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Libri. Santa Lucia di Morrovalle La piccola comunità negli anni del Fascismo e della Guerra

Mille lire al mese

di Raimondo Giustozzi

Le massaie rurali

Anche se lontana dai grandi centri cittadini, Santa Lucia, frazione di Morrovalle, venne raggiunta dalla capillare organizzazione fascista. Negli anni trenta del Novecento, nello stesso locale, usato nel dopoguerra come Circolo del Rinnovamento, operava il Circolo delle Massaie Rurali, le cui referenti erano Rosa e Maria. La prima era sposata con Giosuè Nazzareno, il fondatore della futura ditta metalmeccanica che prenderà il nome di Giosuè Otello & Remo, rispettivamente figlio e nipote di Nazzareno. Maria, sposata con Tasso Pacifico, gestiva con il marito un negozio di generi alimentari. Ditta e negozio esistono tuttora, la prima in mano alla terza e quarta generazione dei Giosuè, il secondo è gestito dal figlio e dal nipote di Pacifico.

Rosa Costantini entra a farne parte con tutto l’entusiasmo dei sui trent’anni. Le Massaie Rurali sono istituite in Italia nel 1934 come sezioni speciali dei Fasci Femminili. L’organizzazione arriva a contare più di mezzo milione di aderenti. Rosa e Maria Tasso organizzavano il dopolavoro nella sede filofascista, proponendo iniziative e portando informazioni reperite settimanalmente a Macerata, dove si recava per collaborare con i fratelli Pio e Pietro nel commercio di polli, conigli e uova (Remo Giosuè, i miei ricordi… una vita, una famiglia, un’azienda, a cura del prof. Raimondo Giustozzi, pag. 23,  Digitech, S.r.l.  Recanati, 2014).

Nella famiglia contadina tutto veniva prodotto all’insegna dell’autarchia. Il Fascismo vedeva nella massaia rurale l’angelo del focolare. Era lei che provvedeva a tessere maglie di lana e cucire pantaloni, per figli e marito. “La fatica delle massaie tessitrici era confortata dalla tradizione che le voleva, fin da bambine, intente alla preparazione del loro corredo, spesso prezioso per la qualità della stoffa e per la raffinatezza dei ricami. Il modo di dire quest’abito durerà tutta la vita non era solo un modo retorico di parlare” (Gianfranco Vené, mille lire al mese, pag. 48, Arnoldo Mondadori, Bestsellers Saggi, aprile 1990, TN).

Il telaio sopravvisse al Fascismo. Lo ricordo ancora, era sistemato in una grande stanza a piano terra nella vecchia casa colonica. Ci lavoravano mia mamma, mia zia e mia nonna paterna. Quella casa non c’è più. Esiste solo in una fotografia. Fa parte di quel paesaggio dell’anima che porto con me. La prima casa è stata sostituita, nei primi anni Sessanta del Novecento, da una nuova abitazione, dall’architettura sempre rurale ma che non aveva niente a che vedere con la vecchia, era più bella e più grande. Ho vissuto in questa seconda casa dai dieci ai trent’anni. L’ultima casa, quella esistente, demolita la seconda, costruita da un signore del posto, è sistemata in una posizione più decentrata rispetto alle prime due, ma non ha nulla dell’architettura rurale. E’ una bella ed elegante villetta.

Necchi e Singer

Nella casa dell’infanzia e dell’adolescenza faceva bella mostra di sé una vecchia macchina per cucire. Era una Singer. Mia cugina, sarta, l’adoperava per il lavoro. Ho ritrovato lo stesso esemplare a Giussano, città dove ho abitato dal 1977 al 1996. Era di proprietà di due sorelle, diventate per me, per mia moglie e per mia figlia, zia Faustina e zia Lena. Le chiamavamo appunto zie, come se ci fosse con un legame di parentela, tanto eravamo affezionati a loro. Condividevamo lo stesso pianerottolo della casa e momenti di conversazione. La macchina da cucire, una Singer, adoperata dalla mamma, per costruire le divise per i soldati della prima guerra mondiale, era stata data in dono dalla mamma a zia Lena, la figlia più grande, in occasione del suo matrimonio.

