di Raimondo Giustozzi
Don Bosco e il Risorgimento Italiano: Primavera dei popoli, guerra in Lombardia e nei prati
Gli anni 1848 –’49, a Torino, sono di preparazione alla guerra conclusa con la tragica sconfitta del Piemonte nella battaglia della “Fatal Novara”. Nella capitale sabauda, i preti hanno fatto politica da mille anni, sempre fedeli al duca, al principe e al governo di turno. “Fedeltà e collaborazione, alleanza tra trono e altare” sono alla base di questo atteggiamento politico. La vittoria nel 1796 dei Francesi sui Piemontesi e sugli Austriaci, accorsi in loro aiuto, viene salutata con atti di giubilo. Si canta il Magnificat perché quel “Ha deposto i potenti dai troni” ben si addice ai rivoluzionari del momento. Nel 1799, Napoleone ed i Francesi vengono sconfitti. Si canta allora il “Te Deum”, in segno di ringraziamento. L’anno dopo Napoleone ritorna e Torino è ripresa dai Francesi. Si ricanta il “Magnificat”. Quando nel 1809 Pio VII scomunica Napoleone, nei seminari e nelle diocesi si creano gravi tensioni. La definitiva sconfitta di Napoleone a Waterloo viene salutata con il “Te Deum”. I moti rivoluzionari del 1821 creano ancora molto disorientamento tra le fila del clero.
Sono gli anni che portano un nuovo verbo sconosciuto nei secoli precedenti: la Costituzione, anche se concessa dall’alto per la magnanimità del sovrano. In tutti questi anni di grandi rivolgimenti, don Bosco capisce che se si mette Dio sui gagliardetti di una parte contro la parte avversa, preti e vescovi non tengono unito ma dividono il popolo cristiano. “Il prete cattolico non ha altra politica che quella del Vangelo”. È la politica del Padre Nostro. “La politica del Vangelo è quella del Vangelo e della carità”, scrive don Bosco. Molti preti non lo seguono, tra questi don Cocchi che andrà “ad agitare la bandiera tricolore” per le strade e tenterà di partecipare alla guerra con i suoi ragazzi. Ma la separazione tra Stato e Chiesa progredirà sempre più. All’orizzonte intanto si profila l’anno più inquieto, il ’48 che porterà il moto rivoluzionario in più capitali europee. L’anno successivo sarà guerra tra il Piemonte e l’Austria.
L’elezione al soglio pontificio del Cardinale Giovanni Maria Mastai Ferretti (giugno 1846) che prende il nome di Pio IX, illude un po’ tutti. Credono che si tratti di un Papa liberale. Non ha affatto idee liberali. “Non gli andava che l’Austria ficcasse il naso ed i cannoni in ogni angolo d’Italia. Era una persona umana, e perciò liberò quei prigionieri politici che erano stati incarcerati per un po’ di chiasso fatto sulle piazze. Gli parve giusto che gli amministratori locali eleggessero i loro amministratori (non eleggevano mica il Papa!), e che, salva la buona educazione e il rispetto dovuto alle autorità, sui giornali si potesse scrivere ciò che si pensava” (Cfr. Teresio Bosco, Don Bosco, Storia di un prete, pag. 146, Torino 2006). Concede per primo le “libertà soppresse” da 34 anni. Il gesto ha l’effetto di accendere una miccia su una polveriera che deflagra improvvisamente.
La rivoluzione incendia Parigi (23- 24 febbraio), Vienna (13 marzo), Berlino (15 marzo), Budapest (15 marzo), Venezia (17 marzo), Milano (18 marzo). A combattere sulle barricate sono borghesi e liberali, solo a Milano partecipano anche gli operai. Sull’esempio di Pio IX, anche altri sovrani in Italia concedono la Costituzione. Il re delle due Sicilie lo fa il 29 gennaio. Leopoldo, granduca di Toscana promulga la Costituzione il 17 febbraio. Carlo Alberto, firma lo “Statuto albertino” il 4 marzo. Tra il 7 febbraio e il 4 marzo c’è il primo scontro duro di don Bosco con la politica del momento. Invitato ad intervenire il 27 febbraio ad una grande “festa di ringraziamento” preparata dai liberali nella città di Torino, don Bosco diserta l’invito. Al Marchese Roberto d’Azzeglio, principale promotore dell’iniziativa, dice chiaramente: “E’ mia ferma intenzione di tenermi fuori da ogni cosa che si riferisce alla politica. Mai in favore, mai contro”.
Il risultato di questa scelta è che don Bosco rimane solo, bersaglio di attacchi personali che sfociano anche in un colpo di archibugio che entrato dalla finestra, gli straccia la veste, il braccio e il torace. Un’altra volta viene colpito, in strada, da un colpo di pugnale. Anche don Borel sfugge per miracolo ad un colpo di pistola. Il clima per le strade di Torino diventa davvero avvelenato e raggiungerà il suo culmine con la guerra contro l’Austria che scoppierà nell’Aprile del 1849.
Nella notte tra il 24 ed il 25 marzo del 1948 il re Carlo Alberto e il principe ereditario Vittorio Emanuele partono per il fronte. Si attestano sul fiume Ticino che segna il confine con il Regno Lombardo Veneto, alla testa di 60.000 uomini. L’8 ed il 9 aprile l’avanguardia piemontese entra in contatto con gli austriaci e si accende la prima battaglia. I reggimenti, richiamati in gran fretta dalla Savoia, sostano qualche ora a Torino, e proseguono impolverati per il fronte. Vengono sequestrati tutti i cavalli per il trasporto dell’artiglieria e dei cariaggi. Torino si trova di colpo con tutte le carrozze ferme. Un silenzio che mette paura grava su tutta la città. Molti ragazzi, i primi che avevano iniziato a frequentare l’oratorio, partono per la guerra.
Don Bosco con quelli che gli rimangono continua intanto a fare le cose di sempre: scuola e insegnamento della Religione. Per soddisfare gli animi più eccitati a causa della guerra in corso, contando sul bersagliere Giuseppe Brosio, suo amico, che in fatto di battaglie se ne intendeva, propone delle finte battaglie. Chiede al governo duecento vecchi fucili da esercitazione, con la canna sostituita dai bastoni. Dopo pranzo, afferrati i fucili di legno massiccio, due battaglioni di ragazzi, schierati ai lati opposti del prato, partono alla carica, aggirandosi sui fianchi per sorprendersi a vicenda. Sui veri teatri di guerra intanto, il Piemonte ha la peggio.
