di Raimondo Giustozzi
“Nei borghi agricoli dove non succede mai niente ed il tempo è scandito dal variare delle stagioni, quando si preannuncia l’arrivo delle processioni con la statua di Maria, si spande un po’ di gioia. E’ un gran divertimento quel tremolare di lumini che s’accendono la sera per onorare la Vergine. L’orgoglio delle famiglie si rivela nell’esporre sui davanzali quante più candeline è possibile: grazie alle fiammelle in cera bianca e carta rossa si può dimostrare tutto il proprio entusiasmo e devozione” (Cfr. Marta Boneschi, Poveri ma belli i nostri anni cinquanta, pag. 80, Milano 1995).
Renzo, un signore di Giussano, che ho conosciuto nel mio lungo soggiorno in Brianza, ricordava tanto tempo fa e con nostalgia l’arrivo delle Madonne Pellegrine. Ne erano ben cinque quelle che circolavano nei paesi di Giussano, Mariano Comense, Paina, Carugo, Arosio, Verano Brianza, Carate Brianza e di altre cittadine del circondario. Quando la Madonna Pellegrina arrivò a Giussano, si fermò per due o tre giorni presso una determinata ditta, poi venne portata presso un’altra azienda e c’era sempre un concorso di pubblico entusiasta che partecipava al pellegrinaggio. Erano i primi anni Cinquanta del secolo scorso.
In paese si faceva a gara tra chi addobbava meglio i portoni delle cascine e delle corti. La cascina brianzola aveva sempre, in diversi angoli del fabbricato, immagini sacre dedicate alla Madonna: quadri, statue, addobbate con fiori e lumini accesi. Cappelle votive erano posizionate all’incrocio delle stradine che attraversavano la campagna. All’arrivo delle madonne pellegrine si andava sempre a piedi da un paese all’altro e prima delle undici di sera non si rincasava mai. Si recitava il rosario, si cantava ed i trasferimenti da un luogo all’altro non erano affatto faticosi, in quanto si stava insieme e già questo bastava per sentirsi appagati e felici.
Quello delle Madonne Pellegrine fu un fenomeno che interessò tutta l’Italia. Gianni ricorda l’arrivo della Madonna di Fatima. Proveniva da Macerata e attraversò la frazione di Santa Lucia, comune di Morrovalle. L’aria frizzantina della sera aveva consigliato di vestirsi con abiti pesanti. La strada era assiepata da persone, arrivate a piedi dalle case coloniche più lontane. La statua della Vergine Maria era issata su un grosso camion, con due angeli bianco vestiti ai lati. Si fermò all’altezza della chiesa, mentre don Primo Antonelli recitava il rosario e la gente rispondeva in ginocchio ai lati della strada.
Le edicole votive
Le edicole disseminate nelle nostre campagne presentano tipologie architettoniche molto diverse tra loro. Alcune rassomigliano a vere e proprie chiesette come quella di via Castellano 29 in contrada Burella nel comune di Morrovalle, aperta a chi vuole farvi una sosta e pregare. E’ assai antica, sul frontone si legge A.D. 1110. E’ stata riedificata poco tempo fa dopo il crollo. A tutt’oggi viene usata per il mese mariano. Quella posta in località Borgo Santa Lucia di Morrovalle, all’incrocio tra la strada che porta a Macerata e l’altra che scende verso la Burella è di data più recente. Una epigrafe posta in basso, recita così: “Il popolo di S. Lucia ricorda il passaggio della Madonna del Pianto il 31. 03 1950”. E’ stata voluta dalla pietà popolare dei fedeli della Diocesi Fermana molto devoti al culto della Madonna del Pianto.
