Di Elena Tebano
«La morte non può essere il prezzo che deve pagare chi pur di sbarcare il lunario accetta un lavoro che lavoro non è»
Giuseppe Jossa, sindaco di Marigliano
Prima di accettare quel lavoro in nero trovato tramite un amico, Samuel Tafciu aveva fatto per tre mesi il magazziniere. Ma non aveva mai ricevuto lo stipendio. È per questo che lavorare per 20 euro al giorno in una fabbrica illegale di fuochi di artificio a Ercolano deve essergli sembrato un’alternativa migliore. Invece lo ha ucciso, al primo giorno: è morto a 18 anni, lasciando una figlia di 4 mesi e una compagna di 17 anni che dovrà crescerla da sola.
Le altre due vittime, le gemelle Aurora e Sara Esposito, avevano solo 26 anni e avevano già fatto mille lavori, dalle commesse alle cameriere, tutti precari e a tempo. Di quello che è diventato il loro ultimo avevano saputo al bar e — scrive Fulvio Bufi sul Corriere, che ha raccontato anche questa storia con la delicatezza e l’umanità che lo contraddistinguono — hanno «accettato di improvvisarsi fuochiste. Per loro era un modo come un altro per portare qualcosa a casa, dove, tra l’altro, nemmeno avevano capito che cosa stessero facendo. Mario credeva che Aurora lavorasse in un’impresa di pulizie, zia Simona, invece, era convinta che le nipoti facessero le operaie in una delle tante fabbriche di borse della provincia di Napoli». Invece confezionare fuochi è «un’attività che per quanto è pericolosa richiederebbe una altissima specializzazione. Altrimenti basta pochissimo per far saltare tutto in aria» (sempre Bufi). È successo proprio quello. Anche Aurora lascia una figlia orfana: ha 5 anni.
La loro storia ha occupato le cronache per un paio di giorni, poi è sparita. È stata descritta come una vicenda «di marginalità». Ma non ha niente di marginale: è una tragedia nazionale. Samuel, Aurora e Sara sono un caso esemplare di giovani italiani costretti ad accettare lavori che uccidono, o che non fanno vivere, perché non ne trovano altri.
Samuel, Aurora e Sara dovevano essere il nostro futuro. Erano i giovani che la politica e invoca a ogni pie’ sospinto: non «bamboccioni», ma ragazzi e ragazze disposti a fare grandi sacrifici pur di lavorare. Anche se non hanno studiato. Giovani genitori che, sempre secondo le promesse di tutti i politici, andrebbero sostenuti e aiutati nell’Italia a crescita zero. «Non potranno nemmeno essere iscritti nella triste lista delle morti bianche, ma in quella dei tanti fantasmi del lavoro senza regole, senza sicurezza e senza futuro» ha detto adesso il sindaco di Marigliano (il paese di Sara e Aurora) Giuseppe Jossa.
La loro morte non è un «incidente» ma il risultato inevitabile di un sistema economico illegale e criminale. Ancora Bufi sul Corriere: «Dal 1998 al 2015 ci sono state almeno diciassette esplosioni di fabbriche di fuochi d’artificio, con 43 morti e 18 feriti. E non soltanto al Sud: anche in provincia di Pisa, di Pescara, dell’Aquila. Ma la catena delle tragedie comincia molto prima del 1998 e la cronaca racconta di altri incidenti e altre vittime nei quasi dieci anni che sono passati dal 2015 a oggi. Il momento più a rischio è proprio questo. Le fabbriche ufficiali lavorano tutto l’anno e nel rispetto delle norme di sicurezza, quelle illegali, invece, aprono oggi per chiudere dopo aver fatto scorta di fuochi da vendere sulle bancarelle nelle settimane che precedono il Capodanno. Hanno fretta di accumulare merce e mettono a lavorare persone che non hanno nemmeno il tempo di imparare le basi».
Le fabbriche illegali di fuochi di artificio in Campania sono un caso estremo, spesso gestite da persone vicine alla camorra, e non sorprende che offrano lavori di cui si muore. Ma si muore anche in fabbriche «normali», come quella di Prato dove nel 2021 Luana D’Orazio, pure lei una giovane madre, è rimasta stritolata da un macchinario a cui per «aumentare la produttività» erano state rimosse le strutture di sicurezza necessarie a evitare quel tipo di incidenti.
E poi ci sono tanti altri lavori, non solo in Campania e non solo al Sud, di cui non si muore, ma neppure si vive. Lavoro nero, precario e malpagato, che non basta mai ad arrivare alla fine del mese. Oppure grigio: con un contratto e uno stipendio regolare, che però il sedicente datore di lavoro in gran parte “trattiene”. O che dà solo a condizione che si aggiungano ore e ore di straordinario non pagato. Magari per poche centinaia di euro al mese. Secondo l’Istati lavoratori irregolari in Italia sono circa 3 milioni. E l’economia sommersa vale 182 miliardi di euro, il 9% del Pil, cioè di tutto quello che si produce in Italia (oltre ai lavoratori danneggia anche le imprese e i professionisti corretti). Non solo: nei giorni scorsi il rapporto Caritas ha certificato che sono sempre di più i lavoratori poveri: l’8% di tutti gli occupati (erano il 7,7% nel 2022) ma il 16,5% degli operai o assimilati, in crescita di due punti rispetto all’anno prima (ne ha scritto Luca Angelini nella Rassegna). Una situazione aggravata dall’abolizione del reddito di cittadinanza da parte del governo Meloni. Significa che molti, troppi italiani trovano solo lavori da schifo, che non gli permettono di avere una vita dignitosa. O che lavorare non basta più.
Dovrebbe essere la prima emergenza nazionale. Eppure di lavoro che uccide e, soprattutto, di lavoro che non permette di vivere si continua a parlare pochissimo. Soprattutto non ne parla la maggioranza al governo.
Invia un commento