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Cuore di cane Putin non ha un disegno strategico, solo istinto di sopravvivenza

Internet

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da Raimondo Giustozzi

La propaganda del Cremlino e la guerra ibrida contro gli Stati occidentali sono strumenti per mascherare la crisi interna di un regime che si regge sulla repressione e sull’apparenza

 

La pace in Europa non è che un miraggio. La Russia continua nella sua offensiva di guerra ibrida, unendo strumenti di propaganda a operazioni militari. Nelle ultime ore Mosca ci tiene a far sapere che per la prima volta le forze russe avrebbero raggiunto la regione di Dnipropetrovsk, cuore minerario dell’Ucraina. Da Kyjiv smentiscono: i combattimenti sono ancora in corso nella regione. La certezza è che ci sono altri morti per colpa dell’esercito russo, che da quasi tre anni e mezzo ha lanciato un’invasione su vasta scala, colpendo ferocemente civili, scuole, ospedali.

Intanto buona parte del mondo occidentale continua a dipingere Vladimir Putin come un fine stratega, un gran maestro di scacchi che pondera mossa dopo mossa, e non come il sanguinario dittatore che è, uno che non ha problemi a mandare a morire i suoi uomini pur di raggiungere i suoi obiettivi. In questo assoggettamento alla propaganda del Cremlino, l’Italia fa da apripista, ventre molle dell’Europa – Linkiesta lo ha raccontato molte volte in questi anni. Questa non è altro che un’allucinazione collettiva prodotta dai megafoni dell’autocrate russo che qui e in altri Paesi diffondono le idee fasciste e criminali prodotte a Mosca.

La corruzione del pensiero e delle istituzioni è, per Putin, il mezzo migliore per spaccare il dibattito pubblico e minare la coesione democratica del fronte occidentale. «Dopo secoli passati a cercare di raggiungere l’Occidente, oggi la Russia usa la sua influenza per rimodellare la politica dei Paesi occidentali ed erodere i principi fondanti dell’ordine democratico», scrive la sociologa storica Anastasia Edel nell’introduzione di una lunga analisi su Foreign Policy.

Edel elenca gli strumenti dell’offensiva putiniana: propaganda, disinformazione, ingerenze elettorali, cyber-attacchi. «Non si tratta di un progetto ideologico coerente», scrive, «bensì dell’ennesima evoluzione di un metodo collaudato fin dai tempi del Kgb. Putin usa tattiche ereditate dalla Guerra Fredda ma adattate all’era digitale e mediatica, sfruttando le debolezze sistemiche dell’Occidente – la sua apertura, il pluralismo, la libertà d’espressione – per generare sfiducia e polarizzazione».

L’obiettivo ultimo di Putin non sarebbe tanto la costruzione di un ordine alternativo, quanto il mantenimento del proprio potere personale. È vero che la propaganda revisionista del Cremlino diffonde visioni del Russkiy Mir, cioè del «mondo russo», l’ideologia alla base del putinismo. Ma, spiega Edel, negli ultimi anni l’atteggiamento di Putin ha rivelato i suoi timori e le sue fragilità, dimostrando di non poter essere il dominatore della scacchiera globale. «In questo momento il leader russo non sta eseguendo un piano, sta solo improvvisando, facendo di tutto per restare al potere il più a lungo possibile», si legge su Foreign Policy in un passaggio in cui l’autrice smonta la narrazione del Putin stratega freddo e lungimirante, evidenziando che la sua azione è opportunista e reattiva, non frutto di una visione complessiva.

In questo scenario, la spaccatura dell’Occidente, particolarmente lento e impacciato nell’opporre la giusta resistenza, fa il gioco di Putin, che può premere sulle debolezze dei suoi avversari, anche se non è in grado di offrire un’alternativa stabile o attrattiva.

Da sempre gli obiettivi della propaganda internazionale del Cremlino hanno rispecchiato quelli interni. Durante la Guerra Fredda, ad esempio, Mosca cercava di estendere la propria influenza promuovendo movimenti comunisti e screditando il capitalismo, descrivendolo come moralmente corrotto grazie alla propaganda del Kgb, dei media statali e di altri agenti. Con il crollo dell’Unione Sovietica il flusso si è interrotto temporaneamente, fino all’ascesa al potere di Putin.

Ci sono alcuni passaggi chiave in questa storia, evidenziati nell’articolo di Foreign Policy, che descrivono il rilancio del giocatore d’azzardo che siede a Mosca. Nel 1999, con il pretesto della lotta al terrorismo islamico, Putin lanciò la Seconda guerra cecena per sostenere l’ascesa da primo ministro a presidente. Nel 2005, nacque l’emittente Russia Today, vetrina del Cremlino e un canale per esportare la sua visione del mondo sempre più autoritaria. Poi, convinto che l’Occidente fosse dietro le cosiddette rivoluzioni popolari in Georgia e Ucraina, e in cerca di una nuova ideologia post-sovietica, Putin iniziò a ridefinire l’identità della Russia come contrappeso all’egemonia occidentale – come ci ha ricordato con forza alla Conferenza di Monaco sulla sicurezza del 2007.

Dopo la rivoluzione di Euromaidan del 2014, Putin interpretò il desiderio degli ucraini di integrarsi con l’Europa non come aspirazione democratica, ma come sovversione orchestrata dall’estero. Non si trattava, per Putin, solo di una perdita geopolitica: il fatto che un presidente in carica di uno Stato post-sovietico potesse essere rovesciato da una rivolta popolare rappresentava un precedente pericoloso. Quindi ha alzato la posta in gioco con l’annessione della Crimea, portato avanti diverse pratiche di guerra ibrida, lanciato campagne di disinformazione per sostenere la Brexit, Donald Trump alle elezioni presidenziali statunitensi del 2016 e ad altri importanti processi democratici europei per indebolire l’Occidente.

«Man mano che Putin si aggrappava al potere attraverso una legittimità sempre più dubbia, aveva bisogno di proiettare un’immagine di forza», scrive Edel nel suo articolo. «Le sue interferenze [in Occidente] gli permettevano anche di indossare i panni del difensore del tradizionalismo, contrapposto alla decadenza del liberalismo occidentale. Narrazioni di questo tipo hanno finito per attecchire, e l’Occidente è tornato a essere l’anti-Russia, come ai tempi della Guerra Fredda».

L’invasione su larga scala dell’Ucraina nel 2022 si inserisce perfettamente in questo racconto: una crociata contro l’Occidente filo ucraino, il nemico giurato impegnato nella distruzione della Russia. L’invasione quindi si può leggere non tanto e non solo come atto di espansionismo, ma soprattutto come strategia di sopravvivenza per un regime fondato su aggressione, manipolazione e unità forzata. «Ciò che sorregge il potere di Putin», continua ancora Edel, «non è la fiducia, ma la paura. Governa a partire da una profonda insicurezza riguardo alla legittimità del suo regime, alla sua base economica e alla lealtà delle élite. I sondaggi possono indicare alti livelli di approvazione, ma in Russia l’adorazione può trasformarsi in rivolta senza preavviso. Ecco perché si circonda di bunker, rimescola costantemente i fedelissimi per evitare che qualcuno acquisti troppo potere e investe pesantemente in sorveglianza e media statali».

Allora l’aggressione e il rapporto conflittuale con gli altri Stati non è realpolitik, ma la manifestazione e al tempo stesso la protezione di una fragilità interna.

La recente crescita del Pil russo è sostenuta quasi interamente dalla spesa militare: se la guerra finisse, il motore si spegnerebbe. Con poche esportazioni al di là di materie prime e armi, e con il prezzo del petrolio soggetto a forti oscillazioni, perfino i partner commerciali più opportunisti stanno iniziando a muoversi con cautela. L’inflazione è in aumento e l’economia russa è in surriscaldamento. Inoltre, corruzione diffusa, mobilità sociale bloccata e fuga di cervelli persistente soffocano l’innovazione e compromettono lo sviluppo del capitale umano necessario alla vitalità economica nel lungo periodo. A questo si aggiunge una popolazione in contrazione e sempre più vecchia, aggravata dal numero enorme delle vittime di guerra: una condizione che mina ulteriormente la forza lavoro e la tenuta fiscale del Paese. Il risultato è un sistema impossibile replicare sul lungo periodo, di corto respiro, e utile solo a una ristretta cerchia di privilegiati.

Anche dal punto di vista culturale, la Russia di oggi ha poco da offrire al mondo. È perfino una versione sbiadita del suo passato sovietico, quando – pur tra mille repressioni – una parte del mondo vedeva Mosca come simbolo di giustizia e progresso. Ora la Russia è solo un altro Stato autoritario, senza una visione chiara del futuro. Per questo, come suggerisce Edel, l’epoca putiniana potrebbe finire così come è cominciata: con un’esplosione di verità incontrollabile, capace di rompere l’incantesimo della propaganda e di riportare alla luce i costi umani, morali ed economici di vent’anni di potere costruito sul culto del leader.

 

Linkiesta, Esteri, 10 giugno 2025

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