Pio IX, temendo uno scisma della cattolicissima Austria e dichiarandosi padre di tutti i popoli, non può permettere che il proprio esercito, forte di diciassette mila uomini mandato a “difendere i confini dello Stato pontificio”, li oltrepassi per muovere guerra contro l’Austria. Durando, il generale pontificio che comanda l’esercito del Papa, i confini li passa davvero e schiera i pontefici a battaglia contro gli Austriaci. Il Papa viene definito traditore della patria, con lui tutti i preti dipinti come “luridi topi di sacrestia che rodono e divorano l’Italia”. I ragazzi dell’oratorio vengono raggiunti da una fitta sassaiola che colpisce finestre e tetto dell’oratorio. Il Piemonte, rimasto da solo con i volontari, ritiratisi i contingenti regolari del Papa, di Napoli e del Granduca di Toscana, viene sconfitto dagli Austriaci il 25 luglio del 1848 nella battaglia di Custoza.
Miseria per tutti, il pane quotidiano, camicie stracciate, Mamma Margherita
La guerra e la sconfitta culminata nella battaglia di Novara (20 marzo 1849) hanno prostrato il piccolo Regno del Piemonte. Le finanze sono in rovina, i debiti di guerra superano i 70 milioni, le casse dello stato sono vuote, non vi sono nemmeno i soldi per pagare gli stipendi alla fine del mese. Il popolo è stremato. La vita per i primi ragazzi ospitati da don Bosco è poverissima come per tutti. A pranzo, ciascuno riceve un mestolone di riso e patate, il più delle volte invece l’alimentazione è a base di polenta fatta bollire con le castagne secche. Solo nelle festi solenni fa la comparsa anche il secondo: un pezzettino di salsiccia o di merluzzo. I ragazzi poi sono affamati di pane. Era il nutrimento base per tutti i lavoratori della città. Costava 0,37 lire al chilo (1480 lire del 1986).
Il prezzo rimase più o meno invariato per vent’anni. I ragazzi ne consumavano una quantità impressionante. Don Bosco dovrà fare sempre dei salti mortali per pagare la nota del panettiere. In una lettera indirizzata al conte Solaro della Margarita, ex ministro degli Esteri di Carlo Alberto, scriveva che nel trimestre del 1853 doveva pagare 1600 lire di pane al panettiere. Oltre al pane, un altro problema, che angustiava i primi ragazzi ospitati da don Bosco, era l’igiene personale. Mamma Margherita impiantò nell’oratorio un lavatoio. Il ricambio della biancheria avveniva probabilmente ogni quindici giorni, almeno per chi l’aveva. Molti indossavano calzoni, camicie, giubbe, ridotte in brandelli. Mamma Margherita buttava tutto nell’acqua, rattoppava e consegnava il tutto ai ragazzi. Era la mamma nel verso senso del termine.
Accostava tutti e per tutti aveva una parola di conforto e di incoraggiamento. Solo una volta fu sul punto di crollare. I ragazzi, che giocavano alla guerra, le calpestarono l’orto da cui ricavava insalata, aglio, cipolle, piselli, fagioli, carote, rape per tutta la comunità. Supplicò don Bosco di lasciarla ritornare ai Becchi in mezzo ai suoi amati nipoti. Don Bosco le additò il crocifisso. La mamma capì: “Tutto quello che avrete fatto a uno di questi piccoli l’avrete fatto a me”. Rimase fino alla fine. “Se esiste la santità delle estasi e delle visioni, esiste anche quella delle pentole da pulire e delle calze da rammendare. Mamma Margherita fu una santa così”. (Teresio Bosco, don Bosco storia di un prete, pag. 164, Torino 2006).
I primi Salesiani: Michele Rua, Giovanni Battista Francesia, Giovanni Cagliero
Michele Rua, Michelino per il suo fisico gracile, nasce il 9 giugno 1837 in Borgo Dora, presso la Fucina delle canne. Il papà, Giovanni Battista, era il controllore nella fabbrica dove si producevano fucili e cannoni. Morta la prima moglie, dalla quale aveva avuto tre figli, si sposa con Giovanna Ferrero. Anche da questo secondo matrimonio avrà tre figli: Giovanni, Luigi e Michelino. Quest’ultimo, insieme al fratello Luigi frequentano l’Oratorio di Valdocco. Erano “pulitini e aggraziati”. La mamma, con la piccola pensione lasciatagli dam marito, anche lui morto, riusciva a tenere la sua casa in una modesta dignità. Perso il fratello nel febbraio 1841, Michele continua a frequentare l’oratorio. Su interessamento di don Bosco dà l’esame come privatista alla scuola che diventerà poi “Ginnasio e Liceo Cavour”. Ma la storia galoppa. Michelino, il 3 ottobre 1852 veste l’abito clericale. Perde anche l’altro fratello Giovanni nel marzo del 1853. La signora Ferrero si sistemerà in una casa vicino all’oratorio e dopo la morte di Mamma Margherita, prenderà lei il suo posto. Don Michele Rua sarà il primo successore di don Bosco alla guida della famiglia salesiana.
Giovanni Battista Francesia nasce il 3 ottobre del 1838 a San Giorgio Canavese, in una famiglia molto modesta. La mamma si arrabatta come può a far quadrare il bilancio, vendendo stoffe, cotone e lana nei mercati torinesi, il padre spende tutto. Diventato giovinetto, Giovanni entra a lavorare come fonditore presso una ditta di Torino, portando a casa due lire alla settimana. L’incontro con don Bosco avvenne in modo del tutto causale. La frequentazione tra i due si fa continua. Anche Giovanni Francesia frequenta con Michele Rua la scuola del professor Bonzanino al “Ginnasio Liceo Cavour”, anche lui vestirà l’abito da chierico nell’ottobre del 1853. Sarà il primo biografo di don Bosco e della Congregazione Salesiana, scrivendo decine di libri.
Nel 1851 entra nell’oratorio anche un altro ragazzo, Giovanni Cagliero, che diventerà poi vescovo e cardinale. L’incontro con don Bosco risale all’anno precedente. A Valdocco, Giovanni Cagliero fa vita comune con Francesia, Rua, don Bosco e Mamma Margherita. Anche lui frequenta la scuola del prof. Bonzanino. Vivace e giocherellone, il giovane Giovanni Cagliero è attratto come pochi altri dagli spettacoli dei saltimbanchi di Piazza Castello a Torino, di fronte a Palazzo Madama, è un frequentatore assiduo della festa di San Giovanni, patrono della città, che si celebra il 24 giugno. Vi arriva sempre con altri compagni dell’oratorio, divertendosi come non pochi, facendo roteare i mozziconi ardenti di legna secca bruciata nel gran falò che si accendeva in piazza in onore del santo.
Dopo le pietre vive, anche le pietre morte
Con l’arrivo a Valdocco di Michele Rua, Giovanni Battista Francesia, Giovanni Cagliero, Giuseppe Buzzetti si va formando quella che sarà l’opera salesiana. Occorreva però “consolidare la residenza dell’Oratorio, comprare campi e prati intorno per i futuri sviluppi, se non si vuole rimanere dall’oggi al domani imbottigliati nello sviluppo urbano”. Don Bosco pensa di comprare prima la casa di Pinardi, per lanciarsi poi nella costruzione della nuova chiesa, quella esistente era troppo angusta, d’estate c’era chi sveniva dal caldo. La casa venne acquistata al prezzo 28,500 lire. La spesa viene saldata dalla generosità della contessa Casazza- Riccardi che offre diecimila lire. Un religioso rosminiano (P. Carlo Girardi) offre ventimila lire. Il cavalier Cotta aggiunge tremila lire per le spese accessorie. Don Bosco aveva trovato ancora di più di quanto gli occorreva.
La prima pietra della nuova chiesa viene benedetta il 20 luglio del 1851 dal canonico Moreno e collocata dal cavaliere Giuseppe Cotta. Per trovare i soldi necessari per la costruzione della nuova chiesa, don Bosco si getta nell’organizzazione delle lotterie. Tra grandi e piccole, don Bosco ne organizzerà ben quattordici, tra il 1853 ed il 1887; gli frutteranno fior di quattrini, mentre gli Esercizi Spirituali gli frutteranno fior di vocazioni. Nel frattempo si butta nella stampa delle “Letture Cattoliche”, piccoli ed agili volumetti scritti di suo pugno, una sorta di Catechismo pensato per il popolo. I protestanti, che sotto il regno di Carlo Alberto, godevano di diritti civili, unitamente agli Ebrei, non accettarono di buon grado l’iniziativa del sacerdote, anzi arrivarono anche a minacciarlo fisicamente con agguati che si ripeterono più volte.
In più di una occasione, don Bosco venne misteriosamente salvato dall’intervento provvidenziale di un cane, chiamato affettuosamente dallo stesso don Bosco, nelle sue memorie, il “Cane Grigio”. Una volta venne aggredito da un uomo armato di un pugnale. Don Bosco riuscì a chiudersi in casa. Si seppe che l’uomo agiva su commissione. Il disgraziato disse che avrebbe smesso di aggredire don Bosco se gli fosse data la stessa somma che percepiva da quelli che gli avevano ordinato di ammazzarlo. “Gli furono pagate 80 lire di fitto scaduto e altre 80 di fitto anticipato, così quella triste commedia finì” (Teresio Bosco, don Bosco storia di un prete, pag. 200, Elledici, Torino 2006).
Piccoli lavoratori crescono
Fino al 1844, i rapporti tra apprendisti, garzoni di bottega e padroni, erano regolati in Piemonte da norme precise che difendevano il giovane e obbligavano il padrone a insegnargli bene il mestiere e a non sfruttarlo. Dopo questa data, le cose cambiano ed in peggio per i garzoni ed i giovani operai, tutto questo in base ad un editto reale. Il padrone ha su di loro tutti i poteri. Può obbligarli ad un lavoro anche di dodici, quindici ore al giorno, senza nessun contratto, sfruttati, in mezzo ad abusi ed a scandali. Don Bosco, come don Cocchi, don Murialdo, difende come può i giovani lavoratori. Esige dai padroni regolari contratti di lavoro su carta bollata. Il primo contratto di lavoro firmato da don Bosco con il vetraio Carlo Almino, a favore del giovane Giuseppe Bordone, porta la data del novembre 1851. Ma il prete torinese non è ancora soddisfatto. Sa che in tutti gli ambienti di lavoro regnano la violenza e la sopraffazione sui più giovani ed indifesi.
Mette mano allora alla costruzione di veri e propri laboratori vicino alla casa Pinardi. Il primo laboratorio è quello dei calzolai, il secondo è quello dei sarti. Non ha bisogno di istruttori esterni, visto che sa bene come insegnarli, avendo fatto in gioventù sia il calzolaio che il sarto. Il terzo laboratorio (1854) è quello della legatoria dei libri, il quarto (1856) è la falegnameria, il quinto, la tipografia, quello più desiderato. Riesce ad aprirlo solo il 31 dicembre del 1862, licenza firmata dal prefetto Pasolini, dopo anni di carte bollate ed estenuanti pratiche burocratiche. Il laboratorio comincia a funzionare con due macchine a ruota e un torchio azionato a mano. Tante pubblicazioni di don Bosco verranno stampate proprio da questa tipografia che diventerà la stessa dalla quale uscirà il primo numero del “Bollettino Salesiano”, stampato tuttora e con una grande diffusione.
Il sesto laboratorio, aperto nel 1863, è quello dei fabbri ferrai, antenato del laboratorio di meccanica. In questo modo i giovani lavoratori non vanno più a seppellirsi nelle officine della città tentacolare ma lavorano sotto lo sguardo vigile di don Bosco che sceglie come lavoratori i più poveri, quelli che hanno assoluto bisogno di una mano per non fare naufragio nella vita. È la risposta al detto evangelico: “Poveri li avrete sempre con voi”. La formazione professionale sarà sempre in testa nelle scelte della Congregazione Salesiana, con l’apertura di Scuole Professionali, accanto alla formazione umanistica, con l’istituzione di Licei Classici e Scientifici.
Il nuovo oratorio tra prati verdi, officine e l’osteria della Giardiniera. Una mamma e una casa per chi non ce l’ha
La tettoia Pinardi, dopo il lavoro dei ragazzi, viene trasformata in cappella. L’Arcivescovo di Torino permette di benedire e di usare come chiesa quel povero locale. La benedizione avviene alla domenica di Pasqua del 12 aprile 1846; le emigrazioni da un posto all’altro, a Dio piacendo, sono finite. Valdocco, nella prima periferia della città, è l’unica zona di prati liberi e sconfinati. Borgo Dora, il rione che si estende a nord est di Valdocco, sta diventando la sede di “tutte le officine dei fabbricanti di grosse macchine, de’ calderai, de’ bottai, e di altri siffatti mestieri, per liberare gli abitanti dell’interno della città dal rumore insopportabile che per esse facevasi”.
Nella zona del “Balòn” si contano nuove concerie di pelli, molte manifatture per la lavorazione della seta, mulini pubblici, in piazza Emanuele Filiberto, che salda Borgo Dora alla città di Torino, tanti ragazzi “si arrangiano per sei giorni alla settimana, attendendo che un padrone venga ad offrire loro un lavoro stabile”. Sorge comunque un problema non del tutto secondario per il nuovo oratorio. Nelle sue vicinanze opera una trattoria “La Giardiniera”, un locale malfamato dove abitavano delle donne dalla vita equivoca e dove soprattutto alla domenica si danno appuntamento gli ubriachi della città. Don Bosco intanto non si risparmia e la sua salute ne risente. È un pomeriggio caldissimo di luglio di quell’anno. Preso da sfinimento, don Bosco viene portato a letto. Si teme per la sua vita.
Ne è cosciente anche lui: “Ero seriamente malato: bronchite, tosse, febbre violenta. In otto giorni giunsi al limite tra la vita e la morte. Mi diedero la comunione come Viatico e l’Unzione degli infermi. Ero pronto a morire. Mi rincresceva abbandonare i ragazzi”. In quei giorni viene anche la madre ad assisterlo. I ragazzi dell’oratorio piangono e fanno voti perché don Bosco guarisca. Recitano il rosario, digiunano e si nutrono a pane e acqua per settimane intere. Tante preghiere sortiscono l’effetto desiderato. Don Bosco guarisce contro ogni responso medico. Solo è tanto debilitato che i medici gli suggeriscono un periodo di convalescenza. Va a ritemprarsi ai Becchi, presso la sua famiglia, promettendo però di ritornare a Valdocco “prima che cadano le foglie d’autunno”.
Finita la convalescenza ai Becchi, don Bosco, deciso di ritornare a Torino, prende il coraggio a due mani e dice alla madre: “Mamma, andrò ad abitare a Valdocco. Dovrei prendere una persona a servizio. Ma vicino all’Oratorio c’è una casa (“La Giardiniera”) dove abita gente di cui un prete non può fidarsi. L’unica persona che mi può garantire dai sospetti e dalle malignità siete voi”. Mamma Margherita comprende la serietà delle parole pronunciate dal figlio e risponde: “Se credi che questa sia la volontà del Signore, sono pronta a venire”. Annota don Bosco nelle Memorie: “Mia madre faceva un grande sacrificio. Non era ricca, ma in famiglia era una regina. Piccoli e grandi le volevano bene e le obbedivano in tutto”. I due partono dai Becchi la mattina del 3 novembre.
Margherita fa un’ultima carezza ai quattro nipotini che lasciava con tanto rincrescimento, guarda la casa e i suoi campi. Aveva visto gli uragani sradicare gli alberi. La vita sradicava anche lei. La portava a 58 anni, nella città che non conosceva. Fatta tappa a Chieri, arrivano a Valdocco la sera dello stesso giorno. La mamma vista la casa del tutto priva del necessario, si fa coraggio e dice: “Ai Becchi avevo tante preoccupazioni per fare andare avanti la casa e per comandare ciò che ognuno doveva fare. Qui sarò molto più tranquilla” (Memorie, 161). L’8 novembre, una domenica, don Bosco e sua madre si siedono in mezzo al prato, attorniati da un esercito di giovani che fanno loro festa. Mamma Margherita diventa da subito la mamma di chi una mamma non ce l’aveva più. Intanto, con l’aiuto di don Carpano, don Nasi, don Trivero, don Pacchiotti, don Bosco incrementa la scuola domenicale e serale.
Nell’inverno 1846/ 47 circa trecento alunni in media, ogni sera, frequentano le lezioni di lingua, aritmetica, musica e canto. È uno spettacolo vedere alla sera le stanze illuminate, piene di ragazzi e di giovani. Si fa scuola dappertutto, nelle stanze, in cucina, in chiesa. I giovani sono in piedi davanti ai cartelloni, con un libro in mano, nei banchi intenti a scrivere, per terra a scarabocchiare sui quaderni le grandi lettere. (Teresio Bosco, Don Bosco, Storia di un prete, Torino 2006).
Anche nelle ore della notte c’è chi bussa alla casa di don Bosco. Sono ragazzi che non hanno nemmeno un tetto per dormire, dopo aver lavorato tutto il giorno come garzoni sulle impalcature o nei laboratori. Il primo che arriva è un ragazzo della Valsesia. È il mese di maggio del 1847, una sera piovosa. Don Bosco sistema un pagliericcio in cucina ed il ragazzo vi passa la notte. Ben presto arrivano altri ragazzi. Don Bosco riesce ad ospitarne sette nel corso dello stesso anno. Vengono ospitati nella casa annessa all’oratorio, per loro il prete dei Becchi trasforma due camere in un piccolo dormitorio. È il nucleo originario di quello che sarà poi il Convitto. Per controllare questa comunità anche se piccola, don Bosco ha bisogno di un ragazzo che lo aiuti e di cui fidarsi ciecamente. Lo trova in Giuseppe Buzzetti, il ragazzino di Caronno Varesino, che ha ora quindici anni compiuti. Come si diventava adulti subito allora! D’accordo con il fratello Carlo, il ragazzo va ad abitare con don Bosco e mamma Margherita.
Don Bosco gli affida il denaro e l’economia della casa. Giuseppe redarguisce Michele Rua, il successore di don Bosco, di cinque anni più giovane di lui, perché non si impegna abbastanza nello studio. L’altro ragazzo che va a fare compagnia a Giuseppe Buzzetti è Carlo Gastini, che don Bosco incontra per caso in una barbieria di Torino. Don Bosco si fa insaponare il viso per radersi la barba, poi invita il ragazzo a fargli la barba. Carlo non osa perché il suo compito è solo quello di insaponare, radere la barba tocca al principale. Don Bosco lo incoraggia ed il ragazzo gli rade la barba, con un po’ di affanno perché è la prima volta, ma senza fargli nessun taglio. Carlo andrà ad abitare con don Bosco nell’estate del 1947, quando Carlo perde anche la mamma, il padre non l’aveva più da tempo.
A Torino, alla scuola di don Cafasso, don Bosco impara a fare il prete
“Nel 1821, quando Giovanni Bosco ha appena sei anni, anche in Piemonte, si diffondono i malumori e le inquietudini. Sono il frutto della Restaurazione ottusa. Gli uomini della Restaurazione, arretrati e senza idea, non sono riusciti a prendere atto dei cambiamenti irreversibili portati dalla Rivoluzione Francese. Le secolari gerarchie, gli ingiusti privilegi dei nobili sono ormai insopportabili. Nessuno a Corte lo sa, ma numerose persone tra gli amici di Carlo Alberto hanno aderito a società segrete (Adelfia, Carboneria, Sublimi Maestri Perfetti). Hanno due scopi: l’indipendenza dell’Italia dall’Austria e la Costituzione”. Giovanni Bosco è ordinato sacerdote dall’arcivescovo di Torino, mons. Luigi Fransoni, il 5 giugno 1841. Diventa “don Bosco”, un giovane prete che cerca la sua strada. Non è un modo di dire. Secondo una statistica del 1838, a Torino, su 117.072 abitanti, ci sono 851 preti: uno ogni 137 persone. Troppi. Diventare prete, in quel tempo, significava rischiare la disoccupazione.
La preoccupazione di tanti giovani preti è quella di cercare un posto, di iniziare una carriera. Tanti diventavano “preti di famiglia”, una specie di decoro delle famiglie cristiane benestanti, altri si dedicavano all’insegnamento, altri ancora diventavano impiegati comunali. Molti, ed era di questi che si lamentava don Cafasso, si davano alla politica e alla vita dei caffè, tra bicchierini e pettegolezzi. Don Bosco, che farà? Vuole dedicarsi ai giovani poveri e abbandonati, ma essi non sono lì sulla porta ad aspettarlo. Dopo l’ordinazione sacerdotale, molti amici si danno da fare per trovare al novello sacerdote bravo e povero, un posto che lo ripaghi in qualche modo di tutti i sacrifici fatti. Solo mamma Margherita, abituata da sempre a centellinare fino all’ultimo centesimo, per mettere assieme il pranzo con la cena, non va per il sottile: “Se per sventura diventerai ricco, non metterò mai più piede a casa tua”.
Una famiglia di nobili genovesi lo chiede come istitutore e offre uno stipendio di lire 1000 annue. A Morialdo lo vogliono cappellano: il signor Spirito Sartoris ha legato alla cappellania una rendita annua di 800 lire. Don Bosco va da don Cafasso (1811- 1860) il quale gli chiede di lasciare qualsiasi offerta e di andare a Torino al Convitto ad imparare a fare il prete. Sembra un paradosso, ma chi usciva dal seminario non era pronto a fare il prete. Torino stava scoppiando. Nella capitale del regno sabaudo si attraversavano d’un colpo le guerre d’indipendenza e la rivoluzione industriale. A Torino quest’ultima arriva negli stessi anni in cui arriva don Bosco. Nascono le prime fabbriche, notevoli quelle di armi e divise militari in riva al fiume Dora. Con lo sviluppo delle fabbriche e dei cantieri edilizi l’aumento della popolazione è rapidissimo. Le nuove famiglie vengono tutte dalla campagna e dalle valli montane. Sono fuggite dalla miseria, ma nella nuova sistemazione soffrono come poche altre di nuove povertà. Sono misere, povere, sfruttate da persone prive di scrupoli. A farne le spese sono soprattutto i ragazzi.
La periferia nord di Torino: Borgo Dora, Valdocco e Martinetto, intorno al 1850 la popolazione raddoppia la popolazione. Un giovane sacerdote, don Giovanni Cocchi, nato a Druent, due anni prima di don Bosco, in un paesino della cintura torinese, si cala nella realtà sociale ed apre in Borgo Valchiglia un ospedaletto, ma non sa organizzare la beneficenza, è un impulsivo. Nel 1840 nel Moschino, un’altra area difficile di Torino, fonda il primo oratorio torinese e l’anno successivo lo trasporta in Borgo Valchiglia. Negli anni successivi iniziò e portò a termine molte altre iniziative, ma sbagliò terribilmente quando, credendo di schierarsi con il popolo, convinse i giovani più grandi dell’oratorio a partecipare alla battaglia di Novara. Nel 1849 fonda l’Istituto degli Artigianelli, affidato successivamente a don Leonardo Murialdo, mentre lui apre una colonia agricola a Moncucco per i ragazzi sbandati mandati dalla Questura e dall’Istituto di correzione “La Generata”.
“Fin dalle prime domeniche, don Bosco andò per la città, per farsi un’idea della condizione morale in cui si trovava la gioventù”, scrive Michele Rua, uno dei primi ragazzi di don Bosco. Vide “un gran numero di giovani d’ogni età, che andavano vagando per le vie e per le piazze, specialmente nei dintorni della città, giocando, rissando, bestemmiando e facendo anche di peggio” (Michele Rua, Summarium, p. 12). Un vero mercato delle braccia giovani lo trovava sulla piazza del mercato generale di Porta Palazzo. Alla domenica, il mercato è chiuso e la piazza è affollata di commercianti, sensali, ragazzi in cerca di lavoro, che intanto si arrangiano facendo i merciaioli, venditori di zolfanelli, lustrascarpe. “Che cosa aspettate?”, domanda don Bosco. “Qualcuno che ci prenda a lavorare, in cantiere, a bottega o in officina”. Alcuni sono in cerca del primo lavoro, altri hanno già provato, ma sono stati scartati perché non sufficientemente forti per sopportare i ritmi di produzione. “Rasentando le case in costruzione, nei giorni di lavoro, don Bosco vede fanciulli dagli 8 ai 12 anni servire i muratori, passare le loro giornate su e giù per i ponti malsicuri, al sole, al vento, alla pioggia; salire le ripide scale a pioli carichi di calce, di mattoni e di altri pesi, senza altro aiuto educativo, fuorché villani rabbuffi o scapaccioni” (Cfr. M. Rua, Summarium, pag. 57, 58).
La giornata lavorativa andava dalla primissima alba alla notte. Il vitto, a mezzogiorno era a base di polenta. Il companatico era rappresentato abitualmente da un pezzo di formaggio o dalla ricotta. Alla sera, i piccoli “muratorini” mangiavano una minestra di pasta, riso o verdura; talvolta un po’ di insalata. Il vino, riservato per i giorni festivi, lo si beveva di solito all’osteria. Molti giovani muratori erano immigrati stagionali. A sera, ritornati a casa, non avevano nessuna famiglia che li stava ad aspettare. Convivevano a decine, e su magri salari dividevano le spese dell’affitto e della polenta in comune. Il primo che arrivava dal lavoro accendeva il fuoco ed appendeva il paiuolo con l’acqua. Il poco companatico arrivava da casa ogni quindici giorni, a mezzo del conducente che portava la sacca del pane nero e degli indumenti puliti e ritirava la sacca della biancheria sporca.
