Di LUCA ANGELINI by Corriere.it
Certifica l’Istat che in Italia quasi una persona su dieci, il 9,7% vive in una condizione di povertà assoluta. Cosa voglia dire, in concreto, lo spiega Francesco Riccardi nel suo editoriale su Avvenire: «La povertà genera tristezza, preoccupazione, pessimismo. Provoca uno stress che – quando la condizione di bisogno si prolunga, fino a cronicizzarsi – finisce per incidere pesantemente sulla psiche delle persone. Secondo alcuni studi scientifici la miseria non solo modifica i comportamenti, ma incide fino a ridurre la “larghezza di banda cognitiva”, condizionando così la capacità di concentrazione e la memoria. La povertà insomma “ammala”. E rende incapaci di pianificare, di proiettarsi nel futuro in una condizione differente, migliore». Chi ha letto La fame, di Martín Caparrós, sa bene di cosa si tratta.
Il rapporto della Caritas «Fili d’erba nelle crepe, risposte di speranza», presentato martedì, non parla, però, di terzo o quarto mondo. Parla dell’Italia di oggi. E dice, come riporta Paolo Lambruschi sempre su Avvenire, che «complessivamente si contano 5 milioni 694 mila poveri assoluti, per un totale di oltre 2 milioni 217 mila famiglie (l’8,4% dei nuclei). Il dato, in leggero aumento rispetto al 2022 su base familiare e stabile sul piano individuale, é il più alto della serie storica. La povertà da un decennio non accenna a diminuire, commentano i ricercatori dell’organismo pastorale della Cei, passando dal 6,9% al 9,7% sul piano individuale e dal 6,2% all’8,4% su quello familiare».
Quanto alla povertà che «ammala», ecco un altro dato: fra gli assistiti dalla Caritas (l’anno scorso 269.689 nei 3.124 centri dislocati in 206 diocesi), cresce il disagio psicologico e psichiatrico: dal 2022 al 2023 il numero di persone affette da depressione o malattie mentali è aumentato del 15,2%.
Si potrebbe ironizzare su chi proclamava dal balcone di Palazzo Chigi di aver «abolito la povertà». Ma nemmeno aver abolito il reddito di cittadinanza ha migliorato le cose. Anzi, va sempre peggio, anche nel confronto con l’Europa. E va sempre peggio soprattutto in quello che dovrebbe essere il Nord «ricco». «I salari medi rispetto a quelli Ue sono calati del 4,5%. Le famiglie si sono impoverite soprattutto al Nord dove dal 2014 al 2023 il numero è praticamente raddoppiato, passando da 506 mila nuclei a quasi un milione (+97,2%). Qui vive infatti la maggioranza dei lavoratori stranieri, mediamente più poveri. Nel resto del Belpaese la crescita è stata molto più contenuta, +28,6% nelle aree del Centro e +12,1% in quelle del Mezzogiorno (il dato nazionale è di +42,8%). Oggi in Italia il numero delle famiglie povere delle regioni del Nord supera quello di Sud e Isole complessivamente. L’incidenza percentuale continua a essere più pronunciata nel Mezzogiorno (12,% a fronte dell’8,9% del Nord), anche se la distanza appare molto assottigliata».
A proposito di «lavoro povero» quasi una persona su quattro (23%) fra quelle che hanno chiesto aiuto alla Caritas ha un’occupazione. E se si scava meglio in quel -4,5% nei salari italiani, si scopre che per un dirigente, quadro o impiegato la discesa si ferma al 2,8%, mentre balza al 16,5% per gli operai.
C’è un altro dato, che riporta a quel che scrive Riccardi sull’incapacità indotta di «proiettarsi nel futuro in una condizione differente, migliore»: la povertà si eredita come e forse più della ricchezza. «In Italia – ricorda Lambruschi – come ripete da anni la Caritas, più che nel resto d’Europa le difficoltà economiche sembrano destinate a perpetuarsi di generazione in generazione. Se un quinto degli adulti europei tra i 25 e i 59 anni cresciuti in famiglie svantaggiate tendono a trovarsi in condizioni finanziarie precarie, in Italia, il dato sale al 34%. Valori più alti si raggiungono solo in Romania e Bulgaria».
«Il perdurare nel tempo della condizione di bisogno rende difficile immaginare uno scenario di uscita da questo stato per la persona in povertà a causa dell’erosione di quel capitale progettuale che può essere definito la “capacità di aspirare”», si legge nel Rapporto Caritas.
Riccardi traduce così: «Privi dei beni necessari, schiacciati dalle preoccupazioni a brevissimo termine – “riuscirò a comprare da mangiare domani? A saldare la bolletta della luce? A pagare l’affitto ed evitare lo sfratto?” – i poveri insomma finiscono per perdere la capacità di pensarsi altro. E ciò rende ancora più complesso rompere la spirale della povertà e proporre azioni di accompagnamento realmente promozionali, di spinta al miglioramento. (…) Nei poveri a poco a poco muore il “diritto di aspirare”. Che è come vederli spogliati dell’ultimo, inalienabile, bene: la speranza», scrive ancora Riccardi.
Non parliamo di qualche centinaio di clochard. Ma di quasi 6 milioni di persone. In Italia. Adesso. Di quell’esercito, 1,3 milioni sono ragazzi (il 13,8%, altro record storico negativo) il cui destino rischia di essere segnato, visto che l’“ascensore sociale” è fermo da tempo.
Su come fare per evitare che quel destino sia davvero segnato, qualche suggerimento Riccardi lo offre: «Nell’ultimo anno le politiche di contrasto alla povertà, con l’abolizione del Reddito di cittadinanza, sono state fortemente ridimensionate e limitate a meno del 30% dei poveri assoluti. Il criterio dell’universalità è stato cancellato e si è scelto – sotto questo aspetto assai positivamente – di mirare i sostegni ai nuclei familiari con figli, con l’intento di spingere invece i singoli ad attivarsi per trovare un’occupazione. Le politiche attive per favorire questo processo, però, risultano insufficienti, così come si avverte la necessità di un grande investimento in istruzione e formazione, nel contrasto all’abbandono scolastico e nel sostegno agli studi non solo dei più meritevoli, ma di quanti più ragazzi possibile se vogliamo davvero contrastare la miseria crescente nel nostro Paese».
Per capire l’insistenza di Riccardi su quest’ultimo punto, basta riflettere su un altro dato evidenziato dal rapporto Caritas: lo stretto legame tra povertà economica e povertà educativa. Oltre i due terzi degli assistiti Caritas non va oltre il diploma di terza media e prevalgono quelli che si sono fermati alle elementari o sono analfabeti. «Non solo la loro uscita dalla condizione di povertà è difficilissima – sottolinea Riccardi – ma quasi altrettanto rischia di esserlo quella dei figli, visto che nel nostro Paese il livello di istruzione dei giovani è fortemente correlato a quello di padri e madri».
La scuola è, o dovrebbe essere, il principale ascensore sociale. Se si provasse a far ripartire almeno quello?
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