di Valerio Calzolaio
Italia. Da quasi otto secoli. La parola razza, con il suo derivato razzismo, non è una parola neutra. Evoca il genocidio perpetrato dal nazismo e dal fascismo o l’apartheid sudafricano, riemerge spesso per giustificare il contrasto dei migranti nelle sue forme più disumane. Con le differenze dovute all’adattamento fonetico, risulta presente in quasi tutte le lingue occidentali. Non tutti sanno che è proprio una parola di origine “italiana”: la prima documentazione della sua esistenza e del suo uso la troviamo in Italia verso la fine del Duecento, l’epoca di Dante. Derivava da una parola dell’antico francese, haraz, legata esclusivamente al mondo dei cavalli. È dall’italiano, in modo lento e molto articolato, che arriva alle altre lingue europee e acquisisce modalità di descrivere altri significati, anche quelli oggi considerati scientificamente sbagliati: negli ultimi decenni la ricerca genetica e antropologica ha definitivamente negato l’applicabilità del concetto di razza all’interno del genere umano e, di conseguenza, all’interno dell’unica specie residua (da circa quaranta mila anni) del genere Homo, la nostra, i sapiens. Usandola per contesti sociali, si evoca un concetto inesistente usando una parola che gronda sangue di milioni di vite umane, per solleticare paure e pregiudizi, e per giustificare la repressione dei migranti o per alimentare un nuovo antisemitismo. Abolire la parola non servirebbe certo a cambiare la mentalità e i comportamenti razzisti o a dissolvere la paura dell’altro da sé. Tuttavia, è attraverso le parole (scritte e vocali) che definiamo e comprendiamo la verità delle cose, troviamo forse talvolta il fondamento della giustizia. Usiamola solo per le specie animali e condanniamone l’uso per la definizione di gruppi umani distinti, correggiamo i dizionari italiani o europei e togliamola appena possibile da norme e documenti connessi a costrutti umani.
Finalmente! Il linguista e filologo Lino Leonardi (Roma, 1961), ordinario di Filologia romanza alla Scuola Normale Superiore di Pisa (dopo aver insegnato anche a Firenze, dove risiede) riflette sulla preistoria non umana (“disumana”) della parola “razza” (da cui il titolo e il sottotitolo), sul suo significato e sulla sua origine, offrendo un limpido decisivo contributo a mantenere viva la memoria di orrendi crimini contro l’umanità commessi in suo “nome” nel Novecento e a lottare contro ogni forma di razzismo. Il primo capitolo esamina il comune lessico contemporaneo sulla parola, la molteplicità di definizioni formali e di espressioni metaforiche, di sfumature semantiche e di impiego fraseologico. L’autore segnala come tra la fine dell’Ottocento e il primo Novecento sia divenuta una “parola terribile” per distinguere caratteri biologici all’interno della nostra specie; rintraccia storici e viaggiatori che per primi vi accennarono per caratterizzare altri umani (giustamente la prima esplicita teorizzazione discriminatoria viene attribuita ad Arthur de Gobineau); richiama le discutibili concezioni “biologiche” alla base della crescita in Germania delle teorie razziste e naziste; affronta i nessi con la politica repressiva e omicida del regine fascista italiano; evidenzia infine come il razzismo non si sia estinto con la sconfitta del nazi-fascismo nel 1945, e le discriminazioni in nome della razza si siano susseguite nella seconda metà del Novecento. Il secondo capitolo è dedicato all’Assemblea Costituente e al testo della Costituzione italiana: la parola venne mantenuta proprio per negarne un qualche suo valore discriminatorio; si dava però comunque per scontato che le razze umane esistessero; oggi si sa che non è così, l’autore cita il percorso scientifico interdisciplinare e l’inopportuno uso anche della parola “etnia”. Nei successivi cinque capitoli, con acume e chiarezza, Leonardi compie il suo specifico encomiabile lavoro, si concentra sui “civili” aspetti linguistici del termine, sulla sua origine e sulla sua etimologia, ci conduce all’interno di tante lingue scritte e parlate in Europa, trova tracce antiche in testi e autori più o meno noti, discute le molte ipotesi fatte in passato e come si è arrivati a una conclusione abbastanza definitiva: la parola è italiana (metà Duecento, area angioina, consolidatasi nel Trecento) e riguarda gli animali; deriva da un altro termine francese che definiva allevamenti di cavalli; accresce via via le accezioni in italiano e le trasferisce o allarga nelle altre lingue (prima catalano, poi francese, inglese e tedesco). Ovviamente, l’autore segnala anche qualche ricerca ancora da fare e qualche consiglio per il nostro uso parlato e scritto. Seguono un’accurata nota bibliografica e l’indice molto vario dei nomi.
v.c.
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