di Raimondo Giustozzi
Ermanno Gorrieri (1920- 2004), comandante partigiano, studioso di problemi sociali, tra i fondatori della CSL (Confederazione Sociale Lavoro), deputato e ministro del lavoro, due volte è “Ritornato a Montefiorino”, la Repubblica partigiana che si autoproclamò indipendente dal diciassette giugno al primo agosto 1944, nel pieno dell’occupazione nazifascista. L’esperienza come comandante partigiano della piccola Repubblica, che durò appena quarantacinque giorni della sua prestigiosa storia, lo aveva portato, una prima volta, alla pubblicazione, nel 1966, del ponderoso volume, La Repubblica di Montefiorino, definito da Renzo De Felice “un’opera destinata a costituire per lungo tempo un punto di riferimento, una svolta”, per la grande attenzione dedicata dall’autore agli aspetti organizzativi, sia a quelli morali della guerra partigiana.
Ermanno Gorrieri è ritornato una seconda volta a Montefiorino con un libro scritto assieme alla nipote Giulia Bondi, “Ritorno a Montefiorino, dalla resistenza sull’Appennino alla violenza del dopoguerra”, pubblicato, sempre dalla Società Editrice Il Mulino, nel 2005. Non aveva fatto in tempo a vedere la pubblicazione del saggio, scritto a quattro mani, perché Ermanno Gorrieri è morto l’anno prima. Il ritorno alla libera repubblica partigiana, di cui era stato uno dei protagonisti, l’aveva convinto a scrivere l’ultimo capitolo del libro e lavorare assieme alla nipote agli altri capitoli per operare una sintesi del primo volume “La Repubblica di Montefiorino”, di 864 pagine complessive. Dopo sedici anni dalla prima pubblicazione, nel 2021, sempre la Società Editrice Il Mulino ha pubblicato una nuova edizione con lo stesso titolo.
Sono 183 pagine che se leggono tutte d’un fiato, anche perché scritte con passione, precisione, onestà intellettuale, senza indulgere a nessuna retorica, con un linguaggio asciutto. Gli autori non celebrano la Resistenza ma spiegano, documentano ciò che è avvenuto. “Gorrieri ripercorre le tappe della ribellione al nazifascismo, gli eventi della lotta partigiana che portarono alla nascita della Repubblica partigiana, le diverse concezioni sui metodi e sulle prospettive della Resistenza. Insieme però presenta un’attenta riflessione circa il dibattito sulla lotta di liberazione sviluppatasi negli ultimi decenni, arrivando anche ad affrontare il tema della violenza del dopoguerra” (Ermanno Gorrieri – Giulia Bondi, Ritorno a Montefiorino, dalla resistenza sull’Appennino alla violenza del dopoguerra, ultima pagina di copertina, Il Mulino, 2021).
Lo scopo e gli obiettivi del libro sono riportati tutti nella prefazione scritta con la nipote Giulia Bondi: “E’ colpa di Giampaolo Pansa se abbiamo scritto questo libro. Il titolo del suo best seller, Il sangue dei vinti, mi ha fatto un po’ arrabbiare: sembra che a Modena nel dopoguerra siano stati assassinati solo dei fascisti… La Resistenza non è stata, come qualcuno sostiene una pagina nera della nostra storia, una guerra fratricida che è meglio dimenticare, una catena di violenze che ha causato distruzioni e sofferenze. I venti mesi che vanno dall’8 settembre 1943 al 25 aprile 1945 sono stati fra i periodi più tragici per l’Italia. Furono il lungo epilogo di una guerra in cui il Fascismo ci aveva trascinato con una decisione sciagurata. Una guerra diversa da quella del 1915- 18: quello era stato un conflitto fra nazioni per il predominio in Europa. Stavolta la posta in gioco era la sottomissione dell’Europa, non alla Germania, ma al Nazismo. In questo scontro mondiale fra due civiltà, a Resistenza fu una scelta di campo: è per questo che non può essere cancellata dalla nostra storia” (Ermanno Gorrieri, Giulia Bondi, prefazione, pag. 11, op. cit. Il Mulino, 1921).