La famiglia gestiva una modesta trattoria nel centro di Giussano. Il locale era spesso raggiunto da Filippo Turati e da altri esponenti del Partito Socialista milanese. Il racconto delle due sorelle è convalidato anche da documenti scritti e da altre fonti orali. La vecchia Singer ha attraversato gli ultimi anni dell’Ottocento, tutto il Novecento e questi primi ventidue anni del Duemila.

Scrive Gianfranco Vené: “Negli anni Venti e Trenta, quando nei campi, mariti, padri e fratelli delle massaie tessitrici lavoravano ancora la terra con l’aratro di legno come prima di Cristo, nelle grandi cucine incrostate dalla caligine del camino che di giorno cucinava la polenta e di sera arroventava la sansa (semi di olive triturati per scaldare senza sprechi, c’era sempre una macchina per cucire Necchi o Singer. Parevano monumenti votivi al passaggio dalla civiltà artigianale a quella industriale: verniciate di nero, come la locomotiva a vapore o le presse idrauliche delle grandi fabbriche, erano ingentilite da aurei decori floreali. Funzionavano al movimento di una pedaliera di ghisa traforata che per messo di una biella faceva girare una ruota a raggi collegata attraverso una cinghia di trasmissione tubolare a una ruota più piccola dalla quale dipendeva l’intero meccanismo. Costavano 100 lire, 130 al massimo. Le donne, nel pedalare, accompagnavano l’avvio della ruota piccola con ripetute carezze per cui il bordo era sempre lucente” (Ibidem, pp. 49 – 50). Ora la vecchia Singer di zia Faustina e zia Lena è diventata occasione di gioco per le mie due nipotine, che si divertono a turno a muovere la pedaliera. Il paesaggio dell’anima si rinnova sempre di nuove memorie fin quando ci è dato da vivere.

 

L’arrivo dei Tedeschi, gli sfollati, gli anglo americani

Era una piovosa mattina di fine maggio inizio giugno del 1944, quando all’alba, anche Santa Lucia di Morrovalle, la piccola frazione di campagna, venne raggiunta dalle truppe tedesche. Si sa che l’esercito del Terzo Reich, rotto il fronte attestato sulla linea Gustav che andava da Montecassino ad Ortona, per dar modo al grosso delle truppe di correre sulla nuova linea Gotica che si sviluppava da Rimini a La Spezia, cercò di approntare delle leggere linee di difesa, una di queste fu quella sistemata a ridosso del fiume Chienti. Il comando tedesco pose la propria base nella casa di Giuseppe Giustozzi, dispiegando la truppa, le cucine da campo ed i pezzi di artiglieria trainati da magnifici cavalli prussiani. I cannoni piazzati nei campi e davanti alla casa sparavano in direzione di Monte San Giusto e verso la vallata del Tenna per ritardare l’avanzata dell’esercito anglo americano. Molte famiglie a Santa Lucia furono raggiunte dalla prepotenza dei nuovi arrivati che portavano via bovini, maiali, pecore, polli, insaccati, prosciutti e vino.

Remo, classe 1938, ricorda nelle sue memorie che due soldati tedeschi andarono nella stalla del nonno materno Giuseppe Cerquetti per prendere un vitello. Nonno, aiutato dalla moglie, nonna Luisia, e dalla nuora Argentina, si oppose con forza, trattenendo l’animale ora  per la coda, ora per le orecchie. Non ci fu verso, perché i tedeschi, minacciandolo con la pistola, lo costrinsero a cedere. Presero il vitello, portandolo nell’aia di casa Giustozzi dove avevano il loro accampamento. Anche l’organetto del papà Paolo fu oggetto di interesse dei militari tedeschi, se lo presero per divertirsi, ballando e cantando. Nonna Rosa si recò nell’accampamento militare per recuperare il prezioso strumento tanto caro a suo figlio Paolo. Nell’occasione, vedendo che i tedeschi avevano una bella tavola in legno, lunga quattro metri, propose lo scambio dei due oggetti con una fascina di legna. Riuscì nell’intento.