La devozione verso la Madonna del Pianto fu voluta tenacemente dall’arcivescovo mons. Norberto Perini (6 giugno 1888, Capriano – 9 dicembre 1977, Rho), pastore della diocesi fermana dal 1942 al 1976. Negli anni più foschi della guerra, dopo l’8 settembre 1943, chiese e ottenne che la città di Fermo venisse dichiarata città aperta: “Rivestito delle sue insegne arcivescovili, affrontava la vigilanza delle truppe tedesche per portarsi tra le popolazioni in disagio, specie dopo i bombardamenti subiti da Civitanova Marche, Porto San Giorgio e Porto Sant’Elpidio. Nel periodo post bellico la sua preoccupazione fu centrata sulla ricostruzione morale e religiosa con la Peregrinatio Mariae del simulacro della Madonna del Pianto, compiutasi in tutte le parrocchie” (Mons. Norberto Perini, Lettere Pastorali, pag.20, a cura del Centro Sociale Anziani nel cinquantesimo anniversario del suo ingresso nella diocesi di Fermo 1942 – 1992, Edizioni T.A.F. Corridonia, 1992). A Morrovalle, all’inizio della stradina che conduce al cimitero, esiste tuttora un’edicola votiva dedicata all’effige della Madonna. La didascalia scolpita sul marmo reca scritto: “Ave Maria, pellegrina di pace, resta con noi, due aprile 1950).
Indubbiamente le edicole votive rappresentano un’arte minore. Le raffigurazioni sono il più delle volte di autore ignoto, da qui il termine di “pinturette” che si dà genericamente all’edicola, piccola pittura ma è immenso il loro valore perché sono la testimonianza della fede popolare. L’edicola, dal latino “aedicula”, diminutivo di aedes, “tempio”, è un tempietto in miniatura che ospita una statua della Vergine o la raffigurazione di una divinità. Dalle nostre parti sono anche chiamate “Madonnette” o “Pinturette”, quando recano l’effigie della Madonna, del Sacro Cuore o della Sacra Famiglia, e indifferentemente tutte le edicole votive. Alcune località prendono il nome dalla presenza di queste “pinturette” da qui, la frazione di Borgo Pintura, nel comune di Morrovalle, dove esiste una cappellina posta a destra se si percorre la strada che dal paese in alto va verso Trodica, a sinistra se si percorre la via in senso inverso.
Accanto alle edicole sorgono agli incroci stradali, ma anche ai lati di strade trafficate, altri segni religiosi. Sono croci, piccoli monumenti, stele che ricordano eventi lontani e vicini nel tempo. E’ il caso della croce piantata ai lati della strada per Macerata, poco dopo Borgo Santa Lucia di Morrovalle. E’ stata collocata, proprio lì dove si trova tuttora, il 4 Ottobre 1965 a seguito di una grande missione popolare predicata dai Padri Passionisti di Morrovalle. Sulla lapide si legge: “O Gesù Crocifisso/ Amabilissimo/ Amatissimo/ Noi ti amiamo/ Abbi pietà di noi/ O re della pace/ Donaci la pace”. L’alta croce in ferro posta su un basamento in granito venne costruita dalla locale ditta metal meccanica Giosuè Otello – Remo & C. La stessa ditta aveva costruito in precedenza tutte le profilature in ferro che chiudono con il vetro altre edicole dedicate alla Madonna, esistenti dopo il torrente Trodica, a destra della strada per Macerata.
Le rogazioni nelle campagne
La scomparsa del mondo contadino va di pari passo con la messa in soffitta delle prime feste di Primavera. Erano feste religiose le cui origini si perdevano nella notte dei tempi. Ancora negli anni cinquanta ed oltre non era raro imbattersi, nei tre giorni che precedevano la solennità dell’Ascensione, con le processioni che si snodavano per le stradine polverose delle campagne. Davanti andava il sacerdote, dietro i fedeli. Erano le rogazioni, funzioni propiziatorie che traevano origine da antichissimi riti pagani: gli “Ambarvalia” e i “Robigalia”. Cantava Ovidio: “ora è fertile il suolo, ora il bestiame procrea/ e l’uccello prepara il suo nido sui rami/ Con ragione la madre latina, per cui milizia/ e voto è il parto, onora questa stagione feconda”.
