Oggi ricorrono esattamente i 40 anni da quella fortissima scossa di terremoto. Un «tuono» cui seguì la distruzione: 990 vittime, 2607 feriti, 75 mila edifici danneggiati, 18 mila cancellati.
La ricorrenza , partendo dalle scelte coraggiose degli amministratori di allora, offre l’opportunità di riflettere sullo scenario di scelte future che vedono l’economia produttiva smettere di investire sulle città e sui territori che, perdendo ogni connotazione sociale, mutano in luoghi sempre più simili a campi neutrali dove far circolare flussi di denaro.
La decisione di innalzare nuovi immobili, invece di rimettere sul mercato quelli già esistenti, ha fatto dell’Italia un Paese con un gigantesco cartello “vendesi” e quasi 7 milioni di alloggi disabitati a carico. In virtù di arbitrarie liberalizzazioni, «le vetrine della città si spengono, mentre si inaugurano centri commerciali sempre più grandi». Un fenomeno che esalta i non-luoghi del consumismo più svogliato e porta alla morte del tessuto commerciale urbano e locale, quello dei negozi a conduzione familiare, delle botteghe, dei piccoli rivenditori al dettaglio, nonché all’impossibilità dell’indipendenza per chi è sprovvisto di auto, come anziani o studenti fuorisede.
Perché la consapevolezza dello spazio urbano e la sua conseguente riappropriazione da parte della società civile sembrano essere il punto di partenza affinché la città torni a essere «un luogo adatto a consentire l’evoluzione culturale e spirituale della popolazione», territorio ideale dove continuare a esercitare il diritto al buon vivere e guardare il futuro dei nostri figli.
«PRIMA RICOSTRUIAMO LE FABBRICHE, POI LE CASE, INFINE LE CHIESE»
La Stampa
La calce viva gettata sopra morti e macerie. L’aria mefitica e il caldo anomalo. «Ricorderò sempre che a Gemona c’era un elenco delle vittime. Si leggeva una sfilza di nomi, poi la dicitura: “Cadavere di sesso non riconosciuto”». Elia Tomai, quel 6 maggio 1976, era il trentenne sindaco di Fagagna, Comune confinante con Majano, uno dei 44 paesi rasi al suolo dal terremoto. Un «tuono» cui seguì la distruzione: 990 vittime, 2607 feriti, 75 mila edifici danneggiati, 18 mila cancellati.
Oggi, quarant’anni dopo, il Friuli ricorda quel sisma di magnitudo 6,4 della scala Richter, l’onda che sorprese un’Italia sonnolenta. Tre mesi dopo, l’11 settembre, arrivarono altre due scosse. Alle commemorazioni parteciperà anche il presidente della Repubblica Sergio Mattarella: per ricordare le vittime, certo, ma anche per celebrare la ricostruzione esemplare, il cosiddetto modello Friuli.
«PRIMA RICOSTRUIAMO LE FABBRICHE, POI LE CASE, INFINE LE CHIESE»
«Non rifare gli errori del Belice», era il titolo dell’editoriale pubblicato su La Stampa l’8 maggio del ’76, due giorni dopo. Ma i friulani si erano già messi in moto, seguendo il principio fasin di bessôi, facciamo da soli. «Una scelta è stata fondamentale», ricorda Sergio Gervasutti, 78 anni, primo inviato del Gazzettino ad arrivare nel «tunnel» del terremoto. E spiega: «Tutti, anche il nostro arcivescovo di Udine, Alfredo Battisti, avevano condiviso di ricostruire prima le fabbriche, poi le case e, infine, le chiese». Il lavoro per far ripartire tutto, secondo il mito dell’uomo friulano «saldo, onesto e lavoratore». E così fu. Se il Belice del 1968 era stato il sisma dell’improvvisazione e dell’incapacità statale (ferrovie non ricostruite, collegamenti interrotti, popolazione nell’indigenza per decenni), il Friuli doveva diventare punto di riferimento. Il modello su cui verrà costruita la Protezione civile, con la responsabilità operativa affidata ai sindaci. Basta dare un’occhiata al grafico per rendersene conto: la ricostruzione del Friuli è l’unica a essere stata chiusa, nel 2006, dopo 30 anni. Il Belice ha provvedimenti legislativi con stanziamenti previsti fino al 2028, sessant’anni dopo. Burocraticamente il Friuli ha visto 9 decreti emessi nel corso degli anni, il Belice tre volte tanto. I 18,54 miliardi stanziati per il Friuli (rivalutazione al 2014) sono stati distribuiti meglio, 390.000 euro per ogni singolo sfollato. Tre volte il Belice (130.000), ma anche due volte l’Irpinia, che pure con i suoi 52 miliardi è stato lo stanziamento più massiccio di sempre.
