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Giovanna Legatti, la maestra d’Italia. Unitre di Senigallia e interesse verso la storia locale.

Giovanna Legatti Tamagnini

Giovanna Legatti (Vigolzone (PC) 1921 – Apiro (MC) 2012), andata in pensione nel 1972, si trasferisce assieme al marito Giuseppe Tamagnini (Poggio San Vicino (MC) 1910 – Iesi (AN) 2002) prima ad Ancona, poi a Senigallia. Negli anni novanta partecipa attivamente agli incontri promossi dalla locale Università per anziani, così si chiamava allora l’Unitre, raccogliendo e catalogando tutti i materiali prodotti nel corso dell’anno accademico 1995/ 96. Giovanna Legatti, nel mille novecento novantasei, a settantacinque anni, era ancora curiosa di conoscere e di sapere. L’assessorato alla cultura e alla pubblica istruzione del comune di Senigallia, in data 30 gennaio 1996, invitava tutti gli iscritti dell’università per anziani a raccogliere testimonianze che toccassero i seguenti argomenti: i luoghi e i giochi dell’infanzia, il lavoro dei genitori, gli eventi bellici e politici, le attività lavorative, le credenze popolari, gli aneddoti e le storie di vita vissuta.

La lettera e i materiali, alcuni scritti a mano, altri dattiloscritti sono raccolti in una busta che ho avuto da mio cognato Adriano, grande amico di Giovanna e di Giuseppe Tamagnini. Mi è sembrato giusto e doveroso portare a conoscenza il contenuto. Giovanna Legatti non ha avuto il tempo per farlo. Lo faccio io gratuitamente, rubando il poco tempo che ho, dopo la cura dei nipoti. Il presidente del Consiglio ha accusato i pensionati di essere come l’avaro di Moliere, perché rivendicano, per una manciata di euro, l’adeguamento della pensione al costo della vita. Quello che spetta, anche se poco, va dato, senza offendere la dignità di nessuno. Aggiungo poi che vale più un’ora di volontariato, spesa per fare informazione e corretta, al vuoto riempito dal nulla di tanti, compreso il presidente del Consiglio, quando fa queste esternazioni. “Chi sa volare deve insegnare a tutti il volo e non confondersi per solidarietà con i pedoni” (don Lorenzo Milani). Era anche lo spirito di Giovanna Legatti.

In una scheda scritta a mano, contenuta nella busta, si riportava l’attuale circoscrizione (1996) di Senigallia, che comprendeva: Arcevia, Barbara, Castelleone di Suasa, Ostra Vetere, Ostra, Ripe, Monterado, Serra dei Conti, Corinaldo e Senigallia. Oggi, i tre comuni di un tempo: Ripe, Castel Colonna e Monterado si sono fusi in un unico comune sparso, quello di Trecastelli (AN). Ognuno dei tre centri di un tempo ha una rocca o un castello alla sommità del paese. Ecco il motivo del nuovo comune che si estende dalla vallata del Misa a quella del Cesano. Nella stessa scheda erano elencate le attività produttive scomparse o in via di estinzione. Il bottonificio era presso il rione Porto. C’era la filanda (Pigariboldi). Lo zuccherificio era dove oggi sorge il complesso Hotel Palace. Il negozio di macchine agricole era, dove è il palazzo abitato da Giovanna Legatti. La Coppolara ospitava la lavorazione e il commercio del pescato. La fabbrica di corde si trovava, dove sorge il fabbricato ex Gil. Esistevano poi: il cantiere navale, ancora parzialmente funzionante, Naval Meccanica, il cementificio Sacelit – Italcementi ora del tutto demolito.

Tutti i testi raccolti nella busta non hanno un ordine preciso. Sono messi alla rinfusa. Alcuni sono il frutto d’interviste, altri sono racconti orali costruiti sui ricordi degli anziani. Dopo averne letto il contenuto, ho pensato di raccoglierli sotto quattro grandi capitoli: le attività produttive in città, la vita materiale nelle campagne, i ricordi di scuola, della guerra e dello sfollamento, gli anni del dopoguerra.

