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Il Natale della memoria nella poesia dialettale marchigiana

di Raimondo Giustozzi

Rinaldo Ciribè, (Civitanova Marche, 24 novembre 1879 – Civitanova Marche, 8 febbraio 1968), esattore dell’UNES, era l’ultimo di otto figli. Non aveva avuto la possibilità di studiare. Autodidatta per necessità, coltivò sempre la passione di scrivere in versi. Il giovane Rinaldo aveva una forte attitudine per lo studio e per la letteratura. Incominciò da solo a leggere di tutto. Non ancora maggiorenne, sui quattordici anni, trovò lavoro presso un’officina elettrica di Santa Maria Apparente, frazione di Civitanova Marche. Diventato maggiorenne, iniziò a girare il mondo. Prima si recò in Argentina, poi in Canada, dove lavorò come minatore nelle cave di torba. Ritornato a Civitanova Marche, all’età di trentadue anni, costruita la propria casetta in Via Dante Alighieri, N° 79, il 19 novembre 1911 sposa Maria Scataglini, figlia di un casellante ferroviario della città. Dal matrimonio, il 18 agosto 1912 nasce la prima figlia, Madera Giuliva, seguita a breve distanza, dalla secondogenita, Igea, nata il 31 agosto 1914. Dopo appena tre anni di matrimonio, a soli ventisei anni, muore la moglie Maria, vittima della terribile “Spagnola”. Le due figlie vengono affidate alle cure dei nonni materni.

Rinaldo parte per la prima guerra mondiale nel corso della quale consegue il grado di sergente. Grazie all’intervento dell’amico Adriano Cecchetti, fondatore della SACMAC, viene trasferito in Ancona al servizio sanità dell’esercito. Terminata la guerra, il 30 aprile 1921, sposa in seconde nozze Maria Lelli, di Montecosaro, un paesino poco lontano da Civitanova Alta. Da questo secondo matrimonio nasce il figlio Renzo Ciribè. Rinaldo, il papà, inizia il lavoro di esattore, che lo accompagnerà fino alla pensione (1954), prima con Giovanni Ribichini, poi con l’UNES. Il lavoro verrà continuato dalla figlia Giuliva, che mantenne l’incarico fino alla nazionalizzazione dell’ENEL. Da quel momento, fino al 1975, data della pensione, Giuliva fu alle dipendenze dell’ENEL quale impiegata. “Zinza un’ogna de vuscia” è la raccolta di poesie in dialetto civitanovese e in lingua. Fu Giuliva Ciribè, sua figlia a curarne la pubblicazione.

In una lunga poesia dal titolo “Natale”, dopo aver descritto la cena della vigilia, ricorda ancora: “Io solo e mesto, in questa mia casetta, / rpenso i quinnici lustri che ho passato, / mentre sui coppi canta la cioètta / e dice: Coccumio, scì illà rriato! / De ll’ardo monte stai sopre la vetta, / ll’incargo sci cumpiuto e il mandato; / io rassegnato rpenso a capo chino, / de dì ‘sta puisia a Ghisù bambino. // Frichétto vèllo! Nato addè carino, / de tutto er monno uneco e divino, / nato sotta ‘sta misera capanna, / tutto er monno te canta evviva e osanna; / perché non si’ un frichétto comme ‘n’addro, / te dico ngo lo còre sul labbro, / te vurrìa rregalà tra cose vèlle, / ‘na casa che toccà duvria le stelle; / a te vurria ccuccià drento sto còre, / che vatte notte e ddì per te d’amore. // Fòra te portarìa de sta capanna / perché tu non meriti ‘sta condanna, / ‘na culla te farria de tuberosa, / te copraria de petali de rosa” (Rinaldo Ciribè, Zinza un’ogna de vuscia”, Natale, pp. 26 – 28, Tipografia San Giuseppe, Macerata, 1979).

Traduzione: “Io solo e triste, in questa mia casetta, / ripenso ai quindici lustri che ho passato, / mentre sui coppi canta la civetta / e dice: Cocco mio, sei arrivato abbastanza in là! / Stai sopra la cima del monte, / hai compiuto l’incarico e il mandato; / io rassegnato ripenso a capo chino, / di dedicare questa poesia a Gesù bambino. // Bambino bello! Nato molto carino, / di tutto il mondo, unico e divino, / nato sotto questa misera capanna, / tutto il mondo ti canta evviva e osanna; / perché non sei un bambino come un altro, / te lo dico con il cuore sul labbro, / vorrei regalarti tra le cose belle, / una casa che dovrebbe toccare le stelle; / vorrei accucciarti dentro il mio cuore, / che batte notte e giorno per te d’amore. // Vorrei portarti fuori da questa capanna / perché tu non meriti questa condanna, / vorrei costruire per te una culla fatta di tuberi, / per coprirti con petali d rosa”.

