di Rosaria Lo Russo
In principio era la lirica. Non soltanto la poesia lirica ma l’opera lirica. I miei esili juvenilia, raccolti ne L’estro, il mio primo libro di poesia, dovevano molta della loro ispirazione al melodramma italiano, a quel teatro magnifico in cui la parola e la voce umana, i versi italiani e internazionali del teatro per musica barocco e ottocentesco e la musica vocale e orchestrale, creavano quel mondo ulteriore e superno dove la me infante e poi adolescente soleva e desiderava recapitarsi, e di questo constava l’emozione estetica che dicevo poesia. La poesia è stata per me sin dagli esordi un teatro della voce e per le voci, la pratica della lettura/scrittura di testi in versi e la pratica di attrice o spettatrice di teatro, in prosa e in musica, un’unica attività, senza soluzione di continuità, un teatro della mente, buio e accogliente, densamente sonoro. Nel corso degli anni la dettatura in versi si è sempre più chiaramente affacciata alla mia scrittura come una partitura drammaturgica per voce e musica; una drammaturgia, cioè una scrittura, che prendesse forma come copione-libretto per esecuzioni sonore, un teatro della parola/musica, il verso, scritto, ma costituzionalmente aperto ad altre risonanze e consonanze, alla compresenza di altre voci o della musica o di entrambe, ma in ogni caso una versificazione autosufficiente quanto a partiture sonore: un teatro della voce nella mente che poteva diventare un teatro della voce nello spazio scenico. Con ciò avendo sin da subito chiara la presenza della musica verbale nel testo in versi e quindi la presenza seconda – anche se non secondaria – della musica.

Lo Russo
Essendomi formata contemporaneamente come letterata e come attrice, e specificamente come lettrice di poesia ad alta voce, e avendo continuato poi sempre sia a scrivere poesia che a leggere ad alta voce indifferentemente testi miei e altrui, questa prassi poetica complessiva non prevedeva e non prevede una distinzione ontologica, se così posso dire, fra la me autrice e la me esecutrice di testi in versi, oltretutto più spesso altrui che miei. La mia formazione duplice, inoltre, dipende anche dall’impatto che le voci hanno avuto, come fonti, sulla mia scrittura oltre che sulla mia idea di teatro e mi riferisco in particolare all’opera, scritta e vocale, di Carmelo Bene e alla vocalità di un’attrice fondamentale per la nascita della ritmica dei miei testi anni Novanta, Piera Degli Esposti. La Voce, la vocalità e le vocalità, sono dunque fonti non letterarie, orali in quanto teatrali, della mia poesia al suo nascere: il melodramma, Carmelo Bene, Piera Degli Esposti, oltre alla mia precoce formazione di performer con maestre quali Piera, Gabriella Bartolomei, Anna Montinari, Francesca Della Monica.
L’esperienza poetica così impostata dalle voci e per le voci implica una fusionalità in cui il soggetto scrivente si perda felicemente: questa esperienza mistica, fisicamente mistica, mi pare appropriato chiamarla anonimìa, indifferenza cioè alla soggettività autoriale. Il testo poetico, nella mia esperienza di autrice e performer, di performer dei miei testi e di autrice vocale di testi altrui, è un’esperienza di trasmissione di una partitura, un rapporto tradizionale, transizionale, dalla scrittura alla voce e ritorno.
Ho sempre avuto difficoltà a rispondere alla domanda su quali autori avessero maggiormente influenzato la mia scrittura. Per me lettrice ad alta voce di poesia ogni autore – nello studio per la messa in voce del testo, quindi nell’indifferenza del gusto stilistico, passando al setaccio e al rimpasto vocale del suo magma fonoritmico genotipico – ridiventa voce collettiva e quindi anonima, e la mia un’operazione di tradizione. Quel che resta di una lettura, solitaria o collettiva, interiore o ad alta voce, è la percezione concreta dello stile, ovvero la risonanza del timbro, l’inflessione di una voce interna al testo, la vocalità che modula le fibre linguistiche, retoriche, metriche, la matericità sonora di ciascun testo, non il nome, la storia e lo stile codificato dell’autore, non i significati parafrastici e storico-letterari del suo dettato. La lettura aurorale, originaria, quella che origina senso e torna al senso originario del dettato, è sempre ingenua, slegata, indipendente, ribelle alla parafrasi, alle biografie, alla storia e agli incolonnamenti critici, e per questo è capace di introdurre nuovi significati e sensi al testo, quelli che ribollono nelle zone genotipiche, rimaste inespresse nel risultato fenotipico come potenzialità che le voci che leggeranno quel testo potranno attuare. Semiosi illimitata e anonimia dello stile, appunto, non implicano anonimato dell’autore, nel senso che questo concetto ha avuto per esempio nel Medioevo, non si tratta di negazione del soggetto poetante, ma neppure di confinamento del testo in versi nel suo limitato recinto storico-letterario.