Le cerimonie celebrative della Resistenza “come epopea gloriosa, senza macchie e senza ombre, con tutti i buoni da una parte e tutti i cattivi dall’altra”, non aiutano a capire che cosa essa sia stata veramente: “L’esaltazione acritica della Resistenza ne ha danneggiato l’immagine più della critica degli avversari. Il mio libro del 1966 si proponeva di ricondurre la lotta di liberazione alle sue reali dimensioni storiche, depurandola dai miti, dalle mistificazioni, dai manicheismi. Quel libro voleva essere anche un invito ai comunisti a riflettere su quell’importante capitolo della loro storia. Ma all’epoca, l’invito non fu accolto. La recensione su “Rinascita”, la rivista culturale del Pci, nulla concesse all’onestà dell’analisi critica e si concluse con l’attribuzione all’autore del delitto di lesa Resistenza” (ibidem, pag. 12). Fu proprio questo mito della Resistenza tradita ad armare la mano di tanti giovani negli anni settanta del secolo scorso, assieme ad altri motivi culturali, sociali, e politici, contro la parte avversaria, umiliata e rancorosa per la sconfitta del Fascismo nella seconda guerra mondiale, in una spirale di violenza senza fine (N.D.R.).
“La rivisitazione della Repubblica di Montefiorino e il prolungamento della ricognizione a quello che è successo dopo la liberazione fanno emergere la concordia discors (concordia discordia) che ha caratterizzato la Resistenza. Il nemico era comune e si combatteva fianco a fianco. Ma le prospettive per il futuro, che la resistenza doveva preparare, erano diverse: un regime democratico per gli uni, la conquista rivoluzionaria per gli altri. Non meno profonde erano le divergenze sui metodi di lotta: senza esclusione di colpi da parte dei comunisti, con maggiore attenzione da parte degli altri, alle ripercussioni sulla popolazione e al giudizio che questa poteva farsi della nuova società proposta dai partigiani” (Ibidem, pag. 12). La popolazione della montagna, già povera di mezzi, non poteva sobbarcarsi il mantenimento di un numero impressionante di partigiani che trovavano proprio nella montagna la possibilità di nascondersi per evitare di essere arruolati nella Repubblica di Salò o di essere mandati in Germania.
La fine della guerra ebbe un sussulto di intimidazioni, di violenza e di eccidi, da cui derivò un clima che si può definire “prerivoluzionario”. Molti aspettavano lo scoccare dell’ora X per andare al potere con la rivoluzione. Non la pensava così Ermanno Gorrieri, comandante partigiano per la Democrazia Cristiana. Non è vero che i morti furono solo i fascisti sui quali si abbatté la vendetta popolare. Le esecuzioni sommarie riguardarono anche sacerdoti, liberi professionisti, proprietari agricoli, persone che non avevano nulla a che fare con i fascisti, borghesi, partigiani uccisi da altri partigiani. La responsabilità del Partito Comunista fu di non condannare fin dall’inizio gli eccidi e i processi sommari.
“La Resistenza non fu solo lotta armata. Le sue radici affondano in quello spontaneo sentimento di aversione ai nazisti e ai fascisti, che trasse origine dalla brutale cattura dei soldati italiani e chi manifestò nella corale disponibilità a privarsi di cose necessarie per aiutarli. Lo spirito di solidarietà, che era alla base di quella prima reazione popolare all’occupazione tedesca, si espresse poi nell’assistenza ai militari alleati fuggiti dai campi di prigiona e soprattutto agli ebrei, con i rischi che ciò comportava” (Ibidem, pag. 163). Fu un atto di resistenza eroica la decisione, a Cefalù, a Corfù e in altre isole greche, degli ufficiali e dei soldati italiani di non lasciarsi disarmare dai tedeschi. Altro grande gesto di resistenza fu quello dei 650.000 militari italiani internati in Germania perché si rifiutarono di arruolarsi nelle forze armate fasciste. Se l’avessero fatto, sarebbero rientrati in Italia e combattere con le forze d’occupazione tedesche. Alla sconfitta dei tedeschi sul suolo italiano contribuirono anche i militari del Corpo Italiano di liberazione che risalirono la penisola assieme agli eserciti angloamericani e al 2° Corpo d’Armata Polacco, comandato dal generale Vladislav Anders.
