L’Esodo della popolazione giuliano – dalmata, dal 1947 in poi, ha sempre diviso l’opinione pubblica. La ricorrenza del giorno del Ricordo, che cade il 10 febbraio di ogni anno, viene ancora troppo politicizzata. Alcuni la ritengono più importante della giornata della Memoria, fissata al 27 gennaio di ogni anno. Prima di utilizzare le tragedie accadute nella storia per fini politici, quando va bene, quando va male, solo per parlarne in modo superficiale e ripetitivo, occorre leggere e documentarsi. Ho sognato sempre che a Civitanova Marche o in un’altra cittadina della costa marchigiana si possa costituire una Biblioteca dell’Adriatico, che raccolga saggi, narrativa, poesie dei popoli che si affacciano sulle due sponde del mare.
Raoul Pupo, già docente di Storia contemporanea presso l’Università di Trieste, con il saggio Adriatico amarissimo, una lunga storia di violenze, edito da Laterza, collana Cultura storica, 2021, viene ad arricchire quanto ha già pubblicato in passato. Si occupa di storia della politica estera italiana, della frontiera italiana, della frontiera adriatica, delle occupazioni italiane nei Balcani e degli spostamenti forzati di popolazioni in Europa nel Novecento. Tra le sue più recenti pubblicazioni: Il lungo esodo (Milano 2005); Il confine scomparso (Trieste 2007); Naufraghi della pace (a cura di, con G. Crainz e S. Salvatici, Roma 2008); Due vie per riconciliare il passato delle nazioni? Dalle Commissioni storico culturali italo- slovena e italo-croata alle giornate memoriali (in “Italia Contemporanea” N. 282, 2016); Logiche della violenza politica nei dopoguerra del Novecento nell’Adriatico orientale (in “Storia e problemi contemporanei” N. 74, 2017). Per l’Editore Laterza: Trieste ’45 (2010), La vittoria senza pace. Le occupazioni militari italiane alla fine della Grande Guerra (a cura di, 2014) e Fiume città di passione (2018).
Il titolo del saggio “Adriatico amarissimo” è di Gabriele D’Annunzio: “Fonte d’amarezza per il cantore delle glorie italiche era il fatto che a dominare l’Adriatico fino al 1914 fosse l’Austria. Era la supremazia della marina militare austro – ungarica, ben protetta nei fiordi dalmati, sulla regia marina, priva invece di basi decenti sulla piatta riva occidentale del mare. Era però e forse contava di più, l’egemonia della marineria mercantile austriaca – cioè triestina e fiumana – non solo sull’Adriatico ma in tutto il Mediterraneo orientale, dai cui ricchi traffici le meno organizzate imprese di navigazione italiane erano state quasi completamente espulse” (Raoul Pupo, Adriatico amarissimo, una lunga storia di violenza, perché amarissimo, pag. IX, Laterza, 2021).
La scomparsa dell’Impero Austro Ungarico, negli anni immediatamente successivi alla fine del primo grande conflitto mondiale, rappresenta un fatto epocale per tutti. Nascono e si affermano nazionalismi diversi, gli uni contro gli altri armati. La fine del conflitto avrebbe messo tutto a posto, ma non è così. Faglie e sommovimenti percorrono tutto il territorio, che dalla Venezia Giulia scivola verso le coste dalmate o risalgono verso i boschi della Slovenia e attraversano l’Istria. Al termine del secondo conflitto mondiale, Pola, città italianissima, si svuota letteralmente di tutta la popolazione italiana. L’Italia è tra le nazioni sconfitte e gli errori commessi precedentemente dal Fascismo vengono pagati a caro prezzo. Tutto il territorio è attraversato da violenze inaudite, con uccisioni, stermini di massa, campi di concentramento e di sterminio.
“Chi oggi, venuto da chissà dove, d’estate prende il sole a capo Promontore, al vertice del triangolo istriano, e guarda il mare senza fine, non immagina che neanche settant’anni prima dalla terra alle sue spalle almeno metà della popolazione, quella italiana, ha dovuto prendere la via dell’esilio. Chi naviga tra i mille scogli della Dalmazia, dove tutto è azzurro e bianco, di solito non sa che l’isola amena all’orizzonte, Arbe / Rab, ha ospitato durante la seconda guerra mondiale un campo di concentramento in cui sono morti a frotte, donne, vecchi e bambini, sloveni e croati, deportati dalle loro case distrutte dalle truppe italiane di occupazione. Non sa nemmeno che l’altra roccia un po’ più in là, l’isola Calva / Goli Otok, ha visto funzionare il più spaventoso dei campi di rieducazione inventati dallo stalinismo in versione titoista” (Ibidem, pp. IX). Una delle peggiori violenze perpetrate dalla dittatura fascista contro sloveni e croati, prima, da quella comunista dopo contro gli italiani, è quella dell’esilio. L’esilio è la condizione di chi non si sente nel posto giusto, anche vivendo nella propria terra. Esule è chi sceglie di disturbare l’ordine esistente, senza piegarsi alle convenzioni ed all’omologazione. Noi siamo spesso in esilio ma non ce n’accorgiamo. L’esilio è solitudine, morte interiore, ma il peggiore degli esili non è andare altrove ma vivere in un posto senza essere accettati. C’è poi l’esilio volontario, che è una prova di libertà. Non fa orrore. L’esilio c’è sempre quando hai la patria fuori ma l’esilio dentro, o viceversa. Lo stato d’esilio, la nostalgia che si sente quando si vive lontani dalla propria terra, c’è però imposto culturalmente e socialmente.
“Tutto il Vecchio Continente, nei decenni fra le due guerre mondiali ed una guerra fredda, ha avuto modo di sperimentare gli orrori della modernità al servizio di progetti di conquista. Alcune parti d’Europa, come la riviera adriatica, hanno avuto però in sorte di provare, in rapida successione, alcune forme di dominio fra le più brutali fra quante hanno popolato il secolo breve: fascismo, nazismo, comunismo. Esse si sono affermate con la violenza e nell’esercizio della violenza hanno fondato il loro potere. Non per questo possono venire considerate come effetto esclusivo di agenti esterni; al contrario, le logiche della violenza si sono inserite con sconcertante facilità nelle fratture già esistenti nelