LO SPECCHIO Magazine

Spettacolo. L’uomo del coniglio

Bozzetto di Mary Napoleoni

Ci sono opere che ti lasciano addosso qualcosa di indefinito che ti risuona nei giorni successivi e germoglia in forme inaspettate. E’ questo il caso de “L’uomo del coniglio”, monologo della drammaturga uruguaiana Ana Magnabosco (traduzione di Monica Menosse Hutton), proposto in prima assoluta il 24 e 25 febbraio 2018 al Teatro Nuovo di Capodarco di Fermo. L’attore Gianluca Marinangeli, che cura anche la regia, trova una cifra interpretativa intensa, misurata, densa, efficacissima nel dare corpo al protagonista Catalino. La sua presenza scenica, i gesti, i silenzi, i sorrisi, la modulazione della voce ci restituiscono un personaggio sfaccettato, ironico, poetico, umanissimo. Egli, licenziato dalla fabbrica dove lavorava, vive in una povera stanza e si rivolge al suo amico Peppino che non vediamo cercando di convincerlo a rimettersi in gioco e a prendersi cura di un coniglio che potrà essere il primo di un piccolo allevamento. Cerca poi di coinvolgerlo nella sua idea di inventare uno show dell’allegria da portare in giro per il mondo. Catalino crea nella sua mente una realtà alternativa alle brutture, alla spietatezza, all’indifferenza che fagocitano troppe aspirazioni. La sua “follia” si fa a poco a poco nostalgia, resistenza, rabbia, tenerezza. Nella sua fragilità esistenziale egli diviene una guida che ci prende per mano e ci sprona a sorridere malgrado tutto, ad aggrapparci all’allegria come ancora di salvezza, come unico possibile orizzonte di speranza e a non permettere a niente e a nessuno di strapparcelo via. Ed inizia a farsi strada dentro di noi la consapevolezza che questo orizzonte può delinearsi in diverse dimensioni. Può assumere la forma dei ricordi belli che nutrono anche il nostro presente. Può esplicarsi nelle forme delle arti e dello spettacolo inteso come leggera profondità, come balsamo nei confronti di una vita reale che spesso ci atterra, come antidoto all’abbandonarsi alla morte del corpo e dell’anima. E l’attore si fa dispensatore di sogni, giullare benedetto dal talento e dalla passione. Il suo sorriso, come il nostro, può celare più dolore di un pianto, ma soprattutto può rivelare la grandezza dell’immaginare l’impensabile, di forgiare attraverso i sogni e la fantasia una realtà più vivibile. Come ci insegna il bellissimo film di Tim Burton “Big Fish”, grande è il potere di una buona storia da raccontare e se lo si immagina intensamente si può diventare il proprio sogno. Possiamo decidere di vivere la magia come evasione dalla realtà e rifugiarci così in contrapposizioni impotenti e sterili. Oppure possiamo tentare di avvicinare i due piani, rendere la magia più reale e la realtà più straordinaria. Proviamo allora a sorridere più spesso, a sorridere a chi amiamo e anche agli sconosciuti, a sorridere a tutti i sognatori disperati che sopravvivono a testa alta perché si ostinano a indovinare un barlume di luce anche in quei giorni che sembrano dannati e sanno che solo se accendiamo tanti fuochi dentro e fuori di noi quel gelo che attanaglia dovrà prima o poi svanire e le nostre gambe potranno finalmente sciogliersi in una danza contagiosa.

 

Alessandra Gabbanelli