L’uomo ha sentito sempre il bisogno di crearsi un rapporto con una entità capace di proteggere i suoi passi, accompagnarlo nel cammino, preservarlo dalle insidie, aiutarlo nelle difficoltà, per questo ha cosparso di immagini sacre le sue dimore, i luoghi della sua quotidianità, le strade dei suoi tragitti abituali. Nell’antica Grecia c’erano le Erme, chiamate così perché dedicate al dio Ermes protettore dei viandanti, collocate agli incroci delle strade. Tale uso venne ripreso a Roma. La Primavera, la bella stagione, quella più invocata, dopo i rigidi mesi invernali esplodeva rigogliosa. Tutto ritornava a nuova vita. Anche Virgilio nelle Georgiche parla delle invocazioni a Cerere, la dea delle messi. Ogni anno, al 25 Aprile, il popolo si recava in pellegrinaggio al quinto miglio della via Clodia, al tempio sacro a Robigus, una divinità malvagia, che causava la ruggine nel grano o nelle biade. Qui sacrificavano un cane o un montone per propiziarsi il suo favore. Erano i “Robigalia”. Gli “Ambarvalia” consistevano invece in circumambulazioni con animali sacrificali lungo il perimetro degli “arva”, le terre coltivabili di una città, con la funzione di rendere il territorio compreso in esso, invalicabile sia dai nemici umani sia dalle potenze malefiche che provocavano malattie. Erano celebrati in onore del dio Marte affinché difendesse il territorio permettendo a divinità specifiche: i Lari del suolo, Cerere e le entità designate dalla parola Semones, personificazione della semente, di compiere un lavoro creativo e mutevole secondo le circostanze.
Al sopraggiungere del Cristianesimo queste pratiche furono cristianizzate: una processione ad esempio partiva dalla basilica di S. Lorenzo in Lucina, si snodava lungo la Flaminia e attraversato il ponte Milvio giungeva fino a S. Pietro. Durante la processione, racconta Papa Gregorio Magno, si cantavano le litanie, si facevano suppliche contro le calamità e venivano benedetti i campi ed i raccolti. La Chiesa ampliò il termine di “chiedere per ottenere” abbondanti frutti della terra, estendendole a tutte le necessità dell’uomo: liberare da ogni male, esaudire ogni desiderio di qualunque natura. Così, insieme alle litanie di tutti i santi e della Madonna, si cantava: “A fame, a peste, a bello, libera nos Domine”. Liberaci, Signore dalla fame, dalla peste, dalla guerra. I flagelli di allora sono gli stessi di oggi: Pandemia da Covid, guerra in Ucraina, crisi economica, alluvioni devastanti, terremoti.
Il rito era pieno di fascino arcano con paramenti, baldacchini, stendardi, incensamenti con turiboli e aspersori. Il sacerdote benediceva i campi con l’aspersorio, invocava il nome dei Santi ed invitava alla preghiera. I fedeli si inginocchiavano e pregavano perché fosse allontanato il flagello della grandine che se fosse caduta avrebbe danneggiato irrimediabilmente il grano giunto a maturazione. In caso di prolungata siccità si invocava la pioggia e si organizzavano processioni. Tutto intorno, sui cigli dei fossati e delle fratte cresceva l’asparagina usata per costruire gli archi trionfali, manifestazione di fede popolare che sa di un tempo andato. La secolarizzazione trionfante veniva a sostituire, nel bene e nel male, tutto quello che c’era stato prima. Con il tempo, il rito delle Rogazioni veniva definitivamente accantonato. Contadini non ce n’erano più, mucche nelle stalle nemmeno, non si riteneva quindi necessario supplicare nessuno. Le polizze contro la grandine coprivano i danni causati dal flagello. Cambiavano anche le manifestazioni di fede, non più ingenua e superstiziosa ma più esigente e matura, almeno così si dice.
Le merende in riva al fiume
Nei borghi rurali e nella campagna più profonda, la festa di San Vincenzo Ferreri era l’occasione per uscire e vivere una ventata d’aria nuova. Il termine “Gita fuori porta” non era stato ancora coniato. Si parlava più di merende e scampagnate. La meta più ambita era il fiume, il mare dei poveri. La casa colonica, dove abitava la nonna materna, era grande. Le scale esterne terminavano con un balcone coperto. Era su una collina posta a un paio di chilometri circa dal fiume Chienti, in contrada Acquevive, poco lontana da Corneto nel comune di Macerata. La vista spaziava sulla sottostante carrareccia dove, d’estate, di tanto in tanto, passava qualche macchina. Quasi tutte avevano il tettuccio ingombro di gommoni e canoe. I nipoti chiedevano allo zio Marino di chi fossero quelle poche macchine. Erano dei signori che andavano al mare. I poveracci andavano al Chienti. La nonna preparava grandi ceste ricolme di vivande. Si arrivava al fiume. Nonna, mamme e zie preparavano grandi tovaglie bianche stese sull’erba. Tutti mangiavano ogni ben di dio nell’allegria e nella serenità della famiglia.
