LO SPECCHIO Magazine

Dalla guerra nucleare sì, ma dai ladri no

Vincenzo Oliveri – Albergo Muralto camera 116

E’ l’amara considerazione del tenente dei carabinieri RiccardoBesso inviato in tutta fretta a Urbino dal comando del Gruppo dell’Arma istituito nel 1969 per la Tutela del Patrimonio Artistico. Nella città marchigiana è successo qualche cosa diclamoroso nel febbraio 1975, appena un mese dopo la nascita ufficialedel Ministero dei beni Culturali: sono scomparsi dalla Galleria Nazionale delle Marche, in una sola notte, due quadri di Piero della Francesca euno di Raffaello. Non si tratta di disegni o schizzi o abbozzi. No, sono proprio quadri, e “quei” quadri. Abilità dei ladri? Inadeguata sorveglianza dei capolavori? O entrambe le iatture? Da qui comincia l’avventura dei carabinieri della compagnia di Urbino e del Gruppo TPA, primi protagonisti di una caccia tenace alla Madonna di Senigallia e alla Flagellazione di Piero, considerato, il secondo, uno dei trenta dipinti da salvare in caso di conflitto nucleare. E alla Muta di Raffaello. Con l’accompagno di tutto il bailamme mediatico che ci fu e l’immancabile indignazione trasversale di politici a molti dei quali, magari, riusciva difficile essere lucidi in tanto dolore: per qualcuno di loro Piero della Francesca avrebbe anche potuto essere il cugino di quella da Rimini, data la vicinanza con la città romagnola. I militari del Gruppo TPA, che otterrà per questa operazione lamedaglia d’oro, vanno a muoversi in una storia complicata come poche, scritta da mille possibili architetti dei crimini contro l’arte e con mille possibili sbocchi. Non hanno di fronte malandrini di quartiere, né ladri d’appartamento né scassinatori di banche. Qui c’è una delinquenza “raffinata”, colta, indirizzata ad agire con scrupolo e meticolosità, perfettamente cosciente di dove si deve arrivare e come e quando; avversario stimolante per chi la bracca, con la conseguente conferma dell’intuizione che Pascal affidò alle sue Pensées quando scrisse che più della preda vale la caccia. Insieme al capitano Sabino Battista, a Besso e al brigadiere Domenico Oriani, altro protagonista è il giudice Giorgio Barbarigo, uomo innamorato di Urbino e delle sue bellezze artistiche e quindi colpito nel profondo dalla barbarie del furto. Capace d’intuito pronto e vivace, è uno che non si spaventa di osare; conosce bene i “suoi” carabinieri del resto, e sa quello che può aspettarsi da loro. Non è un magistrato da poltrona e soprattutto è sempre ben presente sul terreno dell’indagine. I quadri verranno ritrovati quattordici mesi dopo in un albergo di Locarno, il “Muralto”: da qui il titolo del romanzo. Che si legge con piacere perché la sua virtù principale è la scorrevolezza della lingua, la scrittura giornalistica applicata alla più vasta dimensione di un romanzo. L’autore porta con sé, nella sua penna, quello che un cronista non deve mai dimenticare: ciò che scrive sarà letto dal laureato e da chi è potuto arrivare solo alla fine del corso elementare, tutti hanno diritto di capire mentre lui, il cronista, ha il dovere di mantenere sempre un equilibrio di qualità, mai scadere nel banale o perdersi nell’astrusità degli “ismi”. Sicchè ha perfettamente ragione Luca Celidoni a scrivere, nella sua lucida prefazione, che… In una scrittura sobria, fluidificata dalla lunga abitudine professionale, Oliveri mette un pizzico di spezie che danno sapore al racconto, senza però cercare effetti né usare gli espedienti del giallista che non appartengono al suo vocabolario… E ancora: … i fatti sono illustrati con cura della prosa e senza confondere giornalismo e ambizioni letterarie. Non certo per espediente estetico, ma perché è una buona scrittura che fonda il rapporto con il lettore.

Vincenzo Oliveri – Albergo Muralto camera 116, Loreto, Controvento ed., 2014 – Euro 14 – pp. 120