Il lavoro minorile nelle officine e nelle manifatture era una consuetudine agli esordi della rivoluzione industriale. “In Piemonte, i padroni, per ridurre i salari, assumevano al posto dell’operaio adulto, la donna e il fanciullo. Si ebbe così una nuova figura nel campo del lavoro: il fanciullo operaio ad otto anni. Scandalosi erano i modi di reclutamento e inumani i metodi di lavoro. I fanciulli, i giovani operai, erano impiegati come degli adulti per tredici o quattordici ore al giorno e per sette giorni alla settimana. La tenera età, i locali insalubri, antigienici, il lavoro sfibrante e monotono, l’orario estenuante, crescevano torme di fanciulli semi nutriti, anemici, quasi inebetiti dal sonno, amareggiati e ribelli. Don Bosco, nel suo oratorio, accoglierà piccoli muratori, spazzacamini, giovani artigiani e apprendisti. Vedrà pochi operai. Essi vivevano e morivano nell’officina o nelle filande”.
Il primo ragazzo dell’Oratorio: Bartolomeo Garelli
Don Cafasso fa catechismo ogni domenica in una saletta vicino alla Sacrestia di S. Francesco d’Assisi, ma i molteplici impegni non gli consentono di proseguire l’esperienza. Don Bosco pensa di continuarla lui. Inaspettatamente, Mercoledì 8 dicembre, festa della Madonna Immacolata, giorno di precetto, mentre sta preparandosi a dire Messa, sente delle grida e dei tonfi vicino alla porta della sacrestia. Guarda e vede il sacrestano Comotti che caccia a bastonate un ragazzotto, un muratorino. Le botte che piovono su un ragazzo hanno sempre acceso il sangue di don Bosco. Anche se è vestito per la Messa si mette a gridare: “Comotti! Perché picchia quel ragazzo? Che male ha fatto?”. Il sacrestano impreca contro tutti i ragazzi che vengono a disturbare la sua tranquillità e magari a rubare. E finisce dicendo: “Ma a lei cosa importa?”. E don Bosco indignato: “Mi importa perché è un mio amico. Lo chiami subito. Ho bisogno di parlargli”. Non è vero, don Bosco nemmeno lo conosce ma è l’occasione per conoscerlo. È da questo incontro che nasce in lui l’idea dell’Oratorio, un centro dove accogliere tutti i ragazzi in difficoltà: muratorini, spazzacamini, ex carcerati. Ci pensa probabilmente durante la Messa.
Il dialogo con Bartolomeo Garelli avviene subito dopo la funzione religiosa. È don Bosco stesso a precisare, nelle sue Memorie, che l’inizio dell’Oratorio è da collegare proprio a questo episodio. Nello stesso giorno in cui don Bosco incontra Bartolomeo Garelli, alla sera, durante la predica dei Vespri, conosce Carlo Buzzetti assieme ad un suo fratello ed un cugino. In sacrestia, don Bosco viene a sapere che i fratelli Buzzetti sono in tutto sette. Vengono da Caronno- Ghiringhello, oggi Caronno Varesino, in Lombardia. Fanno i muratori. I due più grandi sono venuti a Torino in comitiva a piedi, nel mese di marzo. Hanno camminato con altri paesani pratici del percorso, portando a spalla il fardello dei loro poveri indumenti e dormendo presso qualche cascinale di fortuna. Hanno lavorato nei cantieri per nove mesi. Ora, poiché arriva la stagione morta per i muratori, stanno per riprendere la strada verso il loro paese. Ritorneranno a Torino in primavera con il loro terzo fratello, Giuseppe.
I fratelli Buzzetti, alla testa di una squadra di cugini e compaesani, Bartolomeo Garelli, accompagnato da sei amici, vanno a far visita a don Bosco che li accoglie, dopo la Messa e la colazione, in una saletta attigua dove fa loro il catechismo seguito da un bel racconto. È l’inizio del primo oratorio. Se c’è il sole, escono nel cortiletto. Non hanno voglia di correre. Sono stanchi per la lunga settimana di lavoro. Si siedono al sole. Don Bosco si unisce a loro, ascoltando le loro storie: incidenti sul lavoro, padroni cattivi. Don Bosco promette loro di andare a trovarli sui cantieri. Ed è quello che farà durante la settimana, dopo la domenica: “Durante la settimana andavo a visitarli sul luogo del lavoro, nelle officine e nelle fabbriche. Questi incontri procuravano grande gioia nei miei ragazzi, che vedevano un amico prendersi cura di loro” (don Bosco, Memorie dell’oratorio).
All’Oratorio, don Bosco, accanto ai piccoli muratori ed agli spazzacamini, comincia ad arrivare qualche ragazzo della periferia nord di Torino, periferia che si estende per seicento metri di distanza tra Borgo Dora e Vanchiglia. Sono ragazzi miseri perché la zona è misera. Si respira un’aria cattiva e umida. Le fognature non esistono e gli scarichi privati e pubblici corrono nel bel mezzo delle strade prima di gettarsi nel fiume Dora. Non esiste una scuola pubblica né una chiesa. Eppure a Borgo Dora vivono tremila famiglie. “Il giaciglio di molti consisteva in un lurido sacco ripieno di foglie o di paglia, situato in stamberghe in cui la fanghiglia, la sporcizia e l’umido non erano diversi da quelli delle stalle o dei pollai”. L’aggressività di questi ragazzi è molto più dirompente di quella dei muratorini e degli spazzacamini. Per questo don Bosco si circonda di giovani volontari provenienti dai “Fratelli delle Scuola Cristiane”.
Nella primavera del 1842 tornano dal loro paese i fratelli Buzzetti, accompagnati da Giuseppe, il fratellino di appena dieci anni. Si affezionerà talmente a don Bosco che preferirà rimanere con lui piuttosto che ritornare a Caronno Ghiringhello assieme agli altri fratelli al termine di ogni stagione di lavoro. In lui c’è tanta bontà. Sarà per don Bosco il braccio forte nella costruzione dell’oratorio. L’altro, Michele Rua, che diventerà il secondo don Bosco nella Congregazione Salesiana, è ancora un bimbetto di appena quattro anni. Michele Rua e Giuseppe Buzzetti, saranno loro le colonne portanti dell’Oratorio.