Comunque, il pericolo incombente costrinse molte famiglie a sfollare. In casa Giosuè rimasero solo nonna Rosa e nonno Nazzareno, mentre il resto della famiglia, con il fratello Giuliano, di appena due anni, andò a rifugiarsi in zona Puzzolu presso i Romagnoli, loro parenti, “Checco de ‘Nguillà”, la cui moglie, Marietta Costantini, era la sorella di Rosa. Da Romagnoli, la famiglia rimase per un mese, ma non erano i soli. Arrivammo ad essere circa cinquanta persone, che vivevano sotto lo stesso tetto. Pio Costantini e famiglia avevano dieci figli, Pietro Costantini e famiglia con cinque figli, Pietto Montemarani e famiglia avevano anche essi cinque figli; della comitiva facevano parte anche altri sfollati alcuni dei quali venivano da Civitanova Marche, raggiunta da ripetuti bombardamenti anglo americani.

Gli sfollati avevano scavato nel campo di Romagnoli un canale profondo più di due metri, lungo circa trenta metri, ricoperto da fascine di legna e covoni di grano, per ripararsi dalle schegge, dalle bombe e dalle mine sempre in agguato. Il posto era pervaso da un profondo silenzio. Le persone, spaventate, pregavano ininterrottamente, mangiando solo qualche tozzo di pane con lardo e verdura.

Quando alla fine di giugno 1944 i Tedeschi se ne andarono, ritornammo nella nostra casa di Santa Lucia. Non avevamo fatto nemmeno in tempo ad arrivare che vedemmo sbucare dalla strada della Burella e dall’altra strada che scende dalla sommità di una collina vicina, le truppe polacche, inglesi, scozzesi, africane, attrezzatissime, con autocarri, jeep, camionette, materiale per ripristinare ponti, cucine da campo, prodotti alimentari, coperte, benzina, vestiario, sigarette, corde ed ogni altri ben di Dio. Vicino alla nostra casa si fermarono, sotto l’ombra di querce secolari, poste sul ciglio della strada, decine di autocarri e camionette. I soldati chiesero a nonna Rosa dove potevano attingere un po’ d’acqua per lavarsi e per bere. Nonna Rosa indicò loro la vicina fontana “de Felicì!” che raggiunsero subito in un batter d’occhio. I soldati la ringraziarono calorosamente, stringendole la mano e, chiamandola mamma, le donarono di tutto: latte, carne in scatola, coperte, cappotti, maglie, camicie, anfibi e scarponi. Il via vai delle truppe polacche durò per parecchi giorni sulla strada di Santa Lucia, alcuni polacchi con il loro comando si fermarono invece per circa un anno a Morrovalle, aspettando ordini sul da farsi (Remo Giosuè, i miei ricordi… una vita, una famiglia, un’azienda, pp. 41 – 46, op. cit.).

Altre memorie sulla guerra

Sono memorie che appartengono anche a me che non c’ero ancora, ma sono racconti che ho sentito sempre fare dai miei e dalla gente di Santa Lucia, frazione di Morrovalle dove sono nato. I tedeschi arrivarono alle quattro di mattina di un giorno imprecisato di inizio Giugno 1944, accompagnati da una pioggia battente. Calci alla porta, grida, comandi secchi e perentori urlati con una lingua incomprensibile. Si alzarono tutti: mio zio Alberto, mia zia Nerina da poco sposata, mia nonna Teresa, mio nonno Giuseppe, grande invalido della prima guerra mondiale, le mie due zie: Marietta e Norina ancora ragazze, mio papà Luigi era al fronte. I militari erano tutti bagnati fradici.  Mossa a compassione, anche pensando al proprio figlio lontano, mia nonna si adoperò subito per accendere un gran fuoco sul camino e permettere loro di asciugarsi. Sul tavolo comparvero pane, uova, salame e vino. Gli ufficiali convinsero mio nonno e mio zio a lasciare libera la casa che sarebbe servita al comando tedesco, mentre il resto della compagnia veniva sistemata nei pressi di un’altra casa colonica vicina. Le mucche nelle stalle vennero tirate via per far posto a magnifici cavalli che trainavano pezzi di artiglieria.

