantando, avevano modo di comunicarsi gli avvenimenti che attraversavano la campagna: Domani si balla a casa di…, questa sera ci ritroviamo nell’aia di…”. I rumori, i suoni e i canti che attraversavano le nostre campagne sono scomparsi da molto tempo. Non ci sono più contadini. Il lavoro, una volta fatto tutto a forza di braccia, è stato sostituito da mezzi meccanici, che nel giro di poche ore fanno quello che una volta richiedeva mesi di lavoro. Testimoni oculari di queste trasformazioni sono i cacciatori, quei pochi che hanno ancora la passione della caccia ereditata dal proprio papà e dagli zii. Conoscono tutto sul nostro territorio.
“I bachi venivano posti su uno strato di foglie, poggiato su alcuni telai in legno, attraversati da fili trasversali e orizzontali a formare dei quadrati. I bachi mangiavano in continuazione, notte e giorno. Erano sempre riforniti di foglie fresche portate dalle ragazze.
Il regime alimentare.
Chi aveva tanto terreno di sua proprietà se la passava abbastanza bene ma non era così per tutti. I terreni agricoli migliori, quelli che davano più resa, erano quelli che si disponevano in pianura. La famiglia della signora di Ostra era benestante, lavorando tanta terra. “Naturalmente – aggiunge – non c’erano a disposizione prosciutto, salame e altro che proveniva dalla macellazione del maiale. Tutto era gestito dalla donna più anziana in famiglia, chiamata capoccia. Nel maceratese si chiamava vergara, in Brianza era la regiura, in Romagna era l’azdora. “Prosciutti, salami, lonze venivano tirati fuori dalla dispensa solo quando capitava qualcuno, quando venivano i contadini che portavano le uova o il formaggio o consegnavano l’uva al fattore. Noi ragazzi stavamo sempre dietro la porta, aspettando che queste persone se ne andassero. Se rimaneva qualcosa, ci precipitavamo a mangiarne.
La stanza più grande della casa colonica era la cucina: “La famiglia era numerosa quindi c’era una cucina enorme; praticamente, da sola occupava un quarto della casa, di solito era sui dieci, dodici metri per cinque. I mobili quasi non esistevano se si esclude una vecchia credenza in legno, un tavolo abbastanza lungo e alcune seggiole, a volte anche rotte. In fondo alla cucina troneggiava un grandissimo camino con la rola, lo spazio frontale dove si apriva il camino. “Il camino era enorme, perché durante le serate d’inverno, quando faceva molto freddo, attorno ad esso si riunivano anche fino a venti persone”. Ricordo scampoli d’adolescenza vissuta per un anno dagli zii a San Claudio, frazione di Corridonia (MC). Era una famiglia patriarcale, composta da quattro fratelli, sposati con moglie e figli, per un totale di ventiquattro componenti.
Nella famiglia della storia raccontata, si assisteva anche a momenti buffi: “Poiché la famiglia era molto numerosa e sul tavolo non c’erano posti a sedere per tutti, i bambini e le ragazze mangiavano di solito, con un piatto ogni due o tre, per le scale di casa o in quelle che andavano in soffitta. Al tavolo mangiavano solo il babbo, gli zii e i fratelli più grandi. Al mattino si beveva caffè con un po’ di pane, a mezzogiorno si trangugiava una minestra condita da un po’ di lardo con qualche pomodoro, a volte compariva anche la pastasciutta ma sempre senza carne. Questa, al massimo, si mangiava una volta la settimana ed era quello che passava la casa: pollo, coniglio. A volte capitava di mangiare anche la carne di pecora. Succedeva solo quando qualche pecora si ammalava, allora si uccideva e se ne mangiava la carne. D’inverno si poteva anche mangiare carne ma erano sempre frattaglie, cioè le parti più scadenti, come il fegato, chiamato la coradella, le budella, chiamate le spuntature, la testa o parti del collo. Non mancavano i legumi: fagioli o ceci, cotti da soli o con le cotiche. Si coltivavano molti legumi. Servivano per il fabbisogno alimentare. Non si vendevano, per questo il loro prezzo era molto basso. Non si comprava nulla, solo a Natale si acquistava il baccalà o lo stoccafisso.