Mettere in voce un testo poetico consiste per me nella reviviscenza vocale della sua testualità sincronica. In questa prospettiva definisco la mia poetica performativa in quanto fondata sull’anonimia dell’autorialità; nella mia pratica autoriale di poesia scritta/letta il processo creativo è biunivoco: quando leggo un testo in versi scritto da me riscrivo vocalmente quel testo, quando metto in voce un testo altrui, ripercorrendo sincronicamente la sua struttura, opero lo stesso processo di riscrittura vocale. Questo non significa che la mia scrittura sia orale o performativa come si suole intendere oggi, perché non scrivo e non ho mai scritto poesia secondo criteri stilistici tipici della letteratura o della prassi teatrale in quanto scenica. Non lo spettacolo ma il teatro della voce, che può svolgersi anche nel chiuso di una stanza al buio, è l’orizzonte del mio fare in versi. E quando parlo di struttura drammaturgica nel mio modo di assemblare testi in versi, vuoi miei o di altri (in questo caso parlo di copione di poesia), mi riferisco alla loro disposizione per la messa in voce, non alle loro modalità di messa in scena.
La poesia è un’arte multimediale: per origine storica e conformazione linguistica il testo poetico si distingue per la sua condizione di dispositivo fonoritmico, quindi a rigore contiene la sua musica e non ha bisogno che della sua musica. Restituire lo scritto ad alta voce, con la coscienza e la conoscenza del proprio mezzo vocale (la natura corporale del linguaggio poetico è la sua vocalità-vocazione) è l’obiettivo di una reading performance, ovvero di una performance, un’azione, di aggiunta al corpo testuale della sua dimensione vocale intrinseca, con la specificità artistica di una vocalità messa in scena come tecnica ulteriore rispetto alla scrittura. La musica vocale è un medium espressivo del linguaggio scritto che sostanzia già completamente la partitura testuale poetica. La necessità ulteriore di accorpare poesia e teatro o poesia e musica dovrebbe consistere nella capacità che hanno queste arti del linguaggio, del suono e del gesto di frizionare, collidere, combaciare, dialogare fra loro creando nuovi orizzonti di senso e di piacere estetico: perciò si può parlare di poesia e multimedialità – e molti poeti italiani contemporanei lavorano egregiamente in questa dimensione molteplice –, ma distinguere dalle altre forme di poesia, quelle scritte e lineari, una poesia multimediale o performativa mi pare ridondante e anche depistante.
Fra i concetti di presenza della voce e vocalità come oggetti della performance nel reading di poesia e quello di poesia orale non mi pare ci sia sufficiente distinzione. Nonostante i comuni riferimenti bibliografici fondamentali fra i poeti cosiddetti performativi non penso si possa parlare di oralità per la nostra poesia contemporanea e quindi neppure di vocoralità. Non basterebbe dire vocalità? Non trovo necessario il conio oratura, non basterebbe partitura vocale? Esclusa l’oralità primaria, di pertinenza dei popoli privi di scrittura, neppure l’oralità secondaria è l’ambito di riferimento specifico dei poeti performativi. Il ritorno dell’oralità (secondaria) come mezzo espressivo fondamentale nella contemporaneità, non fosse altro per le possibilità dell’amplificazione e della registrazione, ha un’importanza cruciale per la poesia come oggetto testuale di una performance, ma non è altrimenti necessario o necessitante. Nel dualismo oralità/vocalità inaugurato dalla bibbia di Zumthor ritengo che la poesia dipenda piuttosto dalla vocalità che dall’oralità (secondaria) sia per la sua scrittura che per una sua efficace messa in scena.
Poesia/musica/teatro/canzone sono generi diversi nell’unica macrostruttura delle arti performative, ma affinché sia codificabile e descrivibile un genere testuale-linguistico definibile poesia non si può collocarlo come orale, essendo questo termine valido, a rigore, per la poesia non scritta a trasmissione mnemonica, dove la struttura metrica solitamente è data a priori rispetto alla composizione del testo, che perciò è definibile orale. Ciò non accade nella poesia in quanto letteratura se non nel caso delle versificazioni in metrica chiusa, in cui cioè la forma metrica preceda il testo composto da un singolo che non dovrebbe avere velleità autoriali. Ma quale poeta non ha velleità autoriali e ancora più il desiderio di pubblicare uno o più libri? E se scrivo e pubblico come posso definirmi poeta orale? Ovviamente invece è possibile molta varietà nelle metriche chiuse d’autore, cosa che non accade nelle forme metriche orali o che accade secondo criteri affatto diversi. Quindi, nonostante la parentela storica di poesia orale e poesia scritta, entrambe originanti da un fenomeno puro o misto di oralità/vocalità, il genere poesia resta strutturalmente distinto da altre arti della parola recitata o cantata.
Si può fare arte col linguaggio in infiniti modi ma restano cruciali per me l’interscambio e la non sovrapposizione fra ambiti linguistico-performativi come vocalità, oralità primaria e secondaria, teatro (nelle sue molte accezioni), canzone, spoken word, in particolare l’interscambio e la non sovrapposizione nei rapporti fra poesia e musica e fra poesia e teatro. Perché solo nell’interscambio fra le arti ci può essere, tramite l’atto performativo, una attività di ricerca di forme e quindi contenuti innovativi e non conformisti o banali. Il fenomeno principale del linguaggio poetico, la ripetizione, può essere o massimamente conformista o massimamente innovativo. In comune fra i generi di cui sopra c’è essenzialmente il fondamento della reiteratività e su questo sono proliferate molte distinzioni criticamente poco chiare e forse più marcate ideologicamente che motivate da coerenze concettuali.