 

Le attività produttive in città.

La Coppolara.

Nel dialetto di Senigallia e dintorni, le coppole sono le vongole. Nella spiaggia di ponente, a pochi metri dal mare, fino agli anni cinquanta – sessanta del secolo scorso, esisteva un grande capannone lungo circa sei metri, largo venti e alto non più di tre metri. Era la Coppolara. I pescatori vi portavano le vongole, dove venivano selezionate e commercializzate. La pesca delle vongole era praticata a mano o servendosi di un particolare attrezzo vagamente somigliante ad un gigantesco rastrello. “Non esistevano le macchine aratrici del mare, che con la loro potenza sradicano completamente tutta la vita nei fondali piatti del nostro mare e fino a qualche centinaio di metri dalla spiaggia. A seguito di violente mareggiate, le coppole, vongole arrivavano fin sulla spiaggia ed era facile per chi era esperto raccoglierle anche a mano. Altri invece si munivano di un enorme rastrello che aveva legata tutto attorno una rete metallica. Fissavano alla propria vita un manico lungo circa due metri e ancorato ai pettini dell’attrezzo. Muovendosi a piccoli passi all’indietro, trascinavano rastrello e rete metallica incorporata che si riempiva di vongole. Assieme a loro rimaneva nella rete un mollusco dal sapore molto gustoso. Il mollusco veniva chiamato calcinello nel nostro dialetto”. Alla Coppolara lavoravano soprattutto donne. Con la comparsa delle vongolare, imbarcazioni attrezzate per la pesca delle vongole, anche quest’attività artigianale è scomparsa. Nel luogo dove sorgeva, il fabbricato per la commercializzazione del pescato sono stati costruiti due grandi alberghi.

Pesca e vita

Morandi, così si firma l’autore del racconto pesca e vita, ricorda la propria famiglia e il mestiere del pescatore. Nato negli anni precedenti la grande guerra, scrive: “La mia era una famiglia povera e la povertà, con la fine della guerra, si tramutò in miseria. Fui costretto ad abbandonare la scuola per il lavoro. M’imbarcai come mozzo, muré nel nostro dialetto, sulla Giustina che era stata ripristinata dopo quattro anni di ferma. Data la mia giovane età, fui assegnato ai lavori poco gravosi. Lavavo i piatti, facevo le pulizie, aiutavo i marinai all’acquisto di cibo, acqua e quanto serviva per tutto il tempo della pesca. Questa avveniva di notte, fatta con la rete capasfoglie o sfogliara, trainata dalla forza delle vele prima e dal motore poi. L’illuminazione era scarsa, data dai lumi a petrolio o da una luma alimentata dall’olio di oliva, che restava accesa per tutta la notte. In coperta c’era una lanterna all’interno della quale ardeva una candela. La pesca diurna era fatta da barche che procedevano appaiate, in coppia, perché la rete, chiamata tartana, essendo provvista di due lunghe braccia, doveva essere trainata da due lunghe braccia, doveva essere trainata da due barche. Si pescavano merluzzi, triglie, pannocchia, alici, sarde, granchi. Verso il 1930, con l’avvento del motore a scoppio, il nostro guadagno migliorò ma aumentarono anche le spese d’esercizio. Si doveva essere maggiormente impegnati. Anche il lavoro aumentò, per cui, a torto o a ragione, a volte rimpiangevamo i tempi passati. I pasti avvenivano a bordo ed erano preparati da noi. Si mangiava quasi sempre pesce, tranne il lunedì, giorno in cui si mangiava carne. Il pasto era unico. Si consumava verso le nove del mattino. Comprendeva la colazione e il pranzo, se poi il vento non ci permetteva di ritornare a casa, si faceva cena”. Saggia ma velata dal rimpianto è la conclusione di chi scrive: “Il lavoro era molto duro, questo è vero ma ci temprava per la vita. A volte mi chiedo se anche oggi succede la stessa cosa”.