L’Italia è stata liberata dagli Alleati. Non c’è il minimo dubbio. La Resistenza armata delle formazioni partigiane, composte da comunisti, socialisti, cattolici, liberali, monarchici e di altre provenienze politiche, contribuì a tenere impegnate le forze tedesche, come sottolineato dal maresciallo Kesselring nelle sue Memorie di guerra. Scrive Gorrieri: “Può darsi che Kesselring esagerasse per giustificare la durezza delle rappresaglie e la propria sconfitta finale. È un fatto comunque che le truppe impiegate contro i partigiani venivano distolte dal fronte. Si può aggiungere che la Resistenza contribuì a far fallire il piano di Graziani di ricostituire un esercito della RSI (Repubblica Sociale Italiana) e, soprattutto, di ottenere risultati nel fornire ai tedeschi manodopera per i servizi di retrovia. Sarebbe ridicolo sostenere che la Resistenza è stata determinante per la liberazione dell’Italia. Ma altrettanto lontano dalla verità è considerare del tutto trascurabile il suo contributo sul piano militare. Se non ci fosse stata la Resistenza, si sarebbe potuto affermare che vent’anni di dittatura avevano abituato gli italiani a plaudire e asservire il più forte. Prima ancora che opposizione consapevole fu un senso di dignità nazionale a indurre a rifiutare l’acquiescenza di fronte allo straniero occupante” (Ibidem, pag. 166).
La Resistenza armata, di pochi o molti che siano stati, contro l’esercito tedesco, fu anche una guerra civile, perché i partigiani italiani, combattendo contro i tedeschi, combattevano anche contro i fascisti repubblichini, loro alleati. È una tesi sostenuta da Claudio Pavone, nel suo saggio, Una guerra civile, edito nel 1991. Lo stesso Pavone afferma anche che “Il Fascismo repubblicano non trovò nessuna rispondenza nella coscienza popolare”. Questo vuol dire, scrive Gorrieri che “La lotta fra italiani fu un corollario di una realtà diversa e più complessa, costituita dal quadro storico in cui essa si svolse. Nella guerra 1939- 35 il nemico non era la Germania, ma il nazismo. Non era una guerra di patrie contro patrie. L’appartenenza a una nazione era sovrastata dalla scelta fra due concezioni della convivenza umana. La prossimità ideale di me, partigiano, era con gli inglesi, gli americani, i polacchi, i brasiliani, i canadesi, gli australiani che combattevano contro il nazismo, più che con gli italiani che combattevano al fianco del nazismo. Dire che questa è una bestemmia è frutto dell’idea che la Patria è l’ideale supremo: la liberà, la democrazia, la giustizia sociale vengono dopo. Quindi, filonazisti o antinazisti, gli italiani debbono essere uniti. Che si schierino con una parte o con l’altra è secondario, purché non si combattano tra loro. Porre l’accento sulla natura di guerra civile del conflitto 1943 – 45 in Italia svilisce il significato storico della seconda guerra mondiale e della scelta di campo che essa comportò anche per gli taliani” (Ibidem, pag. 168).
Ciò che successe nei mesi successivi alla fine della guerra, nel famoso triangolo della morte, territorio che comprendeva i comuni di Castelfranco, Manzolino e Piumazzo, va addebitato alle azioni partigiane che facevano capo a Vittorio Bolognini e Dante Bottazzi. Vittorio Bolognini, dopo la liberazione aveva organizzato un gruppo di implacabili giustizieri. Vennero uccise persone che non avevano niente a che fare con i fascisti. Sono delle responsabilità che il Partito Comunista, anche se a fatica, ha riconosciuto nel corso degli anni. L’ex deputato comunista Otello Montanari, in un articolo, pubblicato sul “Resto del Carlino” nel 1990, chiedeva apertamente che, chi conosceva la responsabilità del Partito Comunista sulle uccisioni arbitrarie avvenute in quegli anni, parlasse una volta per sempre. Miriam Mafai rispondeva sulle colonne del quotidiano “Repubblica” denunciando i silenzi e le reticenze del Partito Comunista. La tesi del complotto anticomunista, sostenuta dal Partito Comunista Italiano era una frottola (Ibidem, pp. 178- 182).