La marchesa di Barolo, i mulini Dora, il prato dei fratelli Filippi, la Tettoia Pinardi
Mentre l’oratorio di don Bosco nuove i suoi primi passi (Dicembre 1841- ottobre 1844), Torino si avvia a diventare una città europea. Viene raddoppiata la rete dei canali (1833- 1843), sono costruite tre importanti ferrovie ed è autorizzata la Genova – Novara. Il progetto più ambizioso è il traforo del Fréjus, che avrebbe collegato la città piemontese all’Europa. L’11 aprile 1842 il principe ereditario Vittorio Emanuele, 22 anni, convola a nozze con Maria Adelaide, figlia di Ranieri, viceré austriaco della Lombardia. Al matrimonio viene invitato anche il maresciallo austriaco Radetzky. La marchesa Giulia Viturnia Francesca Colbert, vedova Faletti di Barolo, convinta di dover scontare tutti i privilegi degli avi, di origine francese, ghigliottinati ai tempi della rivoluzione, decide di impegnare il suo immenso patrimonio nella costruzione di opere a favore del popolo più bisognoso.
Accanto al Cottolengo, costruisce il “Rifugio”, un istituto che accoglie le donne di strada, apre la casa delle “Maddaleine”, per le ragazze pericolanti, nel 1844 costruisce l’”Ospedaletto di Santa Filomena” per le bambine ammalate e storpie. Don Giuseppe Cafasso, nell’autunno del 1844, chiama don Bosco e lo manda da don Giovanni Borel, una personalità nella Torino di quel tempo, direttore del Rifugio. Don Bosco e don Borel si conoscevano da tempo. Don Cafasso vuole che don Bosco, mettendosi al servizio della marchesa di Barolo, abbia un lavoro ed uno stipendio, garantiti dalla Marchesa. Don Bosco rimarrà ai servizi della marchesa per sette mesi, occupandosi dei ragazzi e delle tre opere caritative messe in piedi dalla stessa. Traslocherà quando si rende conto che la convivenza tra i suoi ragazzi scalmanati e la marchesa di Barolo non può durare.
L’oratorio presso l’Ospedaletto di Santa Filomena funzionò molto bene per sette mesi. Vi confluivano tutti i ragazzi dei dintorni, ma don Borel e don Bosco cercano un’altra dimora per accogliere tanti ragazzi. Mettono gli occhi sul cimitero di S. Pietro in Vincoli. C’è una cappella cimiteriale di circa cento metri quadrati, un vasto campo in cui da quindici anni non si seppellisce mai nessuno e un ampio porticato a pianta rettangolare. Non è un’idea brillante far giocare più di cento ragazzi in un cimitero, ma meglio che niente. Don Tesio, cappellano del cimitero, accetta. Il 25 maggio del 1845, i ragazzi affollano la messa, poi afferrano al volo la pagnotta della colazione e si scatenano rumorosamente sotto i porticati. La donna di servizio del cappellano, che sotto quel porticato alleva un branco di galline, resta allibita e comincia a menare la ramazza, mentre le galline spaventatissime fuggono tra le tombe inseguite dai ragazzi. Anche don Tesio protesta vivamente. Don Bosco capisce che deve traslocare di nuovo, dopo aver lasciato definitivamente l’Ospedaletto, completamente ristrutturato. Era il 10 agosto 1845.
La nuova sistemazione dell’Oratorio viene trovata poco lontano, nella cappella dei Mulini Dora, su concessione dalla Ragioneria del Comune, pensando che per un po’ di catechismo, tre ore pomeridiane fossero più che sufficienti. Gli abitanti delle case annesse ai Mulini anche loro credevano che si trattasse di un semplice catechismo in chiesa. Si ricredettero subito quando si trovarono invece a fare i conti con una marea di ragazzi chiassosi che in riva ai canali del fiume Dora facevano girare le grandi pale dei mulini e la Ragioneria arrivava a scrivere finanche che l’Oratorio era un centro di immoralità. Tutto perché forse qualche ragazzo avrà fatto la pipì nel fiume, come scrive Teresio Bosco nel suo libro: “Don Bosco, Storia di un prete, pag. 115, Torino 2006. Don Bosco dovrà sloggiare anche da qui. Sarà la stessa Ragioneria a dargli lo sfratto.
L’inverno del ’45 – 46 fu il più duro per don Bosco. Avuto lo sfratto dai Mulini Dora, persuade un prete don Moretta, ad affittargli tre stanze in una casa di sua proprietà, nel Borgo Valdocco. Don Bosco è giovane, ma la sua salute sta risentendo di tutto un gran lavoro al quale il prete torinese si sta sottoponendo da anni. È cappellano dell’Ospedaletto, è impegnato nelle carceri, nel Cottolengo, in istituti educativi di Torino. Lavora nel suo oratorio, va a trovare i ragazzi sul posto di lavoro, fa scuola serale. Don Borel gli raccomanda di diminuire gli impegni. La Marchesa di Barolo gli dà cento lire, pari a trecentomila lire del 1986, per l’Oratorio e l’ordine di prendersi un riposo assoluto. Don Bosco non ascolta nessuno. Con il ritorno del bel tempo, le tre stanze di don Moretta non bastano più. I ragazzi vi si affollano numerosi, fanno un chiasso infernale tanto da suscitare le vibranti proteste dei vicini. Don Bosco non si scoraggia. Affitta dai due fratelli Filippi un prato che si trova a cinquanta metri di distanza. Serve per distribuire meglio i ragazzi. Piazza una specie di capannone nel centro, per custodirvi gli attrezzi di gioco. Alla domenica vi si affollano trecento ragazzi. Verso le dieci rulla un tamburo militare. I giovani si incolonnano. Squilla anche una tromba suonata da Brosio, un bersagliere amico di don Bosco. E si parte: verso la Consolata o il monte dei Cappuccini. Qui, don Bosco dice la Messa, distribuisce la Comunione, poi la colazione. (Cfr. T. Bosco, don Bosco, storia di un prete, pag. 119, Torino 2006).
Prima dello sfratto dal prato dei fratelli Filippi e la successiva sistemazione presso la tettoia del signor Francesco Pinardi, don Bosco vive un intermezzo che è tra il serio ed il faceto. Il prete torinese sogna ancora un grande oratorio, una grande chiesa, poi laboratori, aule per il gioco e per il catechismo. I suoi collaboratori lo credono pazzo, tanto da escogitare uno stratagemma. La marchesa Barolo teme per la sua salute. Due venerandi preti torinesi, pregati dalla stessa, vengono incaricati di condurre don Bosco in carrozza, destinazione il manicomio, per sottoporlo ad una cura. Arriva la carrozza. Arrivano i due preti che invitano don Bosco a salire. Questi, accortosi del tiro mancino che gli stanno facendo, fa entrare prima loro, poi chiude lo sportello ed invita sollecitamente il cocchiere di portare i due al manicomio. Intanto la sistemazione presso il prato dei Fratelli Filippi dura poco.