Il mercato del pesce

Molti anni fa, quando ancora insegnavo, accompagnai due classi della Scuola Media “Mestica” di Civitanova Marche nei locali, dove si teneva l’asta del pesce. Tutto il parcheggio e le stradine che insistono attorno al mercato ittico erano invasi da furgoncini chiusi con vano frigorifero, Doblò e Fiorini. Erano le quattro del mattino. Mentre il resto della città dormiva, quest’angolo della cittadina adriatica era animatissimo. Il mercato ittico a Civitanova c’è ancora. Non mi è dato sapere quale sia oggi l’atmosfera, poiché non ci sono più andato. Penso che sia quella di sempre. All’esterno il solito rumore di camioncini, all’esterno le grida degli addetti ai lavori.

Un signore di Senigallia che frequentava nel mille novecento novantasei la locale Unitre, così scriveva: “Molti anni or sono avevo l’abitudine di alzarmi presto il mattino e fare un giro sulla spiaggia, sul molo, al mercato. Volevo vedere e conoscere da vicino le attività mattutine svolte da quella parte di cittadini che con il loro lavoro mettevano in moto la città, scambiandosi le merci che trasportavano su carrette, di solito tirati o spinti a mano. I barchetti dei pescatori ritornavano a riva dopo una notte trascorsa in mare e scaricavano sul molo il prodotto della loro fatica. Qui, erano ad attenderli con carrette gli addetti del mercato. Caricavano le cassette di pesce e le portavano nel luogo dove si teneva il mercato”. Il locale purtroppo oggi non c’è più. Al suo posto c’è un supermercato, davanti alla stazione ferroviaria. Continua chi scrive: “Il pesce, arrivato dal vicino porto, veniva accantonato nella stanza dove si effettuava l’asta. Gli acquirenti sedevano su un’apposita gradinata e davanti a loro c’erano un numero e un campanello. Un nastro trasportatore, che scorreva sotto i loro piedi, portava la cassetta del pesce. Il nastro con la cassetta era azionato da un funzionario comunale, detto l’astatore. L’unità di costo del pescato, per antica consuetudine, non era in lire ma in scudi. Prima di mettere la cassetta del pesce sul nastro, l’astatore dichiarava con voce forte il peso, la qualità e il costo sempre in scudi. Poi faceva partire il nastro e le lancette di un grosso orologio ben visibile da tutti, posto sulla parete di fronte. Partiva sempre dal prezzo più alto, cinquanta scudi, per poi scendere a quarantanove, quarantotto, quarantasette. L’acquirente interessato, quando riteneva conveniente comprare, suonava il campanello. Il nastro e le lancette dell’orologio si fermavano. Il commerciante ritirava la cassetta e pagava ciò che gli veniva addebitato. Non era possibile sbagliare. L’astatore controllava l’orologio, il numero del commerciante che aveva acquistato la cassetta con il relativo prezzo”. Il commerciante ritirava il pesce acquistato al termine dell’asta. Se la cassa transitava senza essere prenotata da nessuno, a fine corsa veniva scaricata e il pesce non venduto veniva destinato ad altri mercati. La stessa cosa avviene anche oggi in ogni asta del pesce.

Produttività e Democrazia.