Allo stesso modo era del tutto discutibile, scrive Ermanno Gorrieri, la tesi sostenuta da Alberto Fornaciari che parlava in una sua pubblicazione del “martirologio” fascista, elencando tutti i caduti fascisti in combattimento o uccisi, prima o dopo la liberazione. “Ma perché martiri? Ci furono senz’altro degli innocenti (perfino dei bambini) fra questi morti. Ma quei militi catturati del Gnr (Guardia Nazionale Repubblicana) e uccisi a Montefiorino non erano forse i medesimi che avevano chiamato i tedeschi ed erano andati con loro a compiere il massacro e le distruzioni di Monchio, Susano e Costrignano? È inconcepibile che si atteggi a vittima un partito che la violenza l’aveva nel sangue fin dalla nascita, che ne aveva fatto uso senza risparmio e che, nell’ora del suo crepuscolo, era diventato ancor più barbaro e crudele … Il fascismo aveva alle spalle una lunga storia di oppressione, di soprusi, di violenze; aveva portato a una guerra insensata, che tante sofferenze aveva seminato; era rinato per unirsi ai tedeschi quando si erano impadroniti dell’Italia. Con i tedeschi i fascisti avevano gareggiato nelle rappresaglie: a Carpi, per un morto, il console Nannini, avevano fucilato sedici persone, superando il dieci contro uno delle Fosse Ardeatine. Molta rabbia si era accumulata negli animi. Era impossibile che non esplodesse dopo il 25 aprile. Violenza chiama violenza. I delitti che hanno colpito i fascisti dopo la liberazione, anche se in parte furono atti di giustizia sommaria, non sono giustificabili, ma sono comunque spiegabili con ciò che era avvenuto prima e con il clima infuocato dell’epoca. I fascisti non hanno titolo per fare le vittime” (Ibidem, pp. 182 – 183).
È la conclusione del saggio, diviso in tredici capitoli, declinati in paragrafi di lunghezza diversa. Tanti sono i personaggi che ruotano attorno alle vicende narrate, i luoghi di montagna e di pianura nel territorio della provincia di Modena; manifestazioni di crudeltà senza fine sono le rappresaglie nazi – fasciste, non meno coraggiosi sono i contrattacchi delle formazioni partigiane, guidate da capi leggendari: Davide, Armando, Rossi e altri; nominarli tutti sarebbe lungo. Ermanno Gorrieri era il partigiano Claudio. Le formazioni partigiane, di ispirazione cattolica, nate attorno alla Democrazia Cristiana, entravano nel conflitto contro tedeschi e fascisti con tutti i dubbi e le perplessità verso l’uso delle armi. “Tu non ucciderai”. Era la posizione inziale, tuttalpiù si poteva e si doveva essere solidali verso i militari evasi dai campi di prigionia, verso gli ebrei, nascondendo gli uni e gli altri, soccorrere chi viveva negli stenti, ma mai imbracciare le armi per uccidere. Ma, la vita in montagna, vissuta assieme ai partigiani e alle popolazioni locali, convince anche Giuseppe Dossetti, il più estremo difensore della non violenza. Al punto di non ritorno a cui si era giunti, la lotta armata era necessaria anche per Dossetti, prendendo tutte le cautele per non scatenare feroci rappresaglie dell’esercito tedesco sulla popolazione locale. Le formazioni partigiane comuniste ragionavano in modo diverso. Bisognava combattere senza tregua, tedeschi e fascisti, costasse anche il sacrificio della propria vita e quella della popolazione locale. I fascisti erano risorti all’ombra dei tedeschi, che non li tenevano anche in nessun conto.
Indice del saggio
Premessa alla nuova edizione
Prefazione
- Il fascismo all’ombra dei tedeschi
- Da che parte stare?
