di Maurizio Bove
Il braccio amputato di Satnam Singh, appoggiato in una cassetta mentre lui si dissanguava, fa il paio con il corpo riverso sulla spiaggia di Aylan, il bambino di soli 3 anni morto nove anni fa.
Ma la commozione non basta, ed è troppo poca.
A parte le reazioni immediate, nemmeno i numeri oramai fanno più notizia: 900 vittime, più di 5 al giorno, da gennaio 2024 soltanto nel Mediterraneo centrale, 26mila uomini, donne e bambini scomparsi nei naufragi degli ultimi 10 anni a poche miglia dalle coste che affolleremo tra qualche settimana per le vacanze estive, 60 morti ogni milione di occupati, con un’incidenza di rischio doppia rispetto agli italiani.
Cifre che dovrebbero invece impressionare e interrogarci ogni giorno sulla totale inadeguatezza di tutti i Governi, di qualsiasi colore, che si sono susseguiti da 30 anni a questa parte, ossessionati da un flusso di persone che preoccupa soltanto per l’incapacità di gestirlo se non con muri di cartapesta; misure subitanee e momentanee che non riducono gli sbarchi, provocano stragi e violazioni dei diritti umani nei mari e lungo le frontiere di quei Paesi che paghiamo per tenere i migranti lontani da noi. Provvedimenti roboanti, di solito annunciati dopo qualche strage che ha scosso le coscienze più di altre, che soprattutto non hanno mai intaccato la cifra del mezzo milione di persone senza permesso di soggiorno che vivono e lavorano nelle nostre case, nei nostri cantieri, nei nostri campi, ovunque.
Sono loro i famigerati clandestini, frutto di una normativa anacronistica che affida ancora oggi, dopo due decenni e mezzo di fallimenti, l’incrocio tra domanda e offerta di lavoro al folle meccanismo del Decreto Flussi, una lotteria annuale nella quale il numero delle richieste di assunzione da parte di famiglie e imprese è sempre, sempre, sempre di gran lunga superiore al numero di posti disponibili: 690 mila richieste quelle spedite a marzo di quest’anno, a fronte di un totale di 452 mila quote per il triennio 2023-2025. Una grande farsa legalizzata attraverso la quale, nel migliore dei casi, pochi onesti e fortunati riescono a far rientrare regolarmente in Italia chi si trova già qui da anni senza permesso di soggiorno alle proprie dipendenze; la maggior parte delle quote, come sappiamo da tempo, finisce però nelle mani di chi ha accesso alla stanza dei bottoni e le rivende agli intermediari che forniscono il pacchetto completo comprensivo di visto, contratto e datore fittizio, a prezzi che arrivano fino a 15 mila euro. Sono fatti dimostrati.
E così, di tanto in tanto, soprattutto quando c’è bisogno di fare cassa, l’unica soluzione che sappiamo trovare è quella di ricorrere ad una delle tante sanatorie, ben otto nella storia, caso unico in Europa, che sono ancora una volta, per come sono concepite, facile occasione di guadagno per i truffatori che speculano sulla pelle delle persone.
Nel frattempo, la maggior parte delle persone continua ad entrare in Italia con un regolare visto per turismo che non consente un’assunzione, anche in presenza di un datore disponibile, dando così come unica soluzione l’entrata nel mercato del lavoro informale che prospera in alcuni settori.
I Governi agitano l’efficace spauracchio dell’invasione, che coincide in realtà con poche migliaia di richiedenti asilo facilmente gestibili, se soltanto l’accoglienza fosse diffusa sull’intero territorio nazionale e si superasse l’approccio emergenziale copiando i programmi di formazione e inserimento lavorativo messi in atto dalle centinaia di buone prassi a livello locale; e l’Italia continua ad essere fanalino di coda nella capacità di attrarre personale qualificato (soltanto l’1% dei permessi per lavoro coincide con una blue card, il visto rilasciato ai cosiddetti alti potenziali) mentre chi cresce e si forma nel nostro Paese non appena ottiene un permesso di soggiorno a tempo indeterminato varca, al pari dei coetanei italiani, i confini dell’Italia alla ricerca di prospettive migliori.
Il tutto in un Paese sempre più vecchio che non riesce più a supplire, nemmeno con l’immigrazione, non solo alla carenza di manodopera, ma neppure al deficit delle nascite.
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