Nella composizione di un reading di poesia con o senza musica il lettore è poeta nel senso etimologico del termine, che abbia composto il testo o lavori su un testo altrui. La performance consiste nel mettere in voce la parte sonora (ritmo e metrica), la gestualità vocale intrinseca del testo scritto, la sua zona significante, che include il silenzio delle spaziature – il tempo del silenzio negli spazi bianchi – il suono delle articolazioni fonetiche, ritmiche, delle parole e della loro struttura versale, insieme che costituisce, propriamente, la musica del testo, con cui la musica strumentale e/o elettronica dovrà entrare in relazione attiva (a meno che non si opti per la soluzione in-significante della lettura non fonoritmica associata ad una musica di sottofondo). Il processo, la pratica, la prassi poetica del mettere in voce il verso, ovvero di riportare ad alta voce la partitura negata nella giacenza tipografica, è un processo incompatibile con il concetto storico e antropologico di oralità, a meno che non si voglia dare un senso prettamente ideologico al termine, mentre è invece conforme, consustanziale, alla produzione letteraria del testo poetico, alla sua oggettualità semiotica multimediale: la presenza della voce è la caratteristica principale del testo in versi rispetto alle altre forme letterarie, anche a causa della sua origine teatrale (e perciò orale), ma da secoli il teatro e la poesia si sono specializzati e dunque disgiunti, pur non dimenticando la loro comune origine, la memoria, altra caratteristica del genere che, finito il Novecento, è stata rimossa e che pure è un elemento originante per forme (la memoria è orale e scritta) e contenuti.
La presenza della voce è perciò già afferente all’ambito sonoro-musicale, quindi l’apporto musicale dovrebbe essere inteso come contributo altro e dialogante con la voce in processo poetante.
La mia pratica di reading performance vuole essere un esercizio critico letterario dinamico all’interno della compresenza, reversibile e continuamente riversata, di anonimia della vocalità e autorialità del testo. Una prassi di ricezione fra autorialità mediante l’anonimia delle dinamiche interne al testo poetico, fra significanti e significati, fra sincronie e diacronie. Un passaggio all’interno della fluidità della semiosi ovvero della sua illimitatezza. L’attivazione, sempre diversa, sempre innovativa, della dimensione linguistica e vocale di un testo in versi, che proprio per questa dinamicità tutta particolare mi pare resti individuabile rispetto ad altri generi letterari o teatrali, nonostante l’ampia porosità e gli esercizi affini dei linguaggi letterari e performativi in senso ampio.
L’idea beniana che la voce preceda il testo era in realtà già l’idea (e l’ideale), espressa da Leopardi in frammenti dello Zibaldone o da Valéry nei Quaderni, dell’insorgenza fonoritmica del testo poetico come suo atto di nascita alla scrittura, come impulso della lingua materna a diventare scrittura, fenotesto, implicitamente musica verbale, lingua sonora che distingue poesia da prosa nella nostra percezione fisiologica della lingua, preverbale e soprasegmentale sempre, ma molto più densamente quando l’atto della scrittura è in versi: Valéry parlava del versificare come di un’esitazione prolungata fra suono e senso, fra elementi fonoritmici e semantici. Ogni testo in versi è una partitura fonoritmica: questa la sintesi di ogni scuola retorica o linguistica o semiotica che abbia approcciato il fenomeno nei secoli. Nella mia concezione e pratica della performance poetica la voce del lettore o dei lettori può limitarsi ad analizzare il testo per eseguire vocalmente la sua partitura fonoritmica oppure espandere l’esecuzione, coinvolgendo il piano semantico più profondamente, convertendola in interpretazioni di questa partitura che aumentino lo spessore segnico della lettura in performance, in direzione cioè di una performance teatrale o teatrale-musicale. Sia nella mia pratica performativa che nelle occasioni didattiche, per l’esecuzione vocale perseguo un iter accumulativo volto alla restituzione della tridimensionalità fonica della giacenza tipografica del testo. Il primo esercizio consiste nella scomposizione del fenotesto nel genotesto che gli è sotteso. All’analisi metrica – quale che sia, chiusa o aperta non fa differenza – segue l’individuazione delle catene paronomastiche, delle figure sonore, onomatopee, allitterazioni (consonanze, assonanze), ovvero la musica della lingua del testo e la sua coesione e concatenazione ritmica. Emergono così una o più figure foniche dominanti e nella maggior parte dei casi si può addirittura individuare una parola chiave – cioè una chiave per l’interpretazione semantica del testo – formata dalla combinazione di due o più catene paronomastiche, ulteriore affondo nei contenuti cui la grammatica e la sintassi non sono potute accedere. Una volta individuate la o le figure foniche dominanti queste devono essere vocalizzate ritmicamente. Ma prima, affinché le figure sonore scritte tornino a essere figure sonore pronunciate, l’esercizio successivo è la sillabazione al metronomo, con ritmi diversi, per assaggiare l’impasto fonoritmico del tessuto poetico, in questa fase con voce di tono neutro. È un esercizio arduo riportare un fenotesto alla sua genesi fonoarticolatoria; implica l’abbandono di ogni giudizio critico, storico, estetico, filosofico. Per