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Smemoranda La Russia cancella il suo passato coloniale per rabbonire i suoi alleati asiatici

consolidare legami con regimi antioccidentali e giustificare la propria aggressività geopolitica, il Cremlino propone una lettura selettiva della storia, rovesciando i ruoli tra oppressori e oppressi

L’invasione su vasta scala dell’Ucraina non è mai stata una guerra tra due soli Stati, non è Mosca contro Kyjiv. È una sfida che Vladimir Putin ha lanciato a tutta l’Europa e all’Occidente in senso più ampio, quindi a tutte le democrazie liberali. E non è da solo nella sua battaglia. Da tempo sappiamo che al fianco della Russia ci sono l’Iran, la Corea del Nord, la Cina e altri alleati, Stati canaglia, prevalentemente asiatici, che in un modo o nell’altro danno aiuto al Cremlino, rimpolpano le fila dell’esercito invasore, armano l’aggressore e contribuiscono allo spargimento di sangue. Curiosamente, sono corsi in aiuto di Putin Paesi che hanno alle spalle una storia di violenze perpetrate dai russi in varie fasi del loro imperialismo coloniale.

Prendiamo ad esempio la Cina, finita nelle mire dello zar Nicola II (seconda metà dell’Ottocento). Già a metà del diciannovesimo secolo, l’Impero russo aveva approfittato dei tumulti delle Guerre dell’Oppio e della Rivolta dei Taiping per conquistare la Manciuria Esterna, puntando a un comodo accesso all’Oceano Pacifico. Il conte Nikolai Muraviev, governatore generale della Siberia orientale, inviò truppe nel territorio controllato dai cinesi lungo il fiume Amur, rassicurando i rappresentanti cinesi sulle presunte buone intenzioni della Russia: «Non crediate, signori, che la Russia stia cercando di espandere i suoi confini: la vastità, la forza e il potere del nostro Stato possono essere una garanzia sufficiente che tali calcoli non facciano parte dei nostri piani e delle nostre intenzioni».

L’unica preoccupazione della Russia, secondo Muraviev, era «proteggere i propri confini». Eppure, le preoccupazioni per la sicurezza giustificavano un’espansione ulteriore. Come scrisse in un’altra occasione, «la vicina e popolosa Cina, attualmente impotente a causa della sua ignoranza, potrebbe facilmente diventare pericolosa per noi sotto l’influenza e la guida di inglesi e francesi». Così nel giro di pochi anni, la Cina fu costretta a firmare due trattati molto squilibrati a favore della Russia, nel 1858 e nel 1860, cedendo enormi territori – grandi quanto Francia e Germania messe insieme – che sarebbero diventati il cosiddetto Estremo Oriente russo.

Trentacinque anni più tardi, il governo zarista sfruttò la sconfitta della Cina nella guerra contro il Giappone nel 1895 per lanciare un’ambiziosa e straordinariamente moderna impresa coloniale. Tra i più accesi sostenitori della svolta russa verso Oriente ci fu il principe Esper Ukhtomskii, che criticò aspramente il comportamento predatorio degli imperi dell’Europa occidentale in Cina e in tutto il mondo. Dipinse la Russia come l’unica grande potenza che agiva senza egoismi, legata all’Asia da profondi vincoli di amicizia. «La Russia non ha – o meglio, non dovrebbe avere – solidarietà di interessi vitali in Asia con potenze che si nutrono del suo sudore e del suo sangue», scrisse.

Della sete di conquista della Russia ha scritto Oleksandr Polianichev su New Lines Magazine. Polianichev è uno storico del colonialismo e dell’Impero russo all’Università di Södertorn, Stoccolma, e apre la sua ricostruzione storica con un episodio di un anno fa. Era il 7 giugno 2024, durante la sessione plenaria del Forum Economico di San Pietroburgo, un evento ospitato dal presidente russo Vladimir Putin. Le luci nella sala si spensero all’improvviso. L’ampio schermo dietro il podio si illuminò per offrire una toccante lezione di storia al vasto pubblico internazionale di alto profilo. «Per cinquecento anni», disse una voce autorevole, «la civiltà europea ha saccheggiato l’Africa, la Cina, l’India, il Medio Oriente e le Americhe».

Mentre scene di spietati colonizzatori e delle sofferenze dei popoli soggiogati si susseguivano in rapida successione, una colonna sonora inquietante acuì l’atmosfera di inquietudine. La tensione crebbe inesorabilmente finché, all’improvviso, un lampo di luce invase lo schermo, trasformandolo in una colossale bandiera russa. «È iniziata una nuova era. La Russia è l’unico paese nella storia dell’umanità che è riuscito a resistere alla colonizzazione occidentale e, all’inizio del XXI secolo, ha guidato la lotta delle nazioni per un nuovo ordine mondiale», disse ancora la voce narrante.

Questo aneddoto aiuta a inquadrare la portata del revisionismo storico della Russia, che ogni volta vende fumo al resto del mondo proponendo una versione contraffatta della storia. «Dagli ultimi anni della Guerra Fredda, il Cremlino non ha mai usato il concetto di colonialismo come strumento della sua politica estera in modo così aggressivo come oggi. La rappresentazione della Russia come una potenza anticoloniale senza tempo, con una profonda avversione a ogni forma di colonialismo, è diventata un pilastro della diplomazia del Cremlino post-2022», scrive Polianichev.