I ragazzi hanno ridotto il verde del prato ad un deserto; anche le radici dell’erba sono consumate dal calpestio continuo. Don Bosco vive l’ennesimo sfratto. Gli viene incontro inaspettatamente un certo Pancrazio Soave, che, balbettando, gli dice di seguirlo. Lo conduce dal signor Francesco Pinardi che ha il luogo adatto per lui dove sistemare i ragazzi. È un fabbricato che Francesco Pinardi aveva dato in affitto a Pancrazio Soave. Questi aveva tentato di impiantarvi una fabbrica di amido, ma senza risultati. Lo stabile è libero. La tettoia è ancora in costruzione. Don Bosco accetta l’offerta a patto che nel contratto sia inclusa anche la striscia di terra che corre intorno alla tettoia. L’affitto è di trecentoventi lire. Il proprietario si impegna di apportare anche delle migliorie, come abbassare il terreno di cinquanta centimetri. La definitiva sistemazione del luogo è opera dei ragazzi. “Dopo una giornata di lavoro, i piccoli muratori e i giovani meccanici vengono a dare una mano a don Bosco. Carriole, badili, secchie di calcina: Volti già stanchi eppure sereni, braccia giovani che lavorano per costruire la loro chiesa, il loro oratorio” (Cfr. Teresio Bosco, don Bosco storia di un prete, pag. 127, Torino, Elledici, 2006
Spazzacamini e giovani carcerati
Gli spazzacamini, nella Torino di don Bosco, provenivano tutti dalle valli, soprattutto dalla Val Vigezzo, chiamata oggi romanticamente anche la valle dei pittori. È una delle cento valli che disegnano il territorio dell’Ossola. Un tempo era il regno della miseria. Il paese di Santa Maria Maggiore, poco lontano da Malesco, era il luogo dal quale partivano tanti ragazzi che facevano il lavoro degli spazzacamini. A loro, nel 1985, è stato dedicato in una piazza del paese, il monumento allo spazzacamino. Quando don Bosco arriva a Torino, da tre anni, in piazza San Carlo, c’era il monumento a Emanuele Filiberto. È proprio sotto questa statua che don Bosco incontra i primi spazzacamini. Quelli che avevano sette, otto anni, si esprimevano solo in dialetto, in patois, terminologia vagamente francesizzante. Conversando con loro, don Bosco venne a conoscere la loro storia. Disse un giorno: “Quanti buoni giovani ho trovato fra gli spazzacamini. Era nera la loro faccia, ma tante volte quanto bella era la loro anima”.
La stagione più propizia per il lavoro degli spazzacamini iniziava con l’inverno. Le mamme, dopo aver dato ai propri figli tre camicie di lana grezza ed un berretto, li accompagnavano dall’adulto – capo degli spazzacamini, il “couèitse”, come veniva chiamato in dialetto piemontese. Durante il lavoro, il capo- spazzacamini si impegnava a procurare 780 grammi di pane ogni giorno a ciascuno dei ragazzi. Non sempre però, il capo degli spazzacamini era una persona onesta. Il capo adulto assegnava i piccoli ragazzi ad un “cap- gaillo”, un altro spazzacamino adulto che coordinava il lavoro di più squadre di spazzacamini distribuiti nei diversi quartieri. Minestra e carne i piccoli dovevano elemosinarle nelle case dove raschiavano i camini. Più il ragazzo era esile e piccolo, più era ricercato nella pulitura dei camini. Doveva entrare nel camino e con una piccola raspa scrostava la fuliggine raggrumata sulle pareti. Una volta giunto alla sommità del camino, doveva gridare per tre volte “spaciafournel”. Era la sua maniera di avvertire il capo degli spazzacamini che aveva finito il lavoro. Allora poteva ridiscendere, faccia ed abiti neri di fuliggine. Il capo adulto degli spazzacamini, che durante il lavoro delle squadre faceva il venditore ambulante, affittava uno stanzone o una soffitta dove i piccoli spazzacamini dormivano sulla paglia e passavano i giorni quando veniva loro la febbre.
Le malattie professionali dei piccoli spazzacamini erano: tubercolosi, polmonite e bronchiti. I polmoni dei piccoli si intasavano di fuliggine. Non era raro poi il caso di molti piccoli che morivano perché precipitavano di schianto dalla sommità del camino, dopo aver portato a termine il lavoro. Scrive don Bosco su di loro: “Scendevano innocenti dalle loro montagne senza alcuna malizia del mondo, ma era necessario preservarli da scellerati compagni. A Torino, don Bosco non solo fa la conoscenza dei giovani spazzacamini, dei piccoli operai e apprendisti, giovani muratori ma anche dei giovani carcerati. Nella capitale del Regno Sabaudo, il sistema carcerario è disastroso.
Il carcere è una piccola università del crimine. Carlo Alberto ne è cosciente, per questo incarica Cesare Balbo di migliorarlo: “Le comunicazioni che i carcerati, colpevoli e innocenti, hanno tra loro, in una promiscuità di rapporti tra giovani e adulti, accelerano i progressi di corruzione. Il contagio morale è talmente accertato che generalmente si crede nell’impossibilità di colui che entra innocente in prigione non ne esca pervertito”. Don Bosco scende più volte nelle carceri vicine al Senato in compagnia di don Cafasso, cappellano del penitenziario, ma anche da solo. Conosce le storie dei piccoli delinquenti che alla scuola dei carcerati adulti, diventano a loro volta delinquenti veri e propri. Si fa promettere loro che una volta fuori dal carcere vadano a trovarlo e lui li aiuterà a trovare un posto di lavoro. Da quelli stanzoni, don Bosco non esce da solo. Una sera, il barone Bianco di Barbania che l’ha invitato a cena, vedendogli sulla spalla uno schifoso pidocchio, gli dice: “Voglio dare una cena a lei, don Bosco, ma non ad altri”. Ma don Bosco non è uno che tiene alle etichette e nemmeno i pidocchi riescono a preoccuparlo. Scrive su questi nuovi suoi amici carcerati: “Questi ragazzi dovrebbero trovare un amico che si prenda cura di loro, li assiste, li istruisce, li conduce in chiesa nei giorni di festa. Allora forse non tornerebbero a rovinarsi”. A Torino, don Bosco gira per le strade, si reca nelle carceri, fa catechismo dai Fratelli delle Scuole Cristiane; è sempre seguito da un gruppo di ragazzi che lo seguono ovunque. A tutti regala pagnottelle e nocciole. Si interessa ai loro piccoli problemi. Diventa loro amico.
Raimondo Giustozzi
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