neutralizzare il piano dei presunti contenuti, che potrebbero affiorare da ogni sorta di pregiudizio esegetico letterario o interpretativo attorico, è utile posizionare la vocalità sul proprio tono neutro e assaggiare – similmente alla manducatio dei monaci oranti – l’impasto preverbale del testo, questa concatenazione di sillabe che, evidenziando alla coscienza pronunziante le ricorrenze sonore, allena alla messa in voce del testo. La sillabazione prolungata e ripetuta con ritmi diversi è un esercizio fondamentale per appropriarsi di una corretta dizione e articolazione delle catene fonematiche coinvolte in un testo. Questo esercizio prolungato è una modalità di depensamento, geniale intuizione per l’approccio al testo poetico, inaugurata in Italia da Carmelo Bene, lettore della semiotica francese sua contemporanea. Dove il depensamento non diventi, come molto spesso è accaduto nelle prove grandattoriali di Carmelo Bene, una posa da disprezzo/sprezzatura dell’area semantica, e sia piuttosto un esercizio di anonimia vocale e interpretativa, risulta essere una tecnica di avvicinamento al senso molto intensa e liberatoria, che favorisce la spoliazione delle concrezioni critiche obsolete e quindi una nuova auroralità significante sia della vocalità del performer che della reviviscenza fonoritmica del testo. Sillabare seguendo ritmi variati e con vocalità inespressiva è anche l’allenamento vocale più utile al fine della conoscenza profonda dei materiali sonori di cui dispone il performer che deve leggere ad alta voce un testo. I passi successivi pertengono all’individuazione della composizione ritmica e alla ricomposizione metrica e sintattica del fenotesto. Il lavoro aggiuntivo, quello propriamente interpretativo, si sviluppa mantenendo una vocalità costante, l’intonazione, come base vocale o rumore di fondo della pronuncia: è questo impasto fonoritmico così individuato, ricomposto alla sua identità unitaria fenotestuale, l’oggetto performativo. Per permettere alla vocalità performante di dare una propria coloritura interpretativa coerente ai dati sonori e quindi vocali acquisiti negli esercizi precedenti, la voce parlata passa dalla sua tonalità neutra alle possibilità intonative, ovvero alle variazioni sul tema dell’intonazione costante individuata come fenotesto.
Dico melologica questa attività performativa in quanto la dizione in versi avviene come intonazione della partitura versificatoria, essendo l’intonazione la vocalità che uniforma parola detta e parola cantata; ulteriore elemento di questo recitar cantando o cantar recitando, le variazioni di volume. Dunque la performance melologica non ha a che fare con la poesia sonora o orale perché prevede la scrittura, l’emozione della scoperta nel testo scritto delle sue mozioni vocali interne. È anzi propriamente un corpo a corpo fra voce e testo, fra due identità/alterità, due alterità identiche, dove ci si abbandona, perdutamente amanti, alla perdita del confine fra soggetto vocale e oggetto testuale o fra soggetto autoriale e soggetto che intona, affinché la voce insegua il testo che poi finisce per inseguire la voce che lo dice scoprendo le sue intenzioni sonore nascoste nei recessi delle combinazioni genotipiche: in questo consiste la mistica dell’anonimia della messa in voce di un testo scritto in versi.
Dalla poesia orale questo metodo si distanzia ulteriormente dacché prevede il non mandare a memoria. Memoria del testo è la scrittura. Nella scrittura si condensano tutte le memorie intertestuali, extratestuali e intratestuali: e queste memorie, che costituiscono l’ossatura del testo, le sue intenzioni (dai significati letterali, letterari e storici, alle fonti, alle citazioni) possono rivivere vocalmente nelle intonazioni, sono anzi la materia sensibile per individuare le possibili intonazioni. Imparare a memoria un testo implica spesso una recitazione in sé conchiusa, fissata in una forma stabile, e dunque un appiattimento e un irrigidimento delle prospettive polisemiche del testo, mentre il testo poetico assume valore nel tempo proprio dal suo spessore polisemico. Scomposizione genotipica, ricomposizione fenotipica, individuazione delle intenzioni, intonazioni, variazioni di volume, rendono realizzabile una delle infinite esecuzioni non della musicalità di un testo in versi, cioè della sua prima evidenza fonoritmica, ma delle musiche, forse meglio, delle sonorità multiple, sottese, potenzialmente infinite, che la voce può restituire in quanto le amplifica, le evidenzia. Solo con queste premesse assumono per me una ragione contestuale e di consustanzialità la compresenza multimediale, la presenza dell’amplificazione – l’uso del microfono – e della musica strumentale o elettronica, ritenendo inutile e anzi negativa per la fruizione dell’arte poetica la presenza nelle letture di musiche di sottofondo preregistrate (le basi musicali) e l’uso inconsapevole del microfono da parte del performer vocale, tanto quanto la recitazione parafrastica. Ma la nostra contemporaneità non prevede distinzioni estetiche approfondite in questo campo, preferendo le distinzioni generiche fra poesia lineare recitata alla maniera degli attori, se non direttamente da attori, e la poesia cosiddetta performativa o orale, praticata per lo più da dilettanti dal punto di vista letterario, musicale e teatrale, e affidata quindi all’estemporaneità.
