Monica Frassoni
In una bella e non recentissima canzone del gruppo britannico Talk Talk il cantante ripeteva ossessivamente con la sua voce profonda il ritornello “life is what you make it, can’t escape it”.
Penso spesso a queste parole, osservando i commenti alternativamente catastrofisti o disinvolti rispetto al risultato del referendum sulla scelta dei britannici se rimanere o no nella Ue.
Infatti, anche se malauguratamente il Regno Unito dovesse scegliere la Brexit e obbligarci a occuparci ancora per anni di negoziare la sua uscita con perdita infinita di tempo prezioso e soldi che si potrebbero impiegare in ben altro modo, non è inevitabile la disgregazione della Ue. Appunto, life is what you make it: dipenderà da come il resto della Ue reagirà a questa che è dopotutto una scelta sovrana del popolo britannico, spinta da una folle guerra interna al partito conservatore.
Al momento dell’approvazione del Trattato di Lisbona io sono stata favorevole all’introduzione dell’art. 50 che contiene la procedura per l’uscita di uno Stato membro della Ue, il cui funzionamento è ben descritto in un bell’articolo su HuffingtonPost.
Al di là dei dettagli tecnici, la domanda a cui i britannici dovranno rispondere è se vogliono o no partecipare a un progetto comune. Se la risposta è no, l’errore madornale da non fare è farsi prendere dall’idea che è tutto finito: il punto vero non è cosa fa chi se ne vuole andare, ma quelli che restano.
I britannici hanno già uno status speciale, o per meglio dire hanno già un piede fuori dalla Ue. Se restano, Cameron pretenderà l’applicazione del pessimo accordo sottoscritto in febbraio che ipoteca alcuni elementi importanti della libertà di stabilimento dei cittadini europei: sarà difficile che altri non chiedano lo stesso privilegio. Se decideranno di andarsene, -cosa che non auspico- il contraccolpo può diventare uno stimolo a cambiare decisamente strada e non deve per forza risolversi in un disastro.
Indifferentemente dal risultato del referendum, insomma, se il resto della Ue va in panico e legittima gli argomenti di chi se ne vuole sbarazzare continuando a restare in una sostanziale impasse di iniziative positive per paura di disturbare i governi e in particolare quelli più negativi e riluttanti, non faremo che rafforzarli e scoraggiare ancora di più coloro che vedono con chiarezza che parlare di sovranità nazionale o frontiere sigillate come soluzione per le sfide globali è una illusione tragica. La sovranità e la democrazia non sono più patrimonio solo degli Stati; possono e devono essere condivise e organizzate allo stesso livello al quale si muovono i poteri economici e problemi comuni come il clima, le guerre o le migrazioni o la trasformazione della nostra economia in tempi di cambiamenti climatici. Ed è su come rispondiamo a queste sfide che dobbiamo discutere.
Non so se avete notato uno strano fenomeno che si verifica con l’Ue e che rende un po’ surreale la discussione; come giustamente sosteneva Alexander Van Der Bellen, il nuovo presidente della Repubblica austriaco, è veramente curioso che quando non ci piace il nostro governo tentiamo di cambiarlo e quando non ci piace l’Europa ci chiediamo se non varrebbe la pena smantellarla.
Considero questa logica una specie di arma di distrazione di massa. Invece di occuparsi del merito dei problemi comuni, chi ci governa fa costantemente la gara a “chi ce l’ha più lungo” e non risolve nulla.
Insomma, che il Regno Unito rimanga o ci lasci, le politiche e la percezione che dell’Ue hanno i suoi cittadini devono cambiare, perché non è la troppa integrazione, ma l’ossessione dell’austerità, l’impossibilità di mettere in campo delle azioni positive per investimenti o occupazione, la mancanza di strumenti efficaci, di risorse e di volontà per agire in materia di sicurezza e migrazione, il continuo ricorso a veti e ostacoli all’azione comune hanno reso impotente l’Unione e hanno reso più forti egoismo e nazionalismo. È questo il circolo vizioso che dobbiamo spezzare.
Ed è per questo che voglio qui rendere omaggio alla campagna “Remain” fatta dai verdi inglesi, che da partito tutto sommato minore sono diventati una forte voce pro-europea; senza le ambiguità di buona parte del labour, si sono battuti rumorosamente sia contro le bugie nazionaliste e xenofobe di Farage e i suoi, che contro la volontà di Cameron di convincere il suo popolo a rimanere nella Ue con la promessa di uno status speciale, che permetterà a lui di continuare a bloccare le iniziative più avanzate di integrazione, mantenendo una grande influenza, quasi sempre negativa: the “best of the two worlds”, come appunto dice nella sua propaganda.
È per loro e per tutti i nostri concittadini britannici che si sentono profondamente europei che spero che oggi saremo ancora in 28 nazioni a continuare insieme una navigazione difficile, ma appassionante e indispensabile.
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