LA PARTECIPAZIONE DELLE PERSONE
Vittime e ricostruzione, ma non solo. Dice Gervasutti: «Il terremoto fu uno spartiacque sia dal punto di vista socio-economico che della partecipazione politica». Il Friuli, che all’indomani del sisma si trovò con 5 mila lavoratori rimasti disoccupati, cambiò. «Da zona rurale, sottosviluppata d’Italia divenne centro di una serie ininterrotta di iniziative della piccola e media imprenditoria. Gli emigrati del primo Novecento cominciarono a rientrare ai “fogolar”, ai loro camini». Una crescita economica che andò a braccetto con quella culturale. «Non dimentichiamoci – ricorda Gervasutti – che l’Università di Udine, inaugurata nel 1978, è figlia del terremoto». Alle elezioni del giugno ’76 l’astensionismo in Friuli toccò i tassi più bassi d’Italia. C’era fermento, voglia di condividere, esserci. «Era come se fosse scattato qualcosa: si diede vita a gruppi teatrali, di poesia e lettura», ricorda il cronista Paolo Medeossi nel documentario Sopra le macerie, del regista Matteo Oleotto. Una testimonianza collettiva di quei giorni.
Quarant’anni dopo resta una domanda: e se succedesse ancora? Se l’Orcolat, l’orco popolare che causa i terremoti, si risvegliasse? «I nostri sindaci non hanno più la cazzuola in mano», sentenzia il primo cittadino di allora Tomat, oggi 70enne. «E ho paura che anche noi faremmo la fine dell’Aquila o del Belice, arriverebbero subito gli avvoltoi».
Città fallite Porto Recanati 19 febbraio 2016
Venerdi 19 febbraio presso la sala Biagetti di Porto Recanati si è svolto l’incontro dibattito sul tema della politica urbanistica degli ultimi decenni nei nostri territori.
L’occasione è stata la presentazione del libro di Paolo Berdini, dal titolo “Le città fallite”. Il libro di Berdini, noto urbanista, impegnato nella tutela ambientale, enumera con precisione ingegneristica la serie dei fatti che hanno distrutto i territori urbani, ponendo in evidenza come questa distruzione territoriale e ambientale sia andata di pari passo con la cancellazione delle regole dell’urbanistica.
Il relatore Maurizio Sebastiani Presidente di Italia Nostra ha ripercorso la storia delle politiche urbanistiche nazionali partendo dalla definizione di «città pubblica», della città che è «servente» alla ultima serie di leggi che hanno invece portato alla completa distruzione di parte del territorio e delle città. Distruzione quindi pianificata, derivata dall’avvento del cosiddetto pensiero unico del «neoliberismo economico». Questo modo di vedere, così contrario alla scienza urbanistica, uccide la «città pubblica» e la fa diventare un puro «conto economico». I nostri amministratori sono quindi stretti in una tenaglia: da un lato la pressione della finanza speculativa, spesso in accordo con le istituzioni, dall’altro la mancanza di risorse per garantire il funzionamento della città stessa. Insomma, emerge chiaramente che funzione propria dell’urbanistica è quella di garantire i diritti dell’uomo, e, con questi, il decoro e la bellezza delle nostre città. Si è invece imposta una logica di rapina che distrugge le conquiste sociali, favorisce i grandi centri commerciali, porta al fallimento, specie tramite le cosiddette «liberalizzazioni», le piccole imprese, che sono state sempre il nerbo della nostra economia.
Situazione che ha gravi e paradossali effetti anche sui cittadini che, molte volte complici silenti degli speculatori, con la crisi economica e la conseguente diminuzione di valore degli appartamenti, che nelle periferie ha raggiunto il 40%, hanno isto il danaro andare ai costruttori mentre a loro è rimasta la «beffa». Chi ha contratto un mutuo per pagare l’acquisto dell’alloggio oggi paga un prezzo di gran lunga superiore al valore del bene acquistato. Per non parlare del grave danno sociale ed economico degli ultimi fallimenti bancari, si veda Banca Marche.
Come amaramente scrive il Magistrato Maddalena nell’introduzione al libro di Berdini: L’urbanistica è, dunque, del tutto distrutta.
Il Magistrato quindi rivolge un appello ai cittadini indicando la via della partecipazione e della consapevolezza politica di ciascuno di noi. Dice “Dobbiamo ricominciare daccapo. E questa volta l’iniziativa deve venire dal basso, dalle associazioni, dai comitati e dai comitatini, come ironicamente dice il nostro presidente del Consiglio. Si tratta di applicare il principio di «partecipazione popolare», previsto, anche come «diritto di resistenza», dalla nostra Costituzione, e in particolare dall’art. 118, secondo il quale i cittadini, singoli o associati, possono svolgere attività di interesse generale, secondo il principio di sussidiarietà.In sostanza, occorre ottenere un «capovolgimento» dell’immaginario collettivo, e far capire che la Costituzione protegge soprattutto «l’utilità pubblica» (art. 41) e riconosce e garantisce la «proprietà privata» solo se essa persegue la «funzione sociale» (art. 42). È ora, in altri termini, che la «rivoluzione promessa» di cui parlava Calamandrei sia finalmente attuata. Molti intellettuali sono all’opera: Antonio Perrotti, Vezio De Lucia, Francesco Erbani, Salvatore Settis, Tomaso Montanari e tanti altri.
La speranza si fonda sull’azione delle associazioni e dei comitati, che di fronte allo spreco del nostro territorio devono agire e unirsi in una lotta senza quartiere, da svolgere sul piano della legalità costituzionale e, specificamente, sotto l’egida di quella che è stata denominata «l’etica costituzionale», e cioè i principi di libertà, eguaglianza e solidarietà.”
Paesaggio, serve legalità
di Salvatore Settis, da Repubblica, 23 giugno 2012
Ha ragione il presidente Napolitano, quando parlando del recente sisma dice che la mancata prevenzione è un delitto. I delitti, anzi, sono due: la mancata prevenzione e la cattiva gestione dell’emergenza. E ciascuno dei due delitti si lascia dietro una scia di cadaveri. Cadaveri di persone, di monumenti, di fabbriche. È ora in corso una strana discussione: se davanti ai disastri in Emilia e a Mantova si debba reagire con il bisturi del restauratore o con la dinamite. Sembra quasi che la scelta dipenda da gusti e inclinazioni personali: un assessore, detto l’Attila di Mantova, propone di abbattere campanili, chiese, anzi interi centri storici per creare “una nuova socialità”; un architetto proclama l’equivalenza fra restauro e Disneyland e invita a distruggere il più possibile, così gli architetti avranno più lavoro. Un tema sembra assente dall’orizzonte: la legalità. Ma ripristinare la legalità è la priorità massima in un’Italia umiliata e corrotta dalla cancrenosa illegalità dell’asse Berlusconi-Bossi.
Centri storici e monumenti (maggiori e minori) hanno in Italia uno statuto di legalità. Non solo perché fu in Italia che nacquero, prima dell’unità nazionale, le più antiche norme di tutela del mondo; non solo perché vi furono leggi famose come quelle dei ministri Rava (1909) sul patrimonio e Croce (1922) sul paesaggio, di fatto poi riversate nelle leggi Bottai (1939) e nel vigente Codice dei Beni Culturali. Ma perché, prima al mondo, l’Italia pose la tutela del patrimonio e del paesaggio fra i principi fondamentali della propria Costituzione (art. 9). Che cosa fare dei monumenti danneggiati è dunque anche un problema di legalità costituzionale. Ma che cosa sta accadendo?
Confrontiamo due date, due dati: dopo il terremoto di Reggio Emilia del 1996 il soprintendente Garzillo intervenne prontamente, mise in sicurezza campanili e monumenti a Correggio, Villa Sesso, Bagnolo in Piano; dopo 23 giorni gli abitanti evacuati tornarono nelle loro case, e il lavoro fu fatto tanto bene da resistere al sisma di quest’anno. Nel 2012, nulla è stato fatto per il campanile di Novi Modenese, di fatto decidendo di lasciarlo crollare; a Poggio Renatico, il campanile è stato abbattuto con la dinamite.
Ma che cosa è cambiato, dal 1996 ad oggi? Non le norme: l’art. 33 del Codice dei Beni Culturali prescrive che «in caso di urgenza, il Soprintendente adotta immediatamente le misure conservative necessarie». Quel che è cambiato è il costume: prevale ormai la prassi instaurata dopo il terremoto d’Abruzzo, pessima eredità di un berlusconismo che come un cancro si è insediato nelle istituzioni. Dal 1861 ad oggi i terremoti distruttivi hanno colpito 1600 centri storici: se avesse dominato il partito della dinamite avremmo 1600 centri storici in meno, insomma un’altra Italia. È questo che vogliamo?
Dopo altri terremoti (dal Friuli alle Marche all’Umbria) si dette per scontato che si dovesse salvaguardare e ricostruire il più possibile. La svolta fu all’Aquila, e ne ha mirabilmente parlato Barbara Spinelli in queste pagine. Il centro storico è stato abbandonato, circondandolo con una cintura di squallide new towns senza né servizi né luoghi d’incontro e deportandovi la popolazione, disgregando un prezioso tessuto sociale: è questa dunque la “nuova socialità” a cui pensa l’Attila mantovano. Il servile ministro Bondi nominò allora un commissario fra i funzionari del suo ministero, ma accettò che fosse sottomesso alla Protezione Civile. Proprio questo è il modello adottato tal quale dal governo Monti: come ha rilevato Italia Nostra, il decreto-legge del 15 maggio dà al capo della Protezione Civile potere di vita e di morte sui centri storici e sui monumenti, «in deroga ad ogni disposizione vigente». Ma la Protezione Civile può operare in deroga alla Costituzione?
La mancanza di risorse, in nome della quale si fanno distruzioni dinamitarde, non è un argomento. Secondo la Consulta, in una serie di coerenti sentenze (per esempio 151/1986), la Costituzione sancisce «la primarietà del valore estetico-culturale», che non può essere «subordinato ad altri valori, ivi compresi quelli economici », e pertanto dev’essere «capace di influire profondamente sull’ordine economico-sociale». Ma dal ministro Ornaghi, ben deciso a battere Bondi per inefficienza, non viene alcun segnale; se non una circolare che mette in manette i Soprintendenti sottoponendoli alla Protezione Civile.
«Non è necessaria nessuna competenza in economia per sapere quale sarà il saldo di una politica economica che non si è mai degnata di far entrare nei propri conti i costi del dissesto geologico, del disordine urbanistico e dell’incuria verso il patrimonio edilizio storico. Ci vorrebbe assai poco per calcolare il danno economico che incombe sulla penisola ove persistesse l’assenza di ogni politica di difesa del suolo e di consolidamento preventivo dell’edilizia storica». Sono parole di Giovanni Urbani, autore nel 1983 di un piano di prevenzione del rischio sismico, prontamente accantonato dal Ministero.
Perché non di soli terremoti si tratta, ma delle mille fragilità del Paese.
Fragilità che emergono nei disastri, ma per essere poi rapidamente archiviate nello sport nazionale preferito, l’amnesia. Sotto il consueto ombrello della mancanza di risorse. Ma che cosa intendiamo per mancanza di risorse? Nel 2009, dopo la frana di Giampilieri presso Messina (37 morti), Bertolaso dichiarò cinicamente che era impossibile trovare due miliardi per mettere in sicurezza le franose sponde dello Stretto, per giunta soggette a sismi di massima violenza (l’ultimo, nel 1908, seguito da tsunami: 120.000 morti); due giorni dopo, Prestigiacomo dichiarò che i lavori per il Ponte sullo Stretto (10 miliardi o giù di lì) dovevano regolarmente proseguire.
Che le risorse siano scarse oggi, lo sappiamo: il problema è come accrescerle (per esempio colpendo l’oscena evasione fiscale) ma anche come destinarle. È sorprendente che il ministro Passera favoleggi di grandi opere come unico volano per lo sviluppo, intendendo per tali autostrade e Tav, senza sospettare che la prima grande opera di cui il Paese ha bisogno è la messa in sicurezza del proprio territorio. È deprimente che il ministro Ornaghi non si accorga che l’intervento dei suoi funzionari a seguito del sisma non può essere efficace dato che non si è stanziato nemmeno un euro.
All’Aquila, a Messina, in Emilia il problema è lo stesso, ed è un problema nazionale: quale sia la gerarchia dei valori, quali le priorità. Se crea più sviluppo la cementificazione o la salvaguardia del territorio, se crea più occupazione l’abbandono dei centri storici o la loro cura. Se vogliamo rispettare la Costituzione e la legge, o giocare con la dinamite distruggendo la nostra storia, calpestando la legalità.
(23 giugno 2012)
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