di Davide Tiozzo
Il 4 maggio del 1939 Marcel Déat, deputato socialista francese, in un articolo sul quotidiano nazionale L’Œuvre – e in seguito parlando dal suo seggio al parlamento di Parigi – scriveva:
“Combattere a fianco dei nostri amici polacchi per la difesa comune dei nostri territori, dei nostri beni, delle nostre libertà, è una prospettiva che si può coraggiosamente immaginare, se deve contribuire al mantenimento della pace. Ma morire per Danzica, no!”.
Ancora oggi, nell’ottobre 2024, nel dibattito provincial-ancillare delle redazioni europee ci si domanda se gli statunitensi andranno non tanto a morire per Danzica, ma a votare per Gaza.
La questione allora era delicatissima: le cancellerie europee si contorcevano circa l’opportunità, vent’anni dopo la precedente Guerra mondiale, di accordarle il titolo non proprio onorifico di prima, scatenandone una seconda, per difendere una città, Danzica, che Hitler aveva eletto a prossimo bersaglio.
Déat intervenne per sostenere che proprio non valesse la pena rischiare il coinvolgimento in una nuova Grande Guerra per una cittadina tanto piccina la cui conquista a suo avviso avrebbe saziato gli appetiti (tanto più illimitati) di Hitler. In seguito, certo un caso, Marcel Déat fonderà un partito di ispirazione nazionalsocialista e verrà riconosciuto come collaborazionista.
Torniamo al presente, e al quesito, o ancor più a fuoco: votare (in un senso o in un altro) per via di Gaza è un quesito sulla tavola degli statunitensi? Se ne nutrono, ponderano, metabolizzano e a cascata decidono?
Storicamente, i cittadini “americani” (ci perdoneranno gli altri 34 paesi che costituiscono oltre i due terzi della popolazione delle Americhe) – più che altri, si badi – decidono innanzitutto con il portafoglio, non per via dei proiettili, con cui pure hanno suicida consuetudine (vedi il Secondo emendamento). Figurarsi poi se quei proiettili sibilano a 10mila chilometri di distanza, o per esser più precisi 9.475, lo spazio tra Washington e Gaza.
In vista delle prossime elezioni del 5 novembre, nuove questioni sembrano contravvenire al dogma del 1992 di Jim Carville “it’s the economy, stupid” – economia che peraltro con l’amministrazione Biden è andata generalmente meglio del previsto. Ma no, tra queste non compaiono Medio Oriente e Palestina, questione d’altro canto né nuova né mai sul tavolo della cena della famiglia media di Providence o di Phoenix. Parafrasando uno sciagurato ex-ministro italiano, se con la (propria) cultura non si mangia, con la carneficina (altrui, altrove) neppure si vota.
Le questioni sistemiche e mediatiche sono da un lato il ritiro a cui è stato costretto, in primis dalla sua stessa parte, un Biden indebolito non nell’anima ma nel corpo, con una staffetta in piena corsa che qualunque analista definirà, di per sé stessa, più improvvida di mille inciampi su scalette d’aereo o mille incespichi su palchi di dibattito. Dall’altro il ritorno di Donald Trump, un comeback kid – e per citare gli americanissimi Beach Boys, God Only Knows quanto gli statunitensi amano i sequel con un protagonista analogo, che si rialza dalla sconfitta e si riprende la vittoria – che, essendo inoltre un martire vivente, scampato da (più di) un attentato con tanto di proiettile a sfregiarlo e farlo sanguinare, è materiale eccellente per gli spin doctor e ritenuto vincente da molti sondaggisti con l’approssimarsi del voto. Magari anche post-voto, con un Little Help From My Friends (se per par conditio anglosassone si menzionano i Beatles) pensando all’attuale composizione di una Supreme Court iperpoliticizzata (con buona pace della giustizia “uguale per tutti”), che già un quarto di secolo fa, nel 2000, diede una spintarella decisiva ai Repubblicani.
A un mese esatto dal voto, sia il martirio di Trump che il momentum di Harris sembrano aver perso smalto ma, a tre quarti di secolo dalla fondazione di Israele, nessuna della diciannove elezioni presidenziali trascorsa è stata decisa, anche solo in piccola parte, dalla questione mediorientale. E neppure la ventesima lo sarà.
Quella statunitense è una cultura pertinacemente insulare. E non torno a usare a caso il termine cultura: sapete perché di rado gli statunitensi vincono un Nobel per la letteratura, e spesso se ne lagnano schiumando frustrazione, come nel caso di Philip Roth? Perché persino la loro letteratura, persino la più magnificente da Pynchon a McCarthy, è maledettamente insulare e ombelicale. Parlano di sé stessi a sé stessi, gli americani.
Gaza non sanno neanche dove stia di casa. In effetti, la stragrande maggioranza della popolazione non saprebbe indicare Israele sulla mappa mondiale, e non perché la vorrebbero veder cancellata come Khāmeneī, ma perché proprio non san che pesci pigliare o che proiettili piangere.
No, non voteranno per Gaza, né per Ramallah o Beirut o Sana’a, neppure se tutti attaccano tutti, come d’altra parte sta già avvenendo. Non importa quanto crescano le vittime in ogni dove. Conterà di più quanto aumenterà il Big Mac al McDrive più vicino.