Questo metodo di scrittura ad alta voce o di lettura scritta – che pratico dalla fine degli anni Ottanta indistintamente su testi miei o altrui – non è che una rivisitazione in chiave semiotica dell’arte oratoria classica: una actio, che mi piace chiamare, con la lingua di Brunetto Latini retore, pronuntiagione, fedele al significato etimologico del verbo poieĩn, fare. Fare poesia è un gesto fisico che coinvolge, inscindibilmente, la mente, la mano e la voce. Dunque anche l’aggiunta eventuale del gesto scenico comunemente inteso dovrà tenere presente la diversa destinazione semiotica dell’actio retorica del testo poetico rispetto alla destinazione semiotica – affatto diversa – del testo drammaturgico, quando anche questo sia in versi, distinzione che spesso in ambito poetico performativo non è chiara né tantomeno pensata.
L’elemento performativo principe, a disposizione di ogni poeta, è la sua propria vocalità, un universo emotivo e cognitivo già di per sé necessario e sufficiente a sostanziare la tridimensionalità del testo poetico, quella di cronotopo tra phoné e graphé, come insegnava uno dei miei maestri, Piero Bigongiari. La lettura ad alta voce, oltre che completamento del cronotopo letterario in versi, ha natura filologica, implica una serie di scelte interpretative di tipo critico-letterario piuttosto che attorico: non si tratta di restituire mimeticamente un contenuto ma di proporre un’interpretazione del senso, o forse, diremmo meglio con Valéry, un prolungamento del senso. Ogni testo poetico scritto è in attesa delle sue esecuzioni implicite ed esplicite, scritte o dette. Le interpretazioni vocali sono sempre diverse, essendo ogni voce diversa dalle altre e da se stessa, in ogni momento, e questo è consono alla natura polisemica del testo letterario. La trasmissione vocale della poesia è perciò una forma di traduzione, e anche la traduzione scritta della poesia intrattiene rapporti fondamentali con il rovello della pronuntiagione, più o meno silenziosa, del traduttore, come ben esperisce chi si dedica alla traduzione di poesia.
L’interpretazione vocale della poesia è un’arte complessa e incognita, sia in ambito teatrale che poetico, ambiti spesso immemori della sostanza retorica dell’arte poetica, del suo essere orazione, imparentata antropologicamente più alla preghiera che al romanzo. E già questo credo sia sufficiente per comprendere la profonda differenza semiotica fra poesia come letteratura e canzone d’autore, per quanto molti elementi storico-letterari apparentino i due generi. Per semplificare diciamo che poesia e canzone cantautorale, intese qui come possibili oggetti di performance poetico-musicali, partono da premesse opposte: la canzone è di solito un testo scritto per un tema musicale, ovvero nasce prima un motivo musicale poi un testo che vi si integri con vari reciproci adattamenti pur sempre mantenendo una stretta interdipendenza; il testo poetico invece ha in sé la propria musica, che lo strumento voce umana deve attivare per completare la sua dimensione cronotopica, quindi la presenza musicale esterna al testo è indipendente da esso, è un elemento aggiunto. Mi sembra che per creare forme innovative nel campo della poesia in performance non si dovrebbe virare verso una semplificazione testuale (di solito si opta infatti per una maggiore comunicatività immediata, una semplificazione che appiattisce il testo poetico al livello della canzone pop, sia per forme che per contenuti), quanto piuttosto aumentare la complessità e la stratificazione, la complessità della ricerca linguistica testuale e la stratificazione multimediale non raffazzonata. In Italia oramai per poesia performativa si intende invece la gran messe prodotta in serie di testi rap, o di spoken word, completamente dimentichi della storia di un genere che non è solo letterario ma anche, e soprattutto, in sé orale, se per orale si intenda la vocalità implicita nel testo poetico, la sua natura di orazione. Mentre tutto ciò che Zumthor ha definito oralità secondaria è il terreno di costruzione non tanto del testo da mettere in voce quanto piuttosto dell’assetto performativo in cui la lettura accade: microfonazione, amplificazione, multimedialità, elementi che, almeno nel mio caso, fanno parte sin da Comèdia del panorama performativo del reading in pubblico.