Erano tanto alti, ricordava zia Norina, che arrivavano con la loro testa quasi al primo piano di casa. Davanti alla abitazione di campagna, fattosi giorno, sistemarono subito due cannoni, altri due, uno nei campi lavorati dai miei, l’altro nella collina vicina. Vennero mimetizzati con fascine, tronchi d’albero tagliati ad altezza d’uomo, in uno dei tanti fossati disseminati per la campagna. I miei, trovandosi nel bel mezzo delle operazioni militari, furono costretti a sfollare, convinti anche garbatamente dai nuovi ospiti. Portarono le bestie e le poche masserizie nella casa di un contadino che abitava poco lontano. Ventisei giorni restarono i tedeschi. Sloggiarono alla fine del mese di giugno. Ogni giorno i cannoni sparavano in direzione del fiume Tenna e del Chienti per bloccare l’avanzata alleata, nella sistematica distruzione di ponti, strade e ferrovie. Il grano giunto a maturazione rimaneva nei campi. Era impossibile la mietitura con le armi sopra la testa. Gli occupanti si comportarono bene. Solo mia zia non trovò un bel mattino un fagottello di lana che aveva nascosto alla meglio in un canneto vicino. Gli ufficiali convocarono i soldati ed il colpevole venne subito individuato.

Il corredo da sposa era rimasto miracolosamente nascosto nell’intercapedine tra la lettiera e il piano di scolo per le urine degli animali, nella stalla occupata dai magnifici stalloni prussiani. Via i tedeschi arrivarono gli alleati. Più di un anno continuò il flusso di uomini, carri armati, autoblindo, su e giù per i campi che non potevano avere le cure necessarie, anche per i nuovi arrivati c’era tutto quello che la casa offriva ed in abbondanza: uova, salame, prosciutto, pane, vino, polli, insalata, pomodori. Un episodio divertente: alcuni soldati di colore avevano chiesto i pomodori. I miei avevano capito il salame. Glielo offrirono. I soldati, di fede mussulmana,  arretrarono con terrore. Alla fine si spiegarono meglio, gli altri capirono ed i primi ebbero quello che avevano chiesto.

 

Passato e presente

Ricordare il passato non serve a niente, se il ricordo degli orrori, causati dalla seconda guerra mondiale, non ci aiuta a mettere fine a quella in corso, scatenata dalla Federazione Russa contro l’Ucraina. Tanti paragonano la resistenza degli Ucraini agli eroi di Stalingrado. C’è un esercito invasore, che ricorda quello tedesco, e un altro che si difende, supportato dagli aiuti degli Stati Uniti e dall’Europa, quello ucraino. Negli anni più bui dell’Operazione Barbarossa, scatenata dalla Germania Nazista contro l’Unione Sovietica, furono di Stati Uniti a supportare l’Armata Rossa con l’invio di ingenti aiuti militari, attraverso la legge Affitti e Prestiti. Nikita Kruscev e il generale russo Zhukov ripetevano spesso che senza l’aiuto americano l’URSS non ce l’avrebbe fatta a sconfiggere le armate tedesche. I dirigenti dell’URSS e l’attuale leadership del Cremlino hanno sempre preferito un’altra narrazione, parlando di guerra patriottica. Senz’altro c’è stata assieme all’epopea di Stalingrado, ma da sola non sarebbe bastata.

Oggi le parti si sono invertite. Nelle conversazioni dei soldati russi al fronte con i propri familiari in Russia c’è tutta la condanna per una guerra che loro non vogliono. Alcuni commentatori hanno trovato delle analogie con le ultime lettere da Stalingrado, scritte dai soldati tedeschi alle proprie famiglie in Germania. Maledicevano Hitler e chi li aveva mandati a morire per inseguire sogni imperialistici. Nella Federazione Russa gli uomini che ne hanno avuto la possibilità sono fuggiti in stati stranieri, Kazakistan, Mongolia, Georgia, per non essere arruolati nell’esercito. Nella storia degli umani conflitti poche volte gli eserciti nazionali hanno rappresentato la difesa della patria. Quello dell’Unione Sovietica ha difeso la patria in armi a Stalingrado, non quello a Budapest (1956), a Praga (1968), in Afghanistan (1979- 1989) né l’esercito della Federazione Russa in Ucraina. La stessa cosa si può dire di quasi tutti gli eserciti nazionali, italiano, francese, inglese, americano.

Raimondo Giustozzi

 

 

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