Un testo, scritto a mano, raccolto nella busta, è particolarmente prezioso. Le riflessioni dell’autore, anonimo, gettano uno sguardo anche sul nostro presente. Scriveva il nostro: “Nel 1936, nel cantiere navale di Ancona, la paga oraria di un operaio semplice era di £ 1,20. La giornata di otto ore prevedeva una retribuzione di £ 9,20 al giorno per ventiquattro giorni lavorativi. Il mensile risultava di £ 230,40. Un operaio specializzato percepiva £ 3,00 all’ora che facevano £ 24,00 al giorno; al mese, per ventiquattro giorni erano £ 576,00. Il costo di un pasto all’osteria era di £ 8,00; moltiplicato per ventiquattro giorni, portava ad una spesa di £ 192,00 al mese. Per l’operaio comune, mangiando una sola volta al giorno, alla fine del mese restavano £ 38,40 (230, 40 – 192,00). All’operaio specializzato, se anche lui mangiava all’osteria a mezzogiorno, alla fine del mese restavano £ 384,00 (576 – 192,00). E’ ovvio che gli operai semplici o specializzati non mangiavano all’osteria. Quasi tutti portavano qualcosa da mangiare da casa”. In Lombardia o comunque in tutto il Nord Italia, l’operaio portava la “Schiscetta”, il contenitore per il trasporto e il consumo di vivande portate da casa. In dialetto milanese, schiacciare si dice “schiscià” e il cibo era appunto schiacciato nel contenitore in alluminio.

Quali erano le condizioni di lavoro? “Si entrava nella portineria del cantiere quindici minuti prima dell’inizio del lavoro, sia al mattino che al pomeriggio. Per la durata di otto ore, tanto era il turno di lavoro, nessuno poteva lasciare la macchina per nessun motivo, nemmeno per recarsi a gabinetto. La macchina non poteva fermarsi né doveva essere lasciata sola. Quelle poche volte che era concesso all’operaio di assentarsi, occorreva trovare la sostituzione e tutto doveva essere registrato. Eventuali inadempienze comportavano il licenziamento in tronco. Gli operai addetti alle macchine avevano escogitato un sistema per risolvere problemi impellenti. Mettevano vicino alla macchina una specie di buiolo che doveva essere nascosto perché era proibito. Lavorare al cantiere era un privilegio. Oggi, nel 1996, c’è ancora chi auspica, in nome del Liberismo, privilegi di questo genere. Le lotte operaie di questi ultimi cinquant’anni hanno modificato notevolmente la condizione operaia. I contratti collettivi di lavoro in tutti i settori hanno permesso una migliore condizione di vita. I capitalisti comunque non sono stati a dormire. Hanno scoperto che esistono ancora nel mondo zone di sottosviluppo paragonabili a quelle italiane del mille novecento trentasei, così hanno escogitato, anche finanziati dagli stessi governi, con la scusa di aiutare i paesi sottosviluppati, di trasferire parte dei lavori in queste aree. In questo modo, i capitalisti hanno ridotto i costi di produzione, aumentati i profitti e causato la disoccupazione nei nostri paesi. Tutto è stato fatto in nome del Liberismo, della Libertà e dell’imprenditorialità”.

A queste riflessioni, scritte più di vent’anni fa, vanno aggiunte certe prese di posizione di capi di governo che hanno provveduto a smantellare conquiste sindacali costate lacrime e sangue agli operai. Tutti i rappresentanti di governo, di sinistra o di destra, hanno spesso detto che la “pacchia” è finita. Il termine pacchia rimanda quasi al pastone preparato per gli animali. Sembra che tutti vogliano vivere senza far nulla e godere solo di privilegi. Quali sono poi questi privilegi non si sa. Si dovrebbe accettare il mancato adeguamento delle pensioni al costo della vita, senza dire nulla, perché così è stato deciso da chi governa. Se la pacchia è finita e lo dice la destra, è naturale, ma che la stessa cosa sia stato detto anche dalla sinistra non è per niente naturale. La prima, si sa, è sovranista, termine che ha sostituito razzista e xenofobo, la seconda dovrebbe essere diversa. Se destra e sinistra sono uguali nel linguaggio che adoperano e nelle scelte che fanno, non si riesce a vedere la differenza tra l’una e l’altra.

Raimondo Giustozzi

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