‘Ntuní de Tavarró (Montegiorgio (Fm), 16 gennaio 1916 – Montegiorgio 13 settembre 1972), all’anagrafe Antonio Angelelli, il poeta contadino, ebbe molta notorietà, quando, sollecitato da molti amici, partecipò ad una puntata de “La Corrida”, spettacolo di varietà condotto in Rai da Corrado Mantoni. La poesia “Lu varbiere” vinse il primo premio, ottenendo venti gettoni d’oro. Tutte le poesie di ‘Ntunì de Tavarró furono pubblicate nel 1981, con una affettuosa introduzione di Lino Angelelli, il figlio, scomparso solo due anni fa, all’età di settantasette anni, “Personaggio storico del gruppo Montegiorgio Cacionà, una perdita per tutto il territorio fermano” (Fonte Internet).

La sera de Nata’ è la poesia dedicata alla nascita di Gesù Bambino. La notte della vigilia, il 24 dicembre, la nonna racconta ai propri nipotini, raccolti attorno al fuoco del camino di casa, quello che a sua volta lei aveva ascoltato dalla propria mamma. Potenza dell’affabulazione orale, quando sa trasmettere racconti e valori di generazione in generazione. Maria e Giuseppe cercano l’alloggio, ma non c’è nessuno che offre loro l’ospitalità. Trovano rifugio presso una capanna abbandonata, alla periferia del paese, dentro una stalla aperta alla corrente che soffia da fuori, con le bestie e la paglia e nient’altro: “Un bambinellu venne de le stelle / fa l’annu quanno se dice la messa, / e me parlava de ‘ste cose velle / che nonna sua le raccontava a essa. / Ce venne pe’ ‘mparacce d’esse santi / e de volecce vene tutti quanti. // ‘Sta notte Santa fu, fra poco nasce. / E rettizzava perché lu calore / fosse servitu pe’ sciuccà le fasce / e per non fa gelà nostru Signore. / Che pó scallà, dicìa, sinza ‘n reparu / lu fiatu de lu vo’ co’ lu somaru? // Io jé guardào coll’occhi spalancati; / penzavo a quanti frichi è dispiaciuto / che ‘n quilli tempi non ce s’’è troati / per faje ‘na culletta de villuto, / de ‘ccarezzallu co’ dilicatezza, / se ce portò la pace e la sarvezza…” (‘Ntunì de Tavarró, Tutte le poesie, La notte de Natà, pp. 33- 34, Editrice la rapida, 1981, Fermo).

Traduzione: Un bambinello venne dalle stelle / la sua nascita viene ricordata nella messa, / e mi parlava di queste cose belle / che sua nonna le raccontava a lei. / Venne al mondo per insegnarci ad essere santi / e di volerci bene tutti quanti. // Questa notte fu Sana, nasce fra poco. / E riattizzava il fuoco (la nonna) perché il calore / fosse servito per asciugare le fasce / e per non far gelare nostro Signore. / Cosa può riscaldare, diceva, senza un riparo / il fiato del bue con quello del somaro? // Io (il nipote che ascolta) la guardavo con gli occhi spalancati; / pensavo a quanti bambini è dispiaciuto / non essersi trovati in quei tempi là / per fargli una culletta con il vellutino, / accarezzarlo con delicatezza, / se ci portò la pace e la salvezza”. Servisse ancora questa innocenza di fondo, che non abita più nella vita di chi proclama impunemente guerre e distruzione d’ogni genere ed anche in nome di una nuova umanità, più vicina a Dio, quasi una guerra dove Satana scaccia Satana. Quando la bestemmia prende il sopravvento si delineano solo disgrazie per tutti.

Una invocazione alla pace universale e un abbraccio tra tutti i popoli dopo i lutti della guerra sono contenuti nella poesia “Pace” del dicembre 1969: “… O cara pace, da tutti sognata, / cerca de mette fine / all’odio de la jente travajata / che sta tra le rruine. / Vegni quella fuschia / che te fa comparì sempre velata, / ma chiara all’occhio umano / che jé fa senzu de malinconia /a quelli che te vede de lontano. / Ogni core de te faccia tesoro, / te senta viva e vera / da fa ‘bbraccià li popoli fra loro / e cancellà per sempre ‘gni frontiera” (‘Ntuní de Tavarró, Tutte le poesie, La pace, pag. 148, op.cit.).

Traduzione: “O cara pace, da tutti sognata, / cerca di mettere fine / all’odio della gente travagliata / che vive tra le rovine. / Vinci quella foschia/ che ti fa apparire sempre velata, / ma chiara all’occhio umano / che dà un senso di malinconia / a quelli che ti vede da lontano. / Ogni cuore faccia tesoro di te, / ti senta viva e vera/ tato da far abbracciare i popoli tra loro / e cancellare per sempre ogni frontiera”. La speranza è l’ultima a morire. Sperare contro ogni speranza. L’innocenza di una umanità persa nei meandri dell’odio e della vendetta, possa ritornare in auge e sconfiggere il male.  Questo è l’augurio che ogni uomo e donna liberi possano e debbano fare a tutti in questo Natale.