Si ritornava a casa della nonna, per ripartire nel primo pomeriggio con il treno dalla stazione di Corridonia per quella di San Claudio. Da qui, fino a Santa Lucia, frazione di Morrovalle, si prendeva la scorciatoia e si attraversavano a piedi sentieri in terra battuta. Qualcuno può arricciare il naso, pensando alla propria infanzia trascorsa nel benessere e nella bambagia. A Gianni non importa proprio un bel niente di ciò che può pensare lo spocchioso di turno o chi è scontento di tutto. In quel poco che il nostro aveva, c’era tutto. Questo bastava e avanzava. “…Godi del nulla che hai 7 del poco che basta / giorno dopo giorno: / e pure quel poco / – se necessario – / dividi…”(Davide Maria Turoldo). Ovviamente, questi versi, Gianni li ha imparati da grande, li ripete di tanto in tanto per esercitare la memoria ora che non è più giovane, poi perché crede nel messaggio della poesia. Si sbagliava quella signora, eppure istruita, che questi versi sono ispirati solo da una vena religiosa. Non è vero. Sono anche profondamente umani, anche se scritti da un religioso. La religione non annulla l’umanità, anzi l’innalza.
“Ed erra l’armonia per questa valle”
Molti anni fa questo verso di Giacomo Leopardi, preso a prestito dalla poesia “Il passero solitario”, voleva celebrare la bellezza della terra marchigiana. “L’Italia in una regione” recitava un altro slogan. E’ ancora vero tutto questo? Un tempo, la “Terra delle armonie” voleva dire fatica disumana nel voltare e rivoltare la terra con l’aratro tirato dalle mucche, le braccia erano pezzi di legno a sera tardi, dopo aver sferrato e inferrato centinaia di volte il vomere ad aprire la terra per la semina. Quello che Gianni ricorda di quel tempo non ha nulla a che fare con il nostro presente.
Non c’è più nessuna armonia nei campi bruciati dal sole, erosi dall’acqua, privi di alberi. Non ci sono più i contadini, che una volta controllavano fossati e aprivano canali di scolo, i famosi “aquaticci”, posti a spina di pesce nei campi, piccoli fossi che si raccordavano a quelli più profondi. Il contadino era il custode, la sentinella, la guardia ecologica e nemmeno lo sapeva. Ma è stato giusto che tutto fosse finito così. Nulla suggeriva al contadino di rimanere: il medievale patto di mezzadria, solitudine e miseria. Rimane solo la constatazione che la generazione di chi da secoli, di padre in figlio, era legata alla terra, è stata l’ultima e non ce ne sarà un’altra.
Il mondo che non c’è più è da sostituire con qualche cosa d’altro. Professionisti e geologi parlano di dissesto idrogeologico. Si sottrae sempre più suolo per costruire infrastrutture. Il contadino, che non curava il fondo e le sponde dei torrenti, che non apriva canali di scolo, metteva a repentaglio la propria sopravvivenza e quella della famiglia. Un’inondazione improvvisa voleva dire cattivi raccolti, povertà che si sommava ad altra povertà. Sapeva tutto questo e si comportava di conseguenza. Ogni generazione imparava da chi l’aveva preceduta. Oggi si parla di cambiamenti climatici e di nuovi catastrofici fenomeni atmosferici. A questi mali estremi occorre contrapporre rimedi estremi, soprattutto per limitare i danni, che gravano su tutti. Si parla di creare vasche, aree di sfogo per l’esondazione dei fiumi, ma non si fa nulla in questa direzione. Il tempo per agire sta passando in modo inesorabile. Chi ha l’onere e l’onore di amministrare il bene pubblico deve fare e non parlare. Deve essere messa a denominatore comune la responsabilità di ogni istituzione.
Raimondo Giustozzi
Bibliografia
- Marta Boneschi, Poveri ma belli i nostri anni cinquanta, Milano, 1995.
- Mons. Norberto Perini, Lettere Pastorali, a cura del Centro Sociale Anziani nel cinquantesimo anniversario del suo ingresso nella diocesi di Fermo 1942 – 1992, Edizioni T.A.F. Corridonia, 1992.
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