- Il Comitato di liberazione nazionale
- I ribelli della montagna
- Il capolavoro di Davide
- Lo sbandamento fascista
- La Repubblica d Montefiorino
- Autunno: la caduta delle illusioni
- Il passaggio dell’egemonia ai democristiani
- La seconda Repubblica di Montefiorino
- Verso la Liberazione
- L’attesa dell’ora X
- Dopo sessant’anni, di Ermanno Gorrieri
Appendice: Nota bibliografica, cronologia essenziale
Indice dei nomi
Spigolature
“Il nome “Repubblica di Montefiorino verrà coniato dopo la guerra, ma in realtà non esiste un’autorità civile con poteri sull’intera zona liberata. Non si tratta dunque di una vera e propria repubblica ma di amministrazioni comunali democratiche che operano con una certa autonomia, ma pur sempre in base alle direttive del commissariato politico, un organo pari grado al Comando militare, composto da Davide e dai suoi compagni di partito: Spartaco (Enzo Gatti) Ercoli (Adelmo Bellelli) e secondo (Luigi Benedetti” (Ibidem, pag. 90). Diversa è la storia della “Repubblica dell’Ossola” (10 settembre 1944 – 23 ottobre 1944), dove la Giunta Provvisoria di Governo, formata da tutti i partiti antifascisti, era un vero e proprio stato, ad orientamento democratico, con proprie leggi e un proprio esercito, con poteri su tutto il territorio liberato.
La “Repubblica di Montefiorino” (17 giugno 1944 – 1° agosto 1944) cade come territorio libero il primo agosto del 1944, con l’offensiva nazi – fascista che mette a ferro e fuoco Montefiorino e altre zone limitrofe. L’Italia nei piani degli eserciti alleati diventava un fronte che passava in secondo piano verso altri fronti di guerra: lo sbarco in Normandia e in Provenza. Gli inglesi non facevano più aviolanci di materiale militare per rifornire i partigiani in montagna. Per i ribelli della montagna i mesi che vanno dal novembre 1944 a gennaio 1945 sono i mesi più terribili. La seconda Repubblica di Montefiorino rinasce come libera repubblica dopo il 20 gennaio 1945: “Nei comuni di Montefiorino, Polinago e Prignano, il Comitato di liberazione nazionale della montagna (Clnm) assume le funzioni di governo civile e di coordinamento delle amministrazioni comunali elettive. L’esistenza di un territorio occupato dai partigiani e di un’organizzazione civile democratica permettono di definire questa esperienza come seconda Repubblica di Montefiorino” (ibidem, pag. 123). Questa seconda Repubblica, con lo sfondamento della linea gotica ad opera degli eserciti anglo americani, i soldati polacchi del secondo Corpo d’Armata, il Corpo Italiano di Liberazione (CIL), i partigiani di ogni colore politico, la Brigata Maiella, il Battaglione F (1° Squadrone da ricognizione “Folgore”) sopravvive fino al 25 aprile 1945 con la fine della guerra.
Ermanno Gorrieri (1920 – 2004), comandante partigiano, studioso di problemi sociali, tra i fondatori della Cisl, è stato deputato e ministro del Lavoro. Con il Mulino ha pubblicato i volumi “La repubblica di Montefiorino” (1966), “la giungla retributiva” (1972) e “Parti uguali fra disuguali” (2002).
Raimondo Giustozzi
Dire “interessante” credo sia poco e improprio. Si, lo è senz’altro, ma forse l’accento va posto soprattutto sull’importanza di questa lettura del periodo che questa recensione porta in evidenza: l’importanza di ammettere una verità non interessata, imparziale, fornendo oltretutto ragioni e spiegazioni dei fatti di carattere sociale e psicologico, oltreché politico. L’esposizione scorre in modo veramente fluido: cattura l’attenzione e alimenta il desiderio di arrivare fino in fondo, tutto d’un fiato, per cogliere ogni aspetto del commento. Nelle recensioni di Giustozzi, si percepisce, inoltre, un’autentica passione per ciò che tratta e ciò avvince ancor più chi legge, facendolo quasi partecipe delle narrazioni.