È un qualcosa che fa un po’ il paio con il Nimby, espressione coniata negli anni Ottanta da Joe Lieberman – in seguito proprio nel ticket presidenziale democratico perdente del 2000: not in my backyard. Non nel mio cortile. O per dirla con Sergio Endrigo: lontano dagli occhi, lontano dal cuore. Ma quella del cortile è metafora più esatta, se pensiamo che non appena si osa toccare il cortile (e in politica estera, una volta recintato o murato via il Messico – citofonare Trump – il cortile degli americani è più che mai l’Europa), ecco che non si perde tempo a rispondere a un dittatore con dei missili, pur per interposto Zelensky, affinché zar intenda.
Ma neanche la povera Ucraina, sposta granché, al netto di polemiche politiche – più brace a riposare che benzina a infiammare – il dibattito pubblico, se non per la parte economica, che a cavallo tra fine 2023 e inizio 2024 per ragioni di budget di Stato ha spostato, pigramente, qualche zero virgola di qua e di là e poi di nuovo di qua, anche sullo sfondo di una pur non indifferente, muscolare campagna per il controllo della House.
D’altra parte, a pensarci, la Palestina come e dove potrebbe spostare qualcosa in Pennsylvania? In astratto (e in effetti) ogni singolo Presidente statunitense è stato un disastro, in Medio Oriente, tranne tuttalpiù in parte Clinton, al netto dello sciagurato aborto dell’accordo di Oslo del 1992, e il repubblicano Reagan, che nel 1982 dopo la carneficina israeliana a Beirut chiamò furioso il premier israeliano Begin dicendogli di deve fermare quello che definì, letteralmente, un “olocausto”.
Per inciso, sia il democratico sia il repubblicano vinsero poi tranquillamente la rielezione a un secondo mandato a Presidente degli Stati Uniti.
Donald Trump ha pur provato, episodicamente e senza grande efficacia, a strumentalizzare l’argomento contro Kamala Harris, quando durante il loro dibattito televisivo alla ABC, lo scorso 10 settembre, ha affermato che la candidata “odia Israele”, ma questo messaggio è risultato avere persino meno credibilità di quando l’ha apostrofata come una “marxista”, che calato nella nostra realtà peninsulare sarebbe come dire a Matteo Salvini “comunista”, e dati i suoi trascorsi nei comunisti padani sarebbe meno distante dal vero.
In un’altra occasione, Trump ha affermato: “Israele, a mio parere, cesserà di esistere entro due anni, e credo di avere ragione al 100%”. Appare per fortuna difficile (così come, per disgrazia, ancor più difficile sembra essere l’approdo a uno Stato di Palestina pienamente riconosciuto), ma pare praticamente impossibile che simili reboanti tweet possano portarlo di per sé al di sopra del 50%.
Anche perché, al di là di abomini o epifanie estemporanee, la classe dirigente, così come il corpo elettorale, insomma il corpo vivo unico d’America, in questo è unito: sostegno ad Israele, al netto di tutto, a tutti i costi (di vite umane) e ad ogni costo, pur quello di finanziare, armare e lasciar ammazzare a un pazzo come Netanyahu.
Pare un po’ strana, questa insulare indifferenza in una società, per definizione e costituzione sano e robusto incontro di genti più disparate e disperate, ma tutto questo se la vipera Joe Lieberman lo sapeva, il calabrone Joe the Plumber lo ignorava, e i proiettili ignari e indisturbati han continuato a volare, mentre il primo Joe moriva quest’anno e il secondo l’anno scorso.
Da un lato, anche per via di quella che chiameremo la democrazia della demografia: per ogni arabo-americano vi sono negli Stati Uniti quattro ebrei americani. Con redditi medi, posizioni di potere e cariche elettive esponenzialmente maggiori.
Negli ultimi dati disponibili, gli arabo-americani sono lo 0,6% della popolazione (rispetto agli 8 milioni di ebrei): la parte del leone la fanno i siriani, tra i più ebbri di gioia per le strade di Damasco all’assassinio di Nasrallah, con lo 0,1%, e in cima si collocano proprio… i libanesi. Il lettore non incorra in un inganno: i libanesi d’America non sono certo pro-Hezbollah, perché in massima parte è proprio il terrorismo a foggia sciita dell’Asse della Resistenza che direttamente o indirettamente li ha esiliati oltreoceano.
Altri numeri sono ancor più impietosi. In un sondaggio pubblicato dallo Statista Research Department, le priorità dell’elettore dalla California al Colorado, dal Nebraska al Nevada o dall’Alaska o dell’Alabama, sono nell’ordine: i prezzi, l’immigrazione, la sanità, il lavoro e l’economia, l’aborto, il clima e l’ambiente, i diritti civili, la sicurezza nazionale, le tasse, la spesa pubblica, le pistole, le libertà civili. In questa sporca dozzina, non ci si sporca gli stivali d’una sola goccia di sangue, la questione rimane sotto il tappeto e non sopra il tavolo. Figurarsi mettere un solo scarpone sul terreno (boots on the ground, nell’espressione bellica), o anche mezzo voto nell’urna.
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