L’idea (e l’ideale) della scrittura melologica ha attraversato la mia ricerca di espressione poetica originale e di una poetica multimediale, dalla fine degli anni Ottanta a tutti gli anni Novanta, fino al primo decennio del nuovo secolo e oltre, con accezioni multiformi ma senza perdere mai l’ancoraggio al significato letterale, etimologico, del termine melologo: un discorso sonoro in versi. Già con Comèdia il libro di poesia si è configurato come un progetto drammaturgico sui generis, in cui la sequenzialità testuale piuttosto che narrativa fosse, appunto, drammaturgica, un copione in versi per le molte voci di una voce sola, una struttura poematica consapevole della storia orale e oratoria del genere epico cui intendeva parodicamente appartenere, non l’oralità primaria aedica ma quella scritta, dantesca, un teatro implicito che la presenza della voce fisica poteva attuare oppure no rimanendovi pur sempre implicata, interna. L’esecuzione vocale di Sequenza orante, il testo centrale di Comèdia, è stato per così dire il mio cavallo di battaglia per un decennio e oltre, in piazze e palcoscenici nazionali e internazionali.
Il progetto melologico vero e proprio è la scommessa di una poesia scritta, che quindi preveda una propria drammaturgia fonoritmica, ma anche predisposta strutturalmente per lasciare spazio alla musica, una testualità le cui esecuzioni per voce sola siano già un’actio oratoria ad alta intensità sonora, come in Comèdia, ma la cui versificazione, che per similitudine matematica ho chiamato, nelle note al testo de Lo Dittatore Amore, verso a vettore, non implichi chiusura metrica. Il verso a vettore dà l’avvio a un ritmo che può essere, che vorrebbe essere, accompagnato e prolungato musicalmente, elaborato indipendentemente, fino alla scelta temporale, musicale e attorica, di attacco del verso successivo. Questo tipo di versificazione rende possibile l’esecuzione autonoma di un lettore, una voce recitante, oppure di una voce recitante secondo la partitura metrica e la partitura musicale (come nel melologo classico), oppure di una voce recitante e una voce cantante, sempre in base alle scelte del compositore della performance, che evidentemente non è una ma aperta a molte possibilità. Nell’oggetto poetico-musicale che chiamo melologo poesia e musica devono coesistere autonomamente ma in una disposizione relazionale continua, secondo percorsi di senso comuni o divaricati ma sempre interdipendenti durante l’esecuzione, che si basa su pattern precostituiti ma anche sull’ascolto reciproco e sulla reazione esecutiva come nell’improvvisazione musicale, data la metamorficità congenita all’atto vocale e alla testualità poetica come alla musica.
Ne Lo Dittatore Amore. Melologhi, alternando forme poematiche a sonetti, il sottotitolo vuole essere propriamente un’indicazione di composizione letteraria e performativa, nonché di esecuzione vocale per eventuali lettori ad alta voce, un libretto (o una serie di libretti) per eventuali compositori. Il libro di poesia vuole essere un libretto per musica, insomma, e non lo è (ancora) stato, almeno nell’interezza che immaginavo e speravo imminente negli anni Novanta. Tuttavia, nel tempo mi è capitato in più occasioni di realizzare come voce recitante alcuni di questi testi collaborando con musicisti compositori sensibili alla mia poetica. Vorrei ricordare tre casi, fra i molti possibili esempi di collaborazione poesia/musica nella mia attività, particolarmente significativi per riferire sia delle difficoltà che delle potenzialità artistiche dell’impresa melologica intesa come rapporto fra l’autorialità multimediale, voce e scrittura, e la composizione musicale. Dall’incontro, nel 2006, con Mauro Cardi, compositore di musica elettronica e docente di Composizione con le nuove tecnologie presso il Conservatorio Statale Luigi Cherubini di Firenze, è nato un brano intitolato I piatti della bilancia, testo tratto da Polittico del tempopieno degli addii ne Lo Dittatore Amore, che avrebbe dovuto essere il primo pezzo di un intero melologo, appunto, il Polittico, progetto reso irrealizzabile dalla mancanza di fondi, problema molto frequente nella mia più che trentennale attività di ricerca.
