LO SPECCHIO Magazine

Renxit. Referendum, Matteo Renzi cambia strategia comunicativa: dall’ordalia al tentativo di spersonalizzare. Ma la sostanza resta

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Alessandro de Angelis

I segnali di un cambio di registro sul referendum, e su tutto ciò che ci ruota attorno, da parte di Matteo Renzi, erano già visibili da giorni. Ma, nel corso dell’intervista a Beppe Servergnini su Corriere Tv, appaiono un qualcosa di più. Come il tentativo, pensato e studiato, di “spersonalizzare” l’oggetto della contesa.

A un certo punto dell’intervista, il premier lo dice proprio, forse chissà se per tattica o per giustificare quell’apparire poco se stesso: “Mi avete detto che personalizzavo. Ora non apro più bocca sul mio futuro. Non entro più sul tema dello spacchettamento, sulla legge elettorale, su cosa farò da grande”. È evidente il tentativo, dopo la batosta elettorale di normalizzare un appuntamento presentato, prima della batosta alle amministrative, come un giudizio di Dio sul paese, sul governo e anche su se stesso (ricordate il “se perdo lascio la politica”?). Per riuscire nel tentativo i toni, sugli argomenti più divisivi, sono così istituzionali che sembrano di apertura. L’Italicum? Renzi non dice più che non si tocca: “Non rispondo, per me ora c’è una legge e prima non c’era, se il Parlamento è in grado di farne un’altra si accomodi”. E , spacchettamento? “Per me non sta in piedi. Poi però deciderà la Cassazione”. E se perde, lascia la politica? “Di questo non parlo”.

La sensazione è che il cambio riguarda più la comunicazione che la sostanza politica. Perché è evidente che dire “se il Parlamento è in grado, si accomodi”, senza che il Pd prenda l’iniziativa equivale a non fare nulla. Si ottiene lo stesso obiettivo – non fare le cose che il premier non condivide – all’interno però di un dibattito meno Renzi-centrico. Lo stesso vale per l’approccio al cosiddetto spacchettamento che, a giudicare dalle parole di Miguel Gotor, ha avuto l’effetto – sia pur per un giorno – di svelenire il confronto. E questo cambio dei toni ha certo a che fare, in parte, con la difficile navigazione del governo al Senato, dove – tra il collasso di Ncd e l’inappagata fame di poltrone di Ala – basta una disattenzione e si va sotto.

Ma più che col Palazzo ha che fare col paese. Il premier ha capito – anche se non lo ammette – che il voto alle amministrative, è stato, in parte un voto contro di lui, perché percepito come establishment. In vista del secondo tempo (il referendum) prova a intercettare l’ansia di cambiamento che pervade il paese, più con i contenuti che con se stesso. Non è un caso che ha iniziato a rivolgersi all’elettorato pentastellato: “Io dirò soltanto che il referendum è su questo punto specifico: per me un elettore M5s, tra un Parlamento più semplice e che costa meno, e uno più complicato e che costa di più, secondo me l’elettore M5s voterà per ridurre le poltrone”.

 

Non è poco, come cambiamento di toni, per uno che pensava riassorbire i 5Stelle con riforme istituzionali (frutto del Patto del Nazareno) e alcune riforme economiche, dall’Imu agli 80 euro. Però la sostanza politica non muta, perché il combinato disposto di legge elettorale e riforme resta immutato né è cambiata la consapevolezza che, se dovesse perdere, il minuto dopo salterebbe il governo. Ed è la sostanza che spinge gli altri a votare contro. Anzi che cementa un fronte rimasto ampio come prima.