La propaganda in questo caso ha due obiettivi precisi: da un lato demonizzare le potenze occidentali, colpevoli di aver portato il colonialismo nel Sud del mondo per secoli; dall’altro ripulire l’immagine della Russia, cancellando secoli di brutalità perpetrate in tutti i territori vicini nel continente asiatico.

L’Impero russo si reggeva su un insieme di pratiche militari spietate e una complessa rete di scambi commerciali, reti di comunicazione, corpi diplomatici e vari altri strumenti di influenza e dominio. Strumenti coloniali che fecero della Russia una potenza coloniale a pieno titolo, in competizione con gli altri imperi nella cosiddetta corsa all’Asia (cioè l’idea di poter suddividere il continente in sfere d’influenza da spartire tra le grandi potenze del mondo).

«Oltre alla già citata Cina, nella seconda metà dell’Ottocento l’Impero zarista puntò gli occhi su un altro stato dell’Asia orientale», si legge nell’articolo di New Lines. «Tra il 1880 e il 1890, la Corea attirò un crescente interesse da parte dei politici di San Pietroburgo. Sebbene il governo russo non avesse una strategia concreta per la Corea, che stava gradualmente cadendo sotto l’influenza del Giappone, i suoi ufficiali militari e navali visitarono ripetutamente il paese e le sue acque costiere in missioni di ricognizione. I loro rapporti allo Stato Maggiore dipinsero un quadro vivido del potenziale strategico della regione, alimentando ambizioni che presto sarebbero andate oltre la mera osservazione». E nel 1895, quando la Corea ottenne l’indipendenza nominale dalla Cina, l’addetto militare russo in Giappone, il colonnello Konstantin Vogak, si espresse a favore del sostegno all’indipendenza coreana «finché non avremo l’opportunità di metterci le mani sopra, cosa che, prima o poi, accadrà anche solo per impedire a qualcun altro di farlo».

L’articolo di Polianichev cita anche la Persia, anch’essa diventata bersaglio dell’Impero a partire dagli anni Ottanta del diciannovesimo secolo. Su questo territorio c’era l’intenzione di una conquista pacifica, fondata su decenni di relazioni asimmetriche tra i due Paesi. «Sia i leader russi che gli osservatori internazionali consideravano l’Iran parte di una più ampia scacchiera geopolitica del Grande Gioco, sulla quale gli imperi di San Pietroburgo e Londra si contendevano il predominio sul teatro asiatico. In Persia, più che altrove, Gran Bretagna e Russia erano ossessionate dal contrastare le rispettive avanzate. Per la Russia, questo spesso significava non tanto cercare condizioni favorevoli per sé, quanto creare ostacoli per il suo ex rivale», scrive Polianichev.

Tutti i progetti coloniali dell’Impero russo in Asia proseguirono anche durante i primi anni del Novecento, cercando di mescolare aggressioni militari a tattiche diplomatiche sleali laddove ce n’era la possibilità.

Durante i primi decenni del dominio bolscevico, gli storici sovietici fecero di tutto per svelare la piena portata delle ambizioni coloniali della Russia zarista. Col tempo, tuttavia, questa narrazione fu gradualmente soppressa. Ironicamente, la narrazione tardo imperialista trovò sostegno nell’ideologia sovietica: i custodi sovietici del passato sostenevano che l’espansione russa in Asia fosse stata provocata da minacce esterne. Quindi tutto poteva essere presentato come una minaccia alla sicurezza russa, un filone di propaganda che poi sarebbe stato usato dalla leadership sovietica per giustificare le proprie azioni nei confronti dei vicini europei nei primi anni della Seconda guerra mondiale.

Quindi la natura dell’attuale amicizia, se così si può definire, della Russia con Iran, Cina e Corea del Nord – l’asse del male – risale a un’epoca in cui la Russia cercava di dominarli e sfruttarli, sia congiuntamente sia in competizione con altri imperi coloniali. Ma solo le storie di intervento e dominio europeo vengono rievocate, con un approccio molto selettivo e disonesto, come argomenti politici o opportunamente taciute quando vantaggiose, o persino distorte in discorsi anticoloniali.

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«Proprio come il Cremlino di oggi, molti alti funzionari zaristi insistevano sulla benevolenza imperiale del loro Paese, negando qualsiasi intenzione aggressiva», scrive ancora Polianichev. «Eppure, a differenza degli osservatori della Russia odierna, gli storici hanno l’opportunità di analizzare a fondo i meccanismi interni della mentalità imperiale russa a cavallo tra il diciannovesimo e il XX secolo, rivelando le vere motivazioni, le argomentazioni e le ambizioni nascoste dietro la facciata del presunto abbraccio amichevole della Russia». Provando a vendersi come potenza anti-coloniale, la Russia nasconde la polvere sotto al tappeto: era un grande impero globale, come all’epoca lo erano altre potenze europee. La differenza fondamentale tra la storia imperiale dell’Europa occidentale e quella russa sta nel sistematico silenzio e nella negazione da parte di Mosca.

 

Linkiesta, esteri, 17 maggio 2025

 

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