Una vicenda molto più articolata è toccata al poemetto Penelope, che ha conosciuto molte e diversissime epifanie performative. Come Lamento di Penelope nasce testo su commissione del compositore Luigi Cinque che mi ingaggia da autrice e voce recitante per il progetto Hypertext Ulysses, poesia e musica fra composizione e improvvisazione: in scena attori poeti e musicisti dell’area mediterranea. Nelle prime repliche figuravo come voce recitante, intonando brani dall’Odissea nella traduzione rigorosamente in endecasillabi di Giovanna Bemporad, lavorando il testo tramite l’amplificazione microfonica e la musica elettronica in scena, nel frattempo elaboravo il testo scritto commissionato la cui versificazione doveva conformarsi alla base ritmica elettronica di un telaio meccanico – un testo dunque a tutti gli effetti melologico – sul tema del rifiuto di Penelope di riprendersi in casa Ulisse tornato a Itaca. Dopo molte repliche, a partire dal 1999, Penelope è diventato un libro. Lamento di Penelope (Edizioni d’if, 2003), diventando Canto di Penelope della compositrice classica contemporanea Patrizia Montanaro, si trasforma in un melologo nel senso tecnico del termine, per voce recitante, soprano, pianoforte e arpa, quindi con musica scritta, per partecipare l’anno successivo alla terza edizione del palio poetico-musicale Ermo Colle, in quell’occasione però con il titolo Penelope. Tragicommedia lirica in un atto, soprano Catharina Kroeger, voce recitante Rosaria Lo Russo, pianoforte Monica Lonero, arpa antica e moderna Paola Perrucci. Nonostante vinca il palio, lo spettacolo non trova occasione di repliche e il melologo si trasforma in un atto unico lirico, Canto di Penelope, melologo per soprano/attrice e piano (soprano Catharina Kroeger, pianoforte Monica Lonero), edito in un cd nel 2014 dalla casa discografica Brilliant Classics. Torna la presenza della lirica, un felice ritorno del fantasma primario. Nonostante queste vicissitudini il testo del poemetto/libretto non ha subito modifiche o adattamenti imposti dalla composizione musicale, a parte tagli concordati con la compositrice, a riprova di quanto ho detto sopra riguardo alla polifunzionalità semiotica di un testo in versi.
Le varie e multiformi esperienze multimediali dei miei melologhi non hanno conosciuto tuttavia quell’auspicata operazione unitaria che avrebbe reso possibile anche una riconoscibilità artistica più nettamente configurata al mio lavoro. Anzi, i passaggi multimediali del poemetto melologico sono stati radicali, dalla musica per il quale era stato composto alla riduzione per l’atto lirico, senza che il testo dovesse perdere la sua particolare forma metrica, retoricamente basata sull’anadiplosi, favorendo questa una scansione ritmica che imita un telaio meccanico. Questa struttura metrico-ritmica è stata dunque ripresa musicalmente dalla fitta tramatura virtuosistica della compositrice classica contemporanea per scrivere la sua partitura. Nel cambio radicale di prospettiva performativa la struttura metrica è rimasta invariata, rivelando così la sua attinenza alla multiformità vocale.
Venendo al terzo caso, il copione che attualmente porta il titolo riepilogativo Melologhi, già Carta canta nella prima versione commissionata dal Maestro Francesco Giomi con il compositore Francesco Casciaro per un’edizione del festival autunnale di Tempo Reale dedicata quell’anno al rapporto fra parola e musica, è un breve viaggio attraverso la mia poesia degli anni Novanta/inizi Duemila nella sua parte non poematica, quella dei sonetti, o testi brevi derivati dal sonetto, contenuti in due libri, Lo Dittatore Amore e Crolli. Nel primo dei due i sonetti sono più o meno canonici, mentre quelli che preferisco chiamare crolli sono testi che del sonetto mantengono solo la brevità e la relativa formulaicità. La scelta di mettere in voce forme brevi e molto connotate fonoritmicamente è volta a produrre una performance per poesia e musica simbolicamente canonica, essendo il sonetto, il piccolo suono, il componimento poetico-musicale più utilizzato nella nostra tradizione letteraria, ma con la finalità implicita di innovare sia la testualità che la musica, composta ed eseguita esplicitamente per questo copione. Si ripercorre così il rapporto, fondante per la mia scrittura, fra autorialità e canone letterario nella loro duplice essenza di scrittura in versi e vocalità, ovvero di autorialità poetica come fare contemporaneamente letterario e vocale-attoriale.
La scelta testuale è autoriflessiva: scandagliare tramite testi esemplari, quindi allegoricamente, il percorso autobiografico-transpersonale nelle ragioni della mia venuta al mondo letteraria e teatrale in rapporto al modello lirico Io/Tu e alla sua onnipotenza nella nostra tradizione poetica, dando la parola ad un Io Femminile che se la prende togliendosi di dosso il silenzio del Tu musaico secondo una automusività parodica e ironica, il tema intorno a cui ha ruotato la mia riflessione poetica in Comèdia e Lo Dittatore.