Giuseppe Procaccini (Pausula 1869 – Pausula 1937), maestro di scuola elementare, studioso della storia locale, pubblicò diverse raccolte di poesie dialettali, tra cui: “A mirigghia” (1909), “Vanghenno” (1922), “Vejènno” (1934). Nell’Enciclopedia Italiani della Treccani del 1934, nella sezione “Marche, Letteratura dialettale”, viene definito “assai fecondo”. Si interessò come pochi altri studiosi del saltarello marchigiano, trovandone caratteristiche e significati. Profonda fu la ricerca sui “canti a dispettu” e quelli “a batoccu”. Pausula è l’odierna Corridonia (Macerata).

“O Vambinellu caru! O chiara luce, / che appena natu scete ‘un splennore, / la lunga strada che a vvu’ mme cunduce, / scia vélla e pprofumata comme un fiore. // È vviro, o Vambinellu, agghjo mancato / verso de vu’ che scete pòrbio santu / addè se rpenzo ch- agghjo viastimato, / me sstrujo tuttu de dolore e ppiantu. // De lo male ghjà fatto perdonate / la vitaccia passata scia funita / e vvu’ che lo potete rcunzulate / ‘st’anema affritta e mmurtuvé pintita, // E vve rengrazio e pprego ‘stu momentu, / co lo core su mmoca … ‘nginocchiatu, / sinza che ddica più mango u n-peccatu. // Guardateme, faciateme u n- zurrisu / e quanno moro quello che vurrio / me porteste co n-vu’ su n- paradisu, / donghe ll’angeli canta: Gloria a Ddio!” (Giuseppe Procaccini, Vejènno, Avanti al presepio, pp. 99- 100, Bisson & Leopardi, 1934, Macerata).

Traduzione: “O Bambinello caro! O luce splendente, / che appena nato siete uno splendore, / la lunga strada che a voi mi conduce, / sia bella e profumata come un fiore. // È vero, o Bambinello, ho mancato verso di voi che siete proprio santo / adesso se ci ripenso che ho bestemmiato, / mi struggo tutto di dolore e pianto. // Perdonatemi per il male che vi ho fatto / la vitaccia mia passata sia finita / e Voi che potete farlo, riconsolate / quest’anima afflitta e molto pentita. // Vi ringrazio e prego per questo momento, / con il cuore rannicchiato, / senza che dica più nemmeno un peccato. // Guardatemi, fatemi un sorriso / e quando muoio, quello che vorrei / è che mi portiate con voi su in paradiso, / dove gli angeli cantano Gloria a Dio”.

In un’altra poesia, dal colore vivacemente popolare, il poeta dialoga con Ffrancì (Francesco), un suo amico: “De quisti jorni dì n-po’ tu Francì / quanto sordi se spreca per magnà, / tra pescio e strummi e ffoje e vvaccalà / e vvroccoli e laschetta e ppe lo vì? // Ma sta n- po’ zittu a mme no mme lo dì, / e qqueste fresche no mme fa ppenzà; / co-mmojama, per crista, po’ strillà, ma de pigne vo’ pinu lu camì. // Embè, Francì, che je vurristi fa / anghj lu lettu donghè vva a ddurmì, / li puritti se ‘mpegna de Natà, // E quanno è ggunfi de magnà e dde vì / co le famije te sse va a ndortà, / de ponci, de caffè e dde vicchirì!” (Giuseppe Procaccini, Vejènno, la vigilia di Natale, pag. 125, Bisson & Leopardi, 1934, Macerata).

Traduzione: “In questi giorni, dicci un po’ tu, Francesco / quanti soldi si spendono per mangiare / tra varietà di pesci, foglie e baccalà / e broccoli e fiaschetta per il vino? // Ma taci, non dirmelo, / non farmi pensare a tutto questo, / con mia moglie puoi strillare, ma vuole pieno il camino di pignatte. // Ebbene, Francesco mio, cosa le vorresti fare / anche il letto dunque va a dormire, / i poveretti si impegnano quando è Natale, // E quando sono pieni perché hanno mangiato e bevuto / si rimpinzano di vino cotto (messo a bollire con bucce di arance), caffè e bicchieri di vino”. Nonostante gli anni che passano inesorabili, ho mantenuto sempre le tradizioni di famiglia. La cena della vigilia è quella di sempre: spaghetti col tonno, pesce fritto, alici, baccalà, broccoli, verze, rape, vini d’annata, caffè e dolci natalizi.

 

Raimondo Giustozzi

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