di Raimondo Giustozzi
“Avendo perso il suo potere disciplinare, la scuola rischia di non essere il luogo che, insieme al sapere, forma anche la coscienza dei ragazzi: il totalitarismo narcotizzante che eleva il principio di prestazione e sacrifica ogni conoscenza che sfugga alla conoscenza del fare è sotto gli occhi di tutti. È una scuola che tiene in ostaggio i giovani su un modello iper cognitivista che si emancipa da ogni sentire valoriale e, nel rafforzare le competenze per risolvere i problemi, impedisce loro di accendere innanzitutto le domande che tengono in rapporto il sapere con l’esistenza: teste che funzionano come computer, ma che soccombono a ogni minima difficoltà. Non parliamo poi del rapporto scuola- famiglia. Su quella strada verso Emmaus ci sono anche due istituzioni in continua discussione tra loro: genitori che accusano insegnanti e insegnanti lasciati soli da genitori sempre più complici e alleati dei figli. Lo sfaldamento dell’alleanza tra scuola e famiglia è un fatto che certamente non facilita la vita dei ragazzi” (Claudio Burgio, Il mondo visto da qui. Riflessioni di un prete in carcere al tempo delle Baby Gang, pp.74- 75, Piemme, Mondadori libri S.p.A. Milano ottobre 2024).
Ho scelto di iniziare la recensione del libro, partendo dalla scuola, dove ho insegnato per più di trentacinque anni. Trovavo troppo vere le riflessioni proposte dall’autore del saggio, cappellano presso il “Beccaria” il carcere per minori di Milano, per metterle da parte, perché sono anche le mie, nonostante sia in pensione da dodici anni, ma utente della scuola in quanto nonno di tre nipotini. Il rapporto Istat ricorda che, in Italia nel 2013, l’11,5% dei giovani ha abbandonato la scuola senza prendere il diploma superiore. Siamo il quinto paese con più abbandoni, dopo Spagna e Romania. La quota nazionale dell’11,5% viene ampiamente superata nel Sud e nelle isole (in Sicilia raggiunge quasi il 19%). Siamo ben lontani dall’obiettivo europeo del 9% entro il 2030. “La scuola ha un problema solo. I ragazzi che perde. La vostra scuola dell’obbligo ne perde per strada 462.000 l’anno. A questo punto gli unici incompetenti di scuola siete voi che li perdete e non tornate a cercarli” (don Lorenzo Milani).
“Il ritratto smarrito della nostra scuola italiana non è poi così cambiato dai tempi di don Milani. La lezione di don Milani è ancora valida se la parola dell’insegnante ritrova la sua portata simbolica, non più garantita dal ruolo e da un’autorità intesa come esercizio dispotico di potere. Non basta alzare la voce o minacciare una nota sul registro per ottenere il silenzio in classe. L’insegnante oggi deve fare i conti con la propria solitudine, con il vuoto di senso della propria parola, spesso inascoltata: non è questione di tecnica o di metodo, ma di un vero incontro con lo studente, perché l’autorità, oggi, è data da una testimonianza e dalla credibilità di un maestro non scollegato dalla vita” (pag. 73).
Tutti i luoghi, dove si consuma la vita degli adolescenti, che commettono dei crimini, vengono messi sotto i riflettori dall’autore del saggio: la famiglia, le periferie urbane prive di servizi, i gruppi amicali, la parrocchia e la chiesa nel suo complesso, le comunità di recupero. Don Claudio Burgio, oltre che cappellano nel carcere minorile, docente e scrittore, è anche direttore di una comunità da lui fondata, a Vimodrone, in provincia di Milano. È la Comunità onlus Kayròs. Anche nella scelta del nome don Claudio sa guardare lontano. Il termine greco, traslitterato, sta ad indicare un “tempo giusto” per fare qualcosa, quando le circostanze sono propizie e si presenta l’occasione gusta per agire. Il contrario di Kayros è Kronos, traslitterato, indica il tempo lineare nel quale tutto avviene secondo un prima e un dopo.
Il libro consta di 170 pagine, ricco di testimonianze, racconti e riflessioni, che una volta lette, vanno prese come se fossero un’agenda nella vita di tutti i giorni. Si apre con un prologo, una introduzione e otto capitoli di diversa lunghezza: Spaesati nella terra desolata (1), orfani di senso (2), padri e madri, viandanti smarriti (3), un imprevisto è la sola speranza (4), in principio Dio creò il punto di domanda (5), un padre che abbia il coraggio della verità (6), la comunità, tempo di riconciliazione e di cura (7), pellegrini di speranza (8), conclusione.
“Siamo nel tempo delle Baby gang e dei maranza, della generazione Z e dei ragazzi di seconda e terza generazione, dei ragazzi italiani e dei minori stranieri non accompagnati (MSNA): le etichette e le categorie sociali sono sempre state abili espedienti per non dovere mai davvero fare i conti con la realtà e per non interrogarsi in profondità sulle nostre responsabilità adulte. Per me rimangono ancora ragazzi e basta. Da più di vent’anni li incontro nella comunità Kayròs di Vimodrone (MI) dove risiedo: basta guardarli negli occhi per capire il loro smarrimento. Perduti nell’illimitata disponibilità di offerte, gli adolescenti di oggi sono schiacciati sull’immediato presente perché il futuro li terrorizza e lo avvertono come una promessa mancata. E così vivono più di bisogni che di desideri” (Prologo, pag. 8, op.cit.).
“Tempo fa, in una libreria, mentre sfogliavo un libro d’arte, mi sono imbattuto nella riproduzione di un dipinto su tela. Si tratta di un quadro realizzato nel 1992 da Janet Brooks Gerloff, intitolato I discepoli di Emmaus, conservato nell’abbazia di San Cornelio ad Aquisgrana. È stata una folgorazione. La scena è spirata dalla celebre pagina evangelica di Lc 24, 13- 35 e mostra tre figure in cammino, riprese di spalle, immerse in un arido paesaggio collinare; in lontananza, sulla destra dell’orizzonte, sembra avvicinarsi un temporale. Le ampie vesti scure dei due personaggi a sinistra del quadro fanno da contraltare alle linee appena tratteggiate del terzo personaggio al centro dell’opera, reso come una figura trasparente e incorporea. Tutti gli artisti degli ultimi secoli riprendono la scena al culmine del racconto lucano, nel momento in cui i discepoli riconoscono Gesù risorto nello spezzare del pane, Janet Brooks Gerloff si sofferma piuttosto sull’inizio del percorso, dando rilevanza al loro cammino verso Emmaus” (Introduzione, pp. 14- 15).
Emmaus è il villaggio distante circa undici chilometri da Gerusalemme. Nella lingua ebraica il termine Emmaus vuol dire “sorgente calda”. I due discepoli vanno verso questa sorgente per ristorarsi, ma nel dipinto non si nota la forma di nessun villaggio. Si possono solo immaginare linee di colline appena abbozzate. “I tre personaggi, i due discepoli e il terzo intruso si muovono in uno scenario in cui tutto sembra uguale, omogeneo, aridamente privo di significato: un non luogo anonimo che non fornisce direzioni certe. Tutto sembra immobile, come sospeso tra cielo e terra: un deserto dal colore giallo ocra in cui ci si perde cercando la strada” (Spaesati nella terra desolata, Il mondo visto da qui. Riflessioni di un prete in carcere al tempo delle Baby Gang, pag.19, Piemme, Mondadori libri S.p.A. Milano ottobre 2024). Nei due personaggi del quadro c’è tutta l’umanità dei nostri giorni. Il carcere minorile, la comunità di recupero sono il punto di vista dal quale i minori guardano il mondo.
Riccardo, Mario, Alessandro, Morgan, Tarik, Monsef, Willy e altri ragazzi passati dal carcere minorile alla Comunità Kayròs di Vimodrone, colpevoli di delitti, hanno iniziato un cammino: “Emmaus è vicina, ma è davvero la meta da raggiungere? Gli adolescenti abitano il mondo nella causalità di ciò che accade: non ha senso parlare di mete e di progetti, ovvero di tappe che richiedono una preparazione remota in vista di obiettivi a lungo termine. Non c’è più l’impegno e il fascino della conquista: tutto deve essere già a portata di mano e fruibile nell’immediato” (Ibidem, pag. 28). Somigliano tanto ai discepoli di Emmaus. Anche loro avevano sperato in Gesù, ma con la sua morte tutto viene cancellato. La loro è una narrazione che non sa cogliere il significato e il senso dei fatti accaduti. Hanno bisogno di incontrare qualcuno che indichi loro la strada da percorrere.
“Nella rappresentazione di Janet, piccoli tratti di bianco creano giochi di luce che illuminano leggermente le vesti nere dei due personaggi ritratti. La rinascita richiede un lungo cammino, ma già dai primi momenti in cui li incontro in carcere o in comunità intravedo questi piccoli, impercettibili segnali di luce. Spesso al loro primo ingresso nell’istituto penitenziario minorile, hanno gli occhi che tendono verso il basso: il loro sguardo fa inizialmente fatica e riemergere, ma bastano un accenno di sorriso o una lacrima sul volto a ridare slancio a un grande viaggio” (Orfani di senso, op. cit. pag. 36). “Non è vero che i ragazzi sono indifferenti e non desiderano un dialogo con l’adulto; il problema è se noi siamo capaci di accorgercene e lasciarci afferrare da quella mano invisibile che cerca di appoggiarsi sulla nostra spalla. Educare ai sentimenti e alle emozioni significa mettere mano alla fragilità che accompagna il nostro viaggio interiore. Non c’è comunicazione senza comunione” (Orfani di senso, o. cit. pp. 47- 48).
Anche i padri e le madri, come i discepoli di Emmaus sono dei viandanti smarriti. È il terzo capitolo del saggio: “Diventare padre e madre, in effetti, è un cammino. Me l’ha insegnato Monsef: Sai don, ho avuto due genitori, ma non ho mai avuto un padre e una madre. È possibile dare alla luce una vita senza dare una luce per vivere? Non siamo genitori perché mettiamo al mondo dei figli. Lo diventiamo quando generiamo in loro il senso di essere nati. Quanti padri e madri hanno imparato a esserlo strada facendo!” (Padri e madri, viandanti smarriti, pag. 54, op.cit.).
“Condividere il cammino doloroso dei nostri ragazzi e dei loro genitori è, innanzitutto, fare silenzio che non è semplicemente l’assenza di parole, ma il silenzio di chi ascolta, come sa fare lo Sconosciuto del quadro che entra silenziosamente in rapporto con i due discepoli e lo fa con quella calma che sa leggere i loro movimenti interiori e sa accogliere con cura la parola altrui. Lo sconosciuto in cammino verso Emmaus non censura le parole insipienti dei discepoli, accoglie le loro delusioni, le ascolta in silenzio, prima di porgere loro la domanda. In un certo senso sospende il giudizio, non si avventura immediatamente in valutazioni improvvisate. Quando un fenomeno risulta essere incomprensibile è perché i canoni di interpretazione tradizionali non bastano e non disponiamo di elementi sufficienti per formulare un giudizio veritativo” (Un imprevisto è la sola speranza, pp. 86- 87).
Porsi delle domande è la chiave di volta per scire da ogni sorta di crisi esistenziale e di senso. Nel ritratto di Janet “Il volto stesso di Gesù, ritratto di spalle, è un punto di domanda. Il riconoscimento richiede sempre un confronto anche con ciò che ci è ignoto e ci è oscuro. Gesù, avvicinandosi con silenziosa discrezione, fauna domanda ai discepoli e pone loro un interrogativo che ha il sapore di una ripartenza ed è l’inizio di una storia nuova. L’uomo, nella sua solitudine, non è all’altezza del senso ultimo e compiuto della propria esistenza; la risposta può arrivare soltanto attraverso il mistero di una presenza che, per quanto inafferrabile, ci svela la profondità di noi stessi” (In principio Dio creò il punto di domanda, pp. 102- 103, op.cit.).
Come nel quadro dei Discepoli di Emmaus, dove lo Sconosciuto ha parole di speranza, così nella vita di tutti i giorni si ha bisogno di chi sa offrire uno sguardo diverso sulla realtà e sa rompere l’avvilente pensiero unico dei ragzzi. “L’adulto è capace, come lo Sconosciuto sulla strada verso Emmaus, di affrontare anche la negatività delle parole ascoltate e della scelta dei due discepoli di allontanarsi da Gerusalemme; sa entrare in conflitto, se necessario, e non teme di confrontarsi con i sentimenti altrui, per quando difficili da accogliere e per quanto vissuti come un tradimento” (Un padre che abbia il coraggio della verità. pag. 121, op.cit.).
La comunità nasce come tempo per la cura e la riconciliazione: “Mi sono fatto viandante con i miei ragazzi nel viaggio verso Emmaus per fare esperienza di un incontro con il prossimo sempre più altro … La nostra casa comune nata a Vimodrone, nell’hinterland milanese, non ha la pretesa di salvare nessuno e non si arroga il diritto di cambiare a forza i suoi ospiti; è piuttosto, un’occasione di vita comune in cui educatori e ragazzi provano a fare un pezzo di strada insieme per imparare l’uno dall’altro e per scoprire insieme qual è il segreto della fratellanza” (Comunità, tempo di cura e di riconciliazione, pp. 136- 137, op.cit.).
Tutti dobbiamo diventare pellegrini di speranza: “L’educazione è il tempo privilegiato del rischio e del futuro: non è la banalità di un bene trasmesso da educatori eretici, incapaci di diffondere speranza. Meglio osare e rompersi, piuttosto che estinguersi. I giovani possono guarire dalla malattia dello spirito che abita il loro tempo solo se hanno la possibilità di incontrare sul loro cammino testimoni credibili e coraggiosi che non offrano loro risposte preconfezionate” (Pellegrini di speranza, pp.145- 166, op.cit.).
“Il mondo visto da qui, dall’avamposto del carcere minorile e della comunità Kayròs, è un paesaggio arido, senza confini e freni etici, un orizzonte incerto, vuoto e senza mete raggiungibili, ma può diventare anche un sintomo di speranza per chi non si arrende a uno sguardo miope … Su quella strada verso Emmaus sono i nostri figli, non i figli degli altri: a no, pellegrini di speranza, il compito umile e straordinario di accompagnarli a Gerusalemme. Tutti. Non uno di meno” (Conclusione, pp. 169- 170).
Bibliografia
“Don Claudio Burgio nasce a Milano il 29 Maggio 1969; dopo gli studi classici, a 21 anni entra nel seminario della diocesi ambrosiana, dove completa la formazione filosofica e teologica. L’8 Giugno 1996 è ordinato sacerdote, nel Duomo di Milano, dal cardinale Carlo Maria Martini. Fondatore e presidente dell’associazione Kayrós, che dal 2000 gestisce comunità di accoglienza per minori e servizi educativi per adolescenti, don Claudio, dopo dieci anni di parrocchia, coinvolto nella pastorale giovanile degli oratori, diventa collaboratore di don Gino Rigoldi come cappellano dell’Istituto penale minorile “Cesare Beccaria” di Milano.
È docente presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, dove tiene un laboratorio sulle problematiche educative in carcere. È autore di “Non esistono ragazzi cattivi” (Edizioni Paoline, 2010), racconto-testimonianza dei primi anni vissuti a fianco dei ragazzi del carcere minorile e delle comunità Kayrós. Appassionato musicista-compositore, scrive e pubblica “Una storia più grande di noi”, un lavoro discografico per la catechesi degli adolescenti, che ha notevole diffusione in varie diocesi italiane. Formatosi musicalmente già da giovane presso il Pontificio Istituto di Musica Sacra di Milano, nel 2007 viene nominato direttore della Cappella musicale del Duomo di Milano, la più antica istituzione musicale della città, occupazione che ha esercitato fino al 2021 (Fonte Internet).
Raimondo Giustozzi
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