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Duecento giorni Continua la protesta in Georgia, tra repressione, speranze e ambiguità europee

da Raimondo Giustozzi21704490-large-1200x801

Le piazze georgiane sono diventate il laboratorio di una resistenza civile contro l’autoritarismo. Migliaia di giovani sfidano manganelli e arresti, ma l’Unione europea non va oltre timide sanzioni diplomatiche

 

Cosa si può fare in duecento giorni? È il tempo che serve a una coltura stagionale per germogliare, crescere e arrivare al raccolto. In duecento giorni, la natura attraversa un ciclo di trasformazione, paziente e necessario. È il tempo che serve a un camminatore determinato per percorrere a piedi la distanza da Roma a Mosca, superando confini, montagne e fiumi. In duecento giorni, si può attraversare il cuore del continente, cambiando paesaggi e storie. In duecento giorni, si può imparare una lingua, fare un figlio. In duecento giorni, si attraversano stagioni, si cambia lavoro, si cambia idea.

In Georgia, in duecento giorni, migliaia di cittadini non hanno cambiato idea: hanno occupato le piazze, alzato bandiere europee, affrontato manganelli e lacrimogeni, nel nome della libertà e dell’Europa. Duecento giorni di protesta ininterrotta contro un governo che ormai guarda a Mosca più che a Bruxelles. Duecento giorni segnati da leggi liberticide, arresti arbitrari e un’escalation repressiva che ha colpito attivisti, giornalisti, studenti.

L’ultimo episodio è arrivato poco tempo fa: Mate Devidze, giovane volto della resistenza pacifica, è stato condannato per la sola colpa di manifestare. La Georgia, piccolo Stato caucasico con grandi ambizioni europee, è diventata in questi mesi il teatro di una lotta simbolica: tra autoritarismo e democrazia, tra propaganda e informazione, tra violenza e libertà.

Il partito al potere, Georgian Dream, nato nel 2012 come forza pro-europea, ha progressivamente virato verso Mosca, allontanandosi dai principi democratici che ne avevano ispirato la fondazione. L’approvazione della legge sugli agenti stranieri, che obbliga le Ong e i media che ricevono oltre il venti per cento dei fondi dall’estero a registrarsi come «organizzazioni che perseguono gli interessi di una potenza straniera», ha suscitato proteste in tutto il Paese e preoccupazioni internazionali. Nonostante il veto dell’allora presidente Salomé Zourabichvili, il Parlamento ha superato la sua opposizione, segnando un passo indietro per la democrazia georgiana.

Il 29 dicembre 2024, Mikheil Kavelashvili è stato nominato nuovo presidente della Georgia da un Parlamento dominato dal partito Georgian Dream. La sua elezione, avvenuta in un contesto di accuse di brogli elettorali e boicottaggio dell’opposizione, ha suscitato proteste in tutto il Paese. Kavelashvili, noto per le sue posizioni filo-russe e per aver fondato la fazione anti-occidentale People’s Power, ha preso il posto di Salomé Zourabichvili, che ha rifiutato di riconoscere la legittimità dell’elezione, definendola una «parodia» della democrazia.

La repressione ha colpito duramente anche i giornalisti. Mzia Amaglobeli, direttrice dei media indipendenti Batumelebi e Netgazeti, è stata arrestata due volte a gennaio 2025: inizialmente per aver affisso un adesivo che promuoveva uno sciopero generale, poi accusata di aver aggredito un ufficiale di polizia durante un confronto. La sua detenzione e il successivo sciopero della fame hanno attirato l’attenzione internazionale sulla crescente intolleranza del governo verso la stampa libera.

Il caso di Mate Devidze, condannato il 12 giugno 2025 a quattro anni e sei mesi di prigione per aver partecipato a una manifestazione pacifica, rappresenta un simbolo della repressione in corso. Le autorità lo accusano di «violenza contro un ufficiale di polizia», ma le organizzazioni per i diritti umani lo considerano un prigioniero di coscienza, perseguitato per le sue opinioni politiche.

L’Unione europea ha espresso preoccupazione per la situazione in Georgia, ma le sue azioni sono state finora piuttosto timide e limitate. Nel gennaio 2025, i ministri degli Esteri dell’Ue hanno concordato di sospendere i viaggi senza visto per i funzionari georgiani con passaporti diplomatici, in risposta all’irrigidirsi delle posizioni governative e alle reazioni violente contro le proteste pro-europee. Tuttavia, l’Unione europea non ha ancora adottato misure concrete per fermare la deriva autoritaria del governo georgiano. Anche gli Stati Uniti hanno avviato un riesame dei rapporti bilaterali e imposto restrizioni sui visti, ma finora senza scalfire l’arroganza del potere georgiano.

La Georgia è arrivata a un bivio. Da una parte, una società civile che chiede Europa, diritti e democrazia. Dall’altra, un potere che reprime, criminalizza e guarda a Mosca. Ma chi oggi resiste a Tbilisi lo fa in nome e seguendo i principi che sono quelli di chi oggi si batte in Unione europea per sostenerne le radici, le istituzioni e il futuro: per difendere un’idea comune di libertà, stato di diritto, democrazia. La Georgia non è il margine: è il cuore esposto dell’Europa che vorremmo. Ora tocca all’Unione europea decidere: restare spettatrice, o essere parte della storia, sostenendo attivamente la Georgia nella sua lotta per la democrazia.

 

Linkiesta, politica, 16 giugno 2025

di Chiara Squarcione

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