Questo capitolo melologico è un viaggio dantescamente allegorico e parodico in compagnia di uno strumento musicale inventato come tale operando dall’interno di uno strumento di scrittura oramai obsoleto – una stampante ad aghi – così come obsoleta è la presenza della parola canonicamente letteraria, in particolare nella forma sonetto, un’obsolescenza inquietante e vivida se si considera che questa forma è però a tutt’oggi una delle più usate nella poesia italiana. La stampante ad aghi hackerata è lo strumento musicale che accompagna questa intenzione della mia forma sonetto, ovvero che vi si accompagna, azione parodica rispetto al concetto di reading di poesia con accompagnamento musicale. Qui due monstra si incontrano, rievocano, intendono fare e disfare memoria letteraria e memoria musicale. Memoria in versi e in musica nella riattualizzazione delle forme e degli strumenti. Lo strumento voce è sia corpo che riproducibilità del suono: il microfono non è soltanto amplificazione, è anche e soprattutto estensione dei suoni vocali e loro riproducibilità. La stampante ad aghi è prima strumento di riproducibilità del testo scritto, poi strumento musicale autonomo, e contemporaneamente terza presenza di una performance multimediale, presenza fisica e luminosa. L’esecuzione dal vivo e la sua riproducibilità sono entrambe parte della performance: la voce e il microfono, il musicista e l’apparecchiatura elettronica dentro e per la sonorità complessiva dello spettacolo. La voce testuale, la voce della scrittura, del testo scritto, è pure strumento musicale, nel senso che produce e riproduce, re-cita, la presenza della voce nella tessitura fonoritmica e nella memoria letteraria che il testo scritto riattiva citando e recitando la voce, le voci che l’originano. Si allude al recitar cantando mentre si esegue uno scrivere suonando. Il duetto-terzetto poeta, musicista, strumento di scrittura/musica, si espande e riverbera in dialogo, incontro-frizione, fra voce microfono apparecchio obsoleto e elettronica: l’oggetto di ricerca e pratica performativa ha un’intenzione concettuale, si interroga propriamente sulle interazioni fra letteratura e performance poetico-musicale, fra memoria e obsolescenza, fra scrittura e vocalità, voce recitante e strumento musicale, produzione estetica e riproduzione tecnologica. In scena agisce il dispositivo obsoleto del melologo, la riproposta consuntiva del mio ideale di un teatro di poesia e musica.
La vocalità fonoritmica è esecuzione estemporanea come ogni esecuzione ma resta anche parte costitutiva del testo scritto, suo genotesto, e al contempo è riflessione sulla tradizione, sia scritta che cantata-musicata, sul canone sonettistico che viene ricantato, parodizzato: mettere in voce significa quindi sia far rivivere nel fenotesto la vocalità genotipica sia re-citare il rapporto dei miei sonetti con il canone sonettistico (in particolare dantesco) e soprattutto le sue ragioni ideologiche, prima e fondamentale la sudditanza di un Tu femminile evocato, invocato nella tradizione da un Io maschile, e che qui invece prende voce, evoca e rievoca per uscire a forza di voce e scrittura da questa sudditanza. Tramite ribaltamenti, sovversioni, derive incestuose e violenze formali, si instaura un dialogo serrato con la forma breve sonetto, il principe dei format stilnobbisti patriarchisti, con un andirivieni di tentativi d’imitazione e inneschi distruttivi, in particolare la tendenza nei crolli alle crepe proparossitone che scassano dall’interno l’arpa metrica della melodia che pure vagheggiano, così come gli stridori della stampante ad aghi tentano e riescono ad approdare talvolta a melismi lirici. Il conflitto interno alla forma breve riproduce il conflitto di formazione di un Io autoriale e vocale poetante dalla sua vecchia e morta natura di Tu subordinato e silente oggetto di un poetare e vocare altrui. Chi dice Io si cerca come Autore Femmina Fonica a partire dall’Incesto con la Lingua Madre del Padre, un Padre Letteratura (Dante) che implica il silenzio della Madre Corpo Assente se la presenza vocale è quella di una (ex) Musa, cioè Voce e Eco, corpo vocale e vocante del novello monstrum Io/Tu femminile. Altro nodo conflittuale: l’Io poetante e la sua autorialità svilita nel termine Poetessa, ancora oggi più moina che mestiere, ancora designante un certo tipo di persona che non sono, una profetessa che non sono e non voglio essere. Performare per spaccare l’involucro opprimente della forma sonetto che imprigiona l’Io Poetessa Musa, vittima del canone letterario.
Il rapporto fra voce e musica è anche analogico, ovvero opera per analogie e contrasti, escludendo l’accompagnamento musicale come sudditanza alla parola detta, è un rapporto fra identici che tentano un dialogo. Ha infatti un proprio analogo fare allegorico e parodico anche la compagna di viaggio, la stampante ad aghi hackerata, strumento di scrittura in cui le sonorità sono inizialmente subordinate alla sua funzione di stampa, quindi stridenti e ripetitive, ma che diventando strumento musicale accede ad una voce propria con innumerevoli potenzialità sonore e dunque non soltanto rievocative ma produttrici di senso.
Bibliographie
Nota biobibliografica e sitografia di riferimento
Prima esecuzione e repliche della performance di Lo Russo-Casciaro:
Firenze, 28 settembre 2017, Limonaia di Villa Strozzi, TRK Tempo Reale, Carta canta, live set per voce e stampante ad aghi.
Firenze, 13 settembre 2018, Teatro Studio Kripton, Nel chiostro delle geometrie, Lo dittatore amore, live set per voce e stampante ad aghi.
Trento, 14 novembre 2018, V Congresso Internazionale SEMPER Gli attrezzi delle Muse. Itinerari tra poesia e musica, Dipartimento di Lettere e Filosofia Università di Trento Circolo Arci L’Arsenale, Melologhi (Lo Dittatore Amore).
Milano, 8 maggio 2019, Convegno L’arte orale. Poesia, musica, performance, Università IULM, Sala dei 146-IULM 6, Melologhi, per voce recitante e stampante ad aghi.
https://www.rosarialorusso-poesia-performance.it/
www.temporeale.it
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