Le feste e la scuola
“Le feste erano molto rare, tra tutte c’era quella del matrimonio. Il cosiddetto pranzo di nozze era preparato in casa. Era molto semplice. Era composto di due portate: pastasciutta come primo piatto e carne prodotta dalla casa come secondo. Si terminava con un dolce, il classico ciambellone, un dolce molto semplice, preparato due o tre giorni prima della festa. Le Comunioni e le cresime dei bambini non si festeggiavano con il pranzo. Si andava in chiesa. Si assisteva alla cerimonia religiosa. Si tornava a casa e si mangiava un pochino meglio del solito ma niente di particolare. Si uccideva e si cucinava il coniglio. Si preparavo un dolcetto e tutto finiva lì. Queste cerimonie non si svolgevano individualmente, cioè non si celebrava la comunione o la cresima uno alla volta, ma, essendo la famiglia numerosa, si organizzavano per tre, quattro, cinque bambini, compresi i cugini. Non c’era bisogno di invitare i parenti perché erano tutti quelli della casa, che messi assieme erano assai numerosi.
Stando a quello che ricordo, per le Comunioni e le Cresime, nel maceratese, queste due feste erano valorizzate da un sontuoso pranzo. Generalmente ogni casa colonica era provvista da una capanna che veniva liberata da tutti gli attrezzi agricoli. Se lo spazio non bastava, si approntava un grande tendone che era il prolungamento della capanna. All’interno di questi due spazi al coperto si disponevano delle panche, costruite dal contadino che all’occorrenza si trasformava in falegname. Le tovaglie erano fornite dalla casa. Il pentolame era portato dal cuoco. Era un signore al quale era affidata la preparazione del pranzo. Quando gli invitati erano tanti e non erano sufficienti i piatti, i bicchieri e le posate in dote alla famiglia, queste stoviglie erano portate dal cuoco. Alcuni di questi cuochi hanno aperto ristoranti ed hanno fatto fortuna. Un piatto tipico di questi pranzi era costituito dagli “straccetti”, una minestra fatta con pane, uova, parmigiano grattugiato, in brodo di carne. Si faceva cuocere a fuoco lento il brodo di gallina. Si preparava a parte l’impasto che avrebbe dato vita agli straccetti. Occorrevano tante uova. Generalmente era un uovo a testa, ma la casa ne forniva a volontà. Alle uova si aggiungeva un cucchiaio di pane grattugiato e di parmigiano. La dose esatta la stabiliva il cuoco in base alla sua esperienza. L’impasto preparato, prima era sbattuto a dovere con cucchiai di legno, poi era colato per liberarlo da eventuali impurità. Si buttava il tutto nel pentolone, dove era già pronto il brodo di gallina fatto bollire a fuoco lento per circa un’ora. Si faceva cuocere il tutto per due, tre minuti.
La scuola non era frequentata da tutti. Si sa che un tempo, la campagna era molto abitata e le persone erano più quelle che risiedevano in campagna di quelle che erano nel paese. Ogni zona, generalmente, aveva la sua scuola rurale. La signora della storia racconta che la nonna, essendo di famiglia ricca, poteva frequentare la scuola assieme alle sorelle, ai fratelli e alle cugine, fino alla terza elementare. Per raggiungere la sede, si doveva percorrere, a piedi, circa quattro chilometri all’andata e altrettanti al ritorno. “Con loro c’era un cugino, l’ultimo, il più mingherlino, un po’ malaticcio. Non voleva mai andare a scuola. Lungo il tragitto, dovevano attraversare un boschetto. Questo ragazzo si accodava agli altri componenti della famiglia. Erano in sette o otto tra ragazzi e ragazze. Il ragazzo mingherlino non aveva voglia di seguirli. Si fermava nel boschetto e quando tutti ritornavano da scuola, lui si accodava al gruppo e ritornava a casa. Naturalmente, nonna, le sorelle o i cugini facevano la spia. Lui era punito. Il giorno dopo si ripeteva sempre la stessa scena. Il ragazzo si fermava nel boschetto mentre gli altri andavano a scuola. Al ritorno, avvisava tutti: State zitti, se no, quando andiamo a casa, vi meno. Spesso usava le mani perché gli altri non erano capaci di starsene zitti”.
La botte vuota e i vicini di casa
Come si è detto sopra, nella famiglia abitava uno zio non sposato, cugino del papà. La nonna raccontava alla nipote che “non essendoci altri svaghi, questo zio aveva il vizio di bere. I cugini, sapendolo, tenevano sotto chiave la cantina ma, lui era riuscito a fare una chiave falsa e aveva inventato uno stratagemma per bere vino a volontà senza che gli altri se ne accorgessero. Si era costruito una canna molto lunga. Saliva a cavalcioni sopra la botte e infilata la canna dall’alto iniziava a bere a volontà. Dopo un po’ di tempo, i cugini si accorsero che la botte era vuota ma non riuscivano a rendersi conto come avesse fatto a bere tutto il vino. La botte infatti era ermeticamente chiusa nella parte inferiore. Il furbacchione era riuscito a bere e a darla a bere”.
Dei vicini di casa, in campagna, un tempo si sapeva tutto. Non c’era la privacy di adesso. Non si sapeva nemmeno che cosa fosse. Il vicino era il sostegno nei momenti di lavoro e l’occasione per scambiare con lui quattro chiacchere anche per riempire il vuoto di giorni sempre uguali, soprattutto quelli invernali. Accanto alla casa della nonna, scrive la protagonista del racconto, “viveva un certo Cesare. Era arrivato a un’età molto avanzata, intorno ai settant’anni e non era mai andato dal dottore. Non sapeva nemmeno chi fosse. Poteva essere anche un marziano perché non aveva avuto mai bisogno di lui. Era stato sempre bene e non aveva mai avuto problemi di salute. Il dottore, quando se lo vide davanti, gli chiese: Quanti anni avete, sor Cesare? Lui rispose: Eh, io ho gli anni di Milcare de Ciocio. Probabilmente era un suo vicino. Eh! Quanti anni ha ‘sto Milcare de Ciocio? – gli fece il dottore. Ah! N’el so’ – rispose tranquillamente Cesare. Sapeva che aveva l’età del suo vicino ma ignorava l’anno di nascita”.
Lo zio Peppe e la cavalla
Lo zio Peppe che abitava assieme alla nonna, era il fattore. Godeva di un certo prestigio. La domenica e durante le feste, si recava in paese, ad Ostra, in calessino tirato dalla cavalla. Mentre gli altri andavano a messa a piedi o con il classico biroccio, tirato dalle mucche, lui aveva un mezzo di locomozione che possedeva solo lui. “Gli anziani si fermavano al suo passaggio, si giravano e si toglievano il cappello in segno di rispetto. Zio Peppe sapeva stare al gioco delle parti. Spesso, quando incontrava per strada la nonna, le sue sorelle o le figlie, offriva loro un passaggio. Queste si rifiutavano di salire. La cavalla era bruttarella, per di più lasciava medaglioni di escrementi. Loro si vergognavano”.
Il giorno del funerale
La famiglia descritta nel testo abitava in pianura, terreno fertile, poco lontano dal fiume Misa. Per andare al cimitero di Ostra c’erano da percorrere sette chilometri di strada. Si andava a piedi, dietro al feretro come ad una processione. In chiesa si assisteva alla funzione religiosa e al cimitero si partecipava all’inumazione. Quando tutto era terminato, gli “Accompagni”, cioè tutte le persone che avevano partecipato al funerale, erano invitate dai parenti del morto presso un’osteria dove si consumava un pranzo. “Era l’occasione per mangiare baccalà o stoccafisso e spesso, grandissime frittate. Per andare e ritornare dal cimitero si poteva camminare anche per due ore, cosicché la sosta in osteria era quasi una tappa obbligata. Al di là di queste considerazioni, il momento conviviale era un modo per ringraziare tutti quelli che avevano partecipato al funerale e l’occasione per ricordare chi non c’era più”.
I lavori agricoli
Chi viveva in paese, non avendo da mangiare, scendeva in campagna per offrire la propria forza lavoro ai proprietari terrieri e ai contadini. Ogni stagione era propizia. D’inverno c’era chi, per il lavoro fatto, la potatura degli alberi o delle viti a febbraio inoltrato, aveva come ricompensa una “cotta” di fagioli, chi un po’ di ceci. Qualcuno si accontentava di portare a casa la legna per riscaldarsi. Allora era la campagna che sfamava il paese. A maggio si raccoglieva il fieno. Per giorni e giorni, gli uomini falciavano l’erba. I ragazzi la rivoltavano perché si essiccasse ai raggi del sole, poi la caricavano sui carri e la portavano a casa per fare i pagliai, enormi mucchi di fieno, adoperato come mangime per mucche, pecore e cavalli, durante l’inverno. D’estate poi il lavoro in campagna non mancava. Arrivavano i giorni della mietitura. Alla falciatura del grano erano addetti gli uomini. Le donne e i ragazzi venivano dietro e facevano i covoni. In queste occasioni la manodopera era richiestissima. Terminata la trebbiatura del grano, in agosto iniziava l’aratura del terreno. Gli uomini guidavano l’aratro trainato dalle mucche o dai buoi. I ragazzi erano impiegati nella “stroppa” la “vetta” nelle campagne del maceratese. Quando non bastavano le due mucche aggiogate all’aratro, se ne aggiungevano altre. “L’aratura iniziava attorno alle tre del mattino e terminava verso le nove, le dieci, col primo caldo. Si tornava a casa. I buoi e le mucche erano lasciati a riposare per riprendere il lavoro verso le quattro o le cinque del pomeriggio. Si andava fino a quando c’era luce. A ottobre iniziava la semina. Durava per diversi giorni anche perché, prima dell’avvento delle seminatrici meccaniche, era fatta a mano. Dietro alla semina venivano i ragazzi impegnati a spaccare con la zappa le zolle grosse. Oggi, con la meccanizzazione viene fatto tutto in tempi molto brevi. In inverno, quando il tempo era brutto, le donne pensavano a filare e a eseguire i lavori dentro casa. Le ragazze facevano i lavori da sarta o preparavano il corredo per il matrimonio. Gli uomini stavano rintanati nelle stelle. Badavano agli animali. Preparavano cesti, scale e tutti quegli strumenti da lavoro utili nella casa colonica. Il respiro degli animali rendeva la stalla, l’ambiente più caldo della casa. Fra gli altri lavori propri degli uomini c’era la costruzione delle “banchette”, delle tavole con quattro piedini, che erano utilizzate dalle donne per lavare o al fiume o nelle pozze d’acqua. Costruivano canestri di vimini più o meno grandi, per il trasporto dei prodotti della terra, quelli bianchi, costruiti con rametti di salice sbucciati o con canne spaccate. Erano i più belli e i più igienici. Erano utilizzati per il pane o il formaggio. I canestri più rustici erano utilizzati per il trasporto della legna, del fieno e della paglia. Nelle sere d’inverno si andava a dormire abbastanza presto, perché i giorni erano corti, la luce finiva presto, non c’era la corrente elettrica. L’unica luce possibile era quella fornita dalle cetilene o dalle candele. Le cetilene erano dei lumi a petrolio, per non sprecarlo, dato che costava, si andava a letto presto. Il punto d’incontro di tutta la famiglia nei lunghi mesi invernali era il camino, dove bruciava il ciocco, un grande pezzo di legno di quercia. Ci si riuniva attorno alla rola, chi sulle seggiole ma tutti vicini al fuoco per riscaldarsi. Il nonno, il più vecchio della famiglia, raccontava le storie circa allegre, qualche volta anche paurose per i ragazzi. Si recitavano le preghiere seguite da tutti. All’ordine della vergara, tutti i ragazzi andavano a dormire ma non uno per letto, ma due o tre per ogni letto perché di letti ce n’erano pochi. L’unico svago per i giovani era il ballo. Ogni occasione era buona. Si ballava nella propria casa o in quelle dei vicini. Una fisarmonica o un organetto erano gli strumenti musicali che accompagnavano ogni ballo. Si sapevano tre, quattro canzoni, al massimo cinque e per tutta la serata, dalle otto fino alle undici o mezzanotte si ripetevano sempre gli stessi motivi. I balli tipici erano il saltarello o qualche valzer. Il divertimento era assicurato. Si ballava nei granai o nelle stanze più grandi della casa. Un’occasione per ballare era verso ottobre con la raccolta del granturco.
Il fuoco del camino era utilizzato per cuocere le olive sotto la cenere, le castagne e le mele. Nel giorno dell’Epifania, le calze erano appese sotto il camino ma dentro non c’erano pacchetti infiocchettati come oggi. Dentro la calza, che era un vero e proprio calzino, a volte, anche bucato, c’erano: qualche castagna, un arancio, un mandarino, tuttalpiù una caramella. Il pane era fatto in casa una o due volte alla settimana. Nonna raccontava un aneddoto molto simpatico. La sua famiglia era un po’ più alla buona di tante altre e faceva il pane con la farina integrale che era scura. A volte il pane finiva e non si era ancora fatta la nuova infornata. Si andava allora dal vicino di casa. Questi, rivolto ai ragazzi che erano stati mandati dai propri genitori, diceva molto scherzosamente: Non glielo date il pane, perché loro, a casa setacciano la farina con la portella dell’orto. La notte di Natale, in tutte le case dei contadini veniva messo nel camino il famoso ceppo di Natale, un grande tronco di quercia che doveva ardere fino all’Epifania”.
Nel Bolognese il grande piede d’albero detto ceppo (zòch e NadèI) si accendeva la Vigilia di Natale e talvolta doveva ardere fino a Capodanno. In alcune località, la sera, prima di coricarsi, ogni membro della famiglia lo colpiva ripetutamente con l’attizzatoio o le molle, e se dal legno ardente si sprigionavano molte scintille, voleva dire che nel corso dell’anno sarebbero nati molti pulcini.
La pratica di mettere sul fuoco del camino il grande ceppo natalizio, di quercia, d’olmo era diffusa anche nelle nostre contrade. Lo si faceva ardere molto lentamente. Doveva durare dal Natale all’Epifania. I carboni dell’ultima notte venivano prelevati e portati nei campi, accanto ai filari delle viti o negli orti. Avrebbero dovuto difendere le colture dalle gelate dei mesi invernali e propiziare un buon raccolto.
Nel Reggiano, la sera della Vigilia di Natale, il più anziano della famiglia recitava il rosario davanti alla “zocca” crepitante e, alla fine, benediceva la tavola con un sedano. Terminata la cena, alcuni rametti di ginepro venivano gettati sul ceppo mentre il nonno recitava una lunga tiritera che voleva essere una invocazione propiziatoria.
In Romagna l’arzdor (il reggitore), il “vergaro” delle nostre case contadine o il “regiù” delle cascine brianzole, sceglieva e preparava scrupolosamente il ceppo natalizio, che doveva essere tanto grosso da bruciare fino all’Epifania; era credenza che chi bruciava il ceppo più grosso avrebbe poi ammazzato il maiale più grasso.
Va poi detto, per quanto riguarda il ceppo di Natale, che era sufficientemente diffusa in tutta la penisola, l’usanza di conservarne le ceneri da usare per determinati scongiuri contro i temporali e la grandine. Nel Piacentino i carboni del ceppo erano conservati per “segnare” certe malattie del bestiame, così com’era diffusa l’usanza di osservare con attenzione la forma, il colore, il guizzare e le divergenze della fiamma al fine di trarre vari pronostici, prevalentemente connessi ai raccolti e alla produttività degli animali domestici.
La scannafoglia.
E veniva il rito della “Spannocchiatura” del granoturco, “De lo scartoccià“, “Scartozzà” nel fermano, “Smarroccatura” in Abruzzo, “Sluà ul furmenton” nelle campagne brianzole e “La scannafoglia” nelle campagne attorno a Senigallia e Loreto. Le pannocchie non ancora liberate dalla sfoglia, erano ammucchiate a semicerchio sull’aia, facendone quasi un cordone dietro al quale erano sistemate delle panche per gli operatori, nel mezzo c’era il vuoto. Il contadino afferrava l’apice della pannocchia, v’infilava trasversalmente un sottile bastoncino di legno, aguzzo all’estremità, apriva le foglie e “scamiciava” la pannocchia. Ecco perché l’operazione, in alcune parti, era anche chiamata “la scamiciatura” del granoturco. Il bastoncino di legno appuntito era legato alla mano da una corda avvolta attorno al polso, questo per dare continuità al lavoro. Il legno utilizzato, nelle campagne brianzole, era preferibilmente quello della siepe martellina, una pianta a crescita lenta che produce un legno difficilmente scheggiabile; nelle nostre campagne si usavano invece le “cacciature de li piantù”, gli alberi secolari di ulivo o di quercia. Le foglie erano buttate dietro alle spalle, le pannocchie gettate nel mezzo del cerchio che si andava lentamente riempiendo di altre pannocchie lanciate da cento mani come in una crescente batteria di fuochi pirotecnici. Il lavoro era fatto sempre di sera, dopo cena, ecco perché, sia per vincere il sonno, ma anche per alleviare la fatica fisica, era accompagnato dai canti, quelli “a batoccu“, i più conosciuti. Si chiamavano così perché, come il battaglio della campana batte una volta da una parte una volta dall’altra, così la voce della donna e quella dell’uomo si rincorrevano in una sorta di botta e risposta. Le brattee, le foglie, “Scartoss” in termine brianzolo, raccolte e messe ad essiccare, venivano impiegate successivamente per imbottire i materassi, chiamati anche “I pagliericci“. Occorreva trovare subito la posizione giusta sul letto, perché era uno scricchiolare continuo delle foglie, quando anche non pungevano, senza contare la polvere che il materasso così confezionato poteva liberare. A “scartocciatura” avvenuta, la manodopera era invitata a mangiare una bella “spianatora” di polenta, preparata dalla vergara da noi, dalla “regiura” nella cascina brianzola.
“La scannafoglia era un lavoro che durava dalle otto fino alle dieci di sera. Oltre quest’ora si cominciava a ballare. Ballavano tutti, ragazzi e anziani. Era un’occasione di svago e serviva anche per vincere la monotonia del lavoro”. I cultori del dialetto luretano avranno senz’altro nella propria biblioteca il divertente e preziosissimo libro di Augusto Castellani, ‘Ndamo a scannafojà, momenti de vita luretana, edito nel 1981 a Camerino presso la tipografia di Giovanni Misici Falzi.
Giochi e giocattoli.
A sgranatura avvenuta, anche i tutoli erano utilizzati per alimentare il fuoco del camino o delle stufe. Diverso era l’uso nelle cascine brianzole. Con i “luin“, i tutoli, i ragazzi costruivano una sorta di volano. Infilzavano alla base del tutolo tre penne di gallina e lo lanciavano il più lontano possibile, organizzando anche delle gare, oppure infilzavano un chiodo alla base del tutolo, avvolgevano attorno al chiodo una corda legata all’altro capo ad un bastone; facendo girare velocemente quest’ultimo, la corda si srotolava e la freccia partiva a gran velocità.
“I bambini più piccoli non avevano giocattoli così come sono abituati oggi. I giochi erano costruiti, usando come materia prima ciò che la natura offriva. I maschietti, durante la potatura, giocavano con i fucili di legno, che costruivano da soli. Quando accompagnavano le mamme che si recavano a fare il bucato nel fiume, si divertivano a tirare i sassi, facendoli rimbalzare sull’acqua. Altro gioco era la campana. Costruivano le fionde che chiamavano frecce. Erano delle piccole forchette di legno, ai cui estremi venivano fissati degli elastici con i quali si tiravano i sassi. I grandi, d’inverno giocavano a carte, soprattutto nei pomeriggi di domenica. Il luogo era la stalla. In primavera giocavano alla ruzzola lungo le strade brecciate. Il gioco era praticato con una forma di formaggio stagionato. Veniva lanciata dal giocatore lungo il nastro stradale. C’erano la partenza e l’arrivo. Vinceva chi copriva tutto il percorso stabilito, anche qualche chilometro, con il minor numero di lanci. La ruzzola non doveva uscire dalla strada. Il giocatore bravo, col polso della mano, riusciva a dare ad essa un colpo tale che la ruzzola era in grado di seguire il nastro stradale, facendone anche le curve. Le strade di campagna, ieri come oggi, sono come un otto volante. Se la ruzzola usciva dalla strada, il nuovo lancio era fatto nel punto in cui la ruzzola era uscita”. Il gioco è stato riproposto anche oggi da amanti della ruzzola. Spesso, mi è capitato di recarmi in visita da mio cognato Adriano, a Pasqua o comunque in primavera, e costatare che un tratto della Via Territoriale, che divide il territorio di due comuni, Ostra e Ripe, è utilizzato ancora oggi per la pratica di quest’antico gioco popolare. Continua il racconto: “I bambini andavano dietro ai grandi in questo gioco e se la forma di formaggio lanciata sbatteva contro qualche ostacolo un po’ duro, un paracarro posto ai bordi della strada, era una buona occasione per mangiare il formaggio”.
Ditelo con la poesia.
Per concludere quest’altra puntata, dedicata ai testi lasciati da Giovanna Legatti, ho pensato ad una piccola silloge di poesie trovate nella busta di cui ho parlato precedentemente. Sono legati alla campagna, ai bambini e alla nonna, in tema quindi con la vita materiale nelle campagne, anche se con un registro linguistico diverso. Non recano il nome dell’autore e sono tutte scritte a mano con una grafia chiara e precisa. “Pieno di tenere gemme / è il piccolo pesco / La trasparente rugiada l’invade / I primi raggi di sole / inondano di luce il mattino” (Espressioni di Primavera). “Infinite ombre / oscurano i miei desideri / Strana volontà è la mia / Non posso volare” (Messaggi). “Piccola, laboriosa / tenera nonna / animo nobile di popolana / Nei tuoi azzurri occhi / si perdevano i miei sogni / La tua leggera mano / accarezzava i miei capelli / Quel gesto è con me / per sempre! / Eri candida, pulita / come il tuo luminoso sguardo / Il tuo dolce sorriso / mi protegge, mi scalda il cuore / Una luce accesa / un rifugio / La tua essenza è in me” (Nonna). “Un vociare gioioso / nelle ampie stanze / inonda il mio cuore / di passate speranze / Ora questa realtà / che mi circonda / è una festa a metà / è un chiedersi sempre che cosa sarò / La certezza cos’è? / Cos’è la realtà? / E’ quel vociare gioioso / quel sorriso toccante quel bimbo di allora / che si è fatto già grande” (Giardini d’infanzia).
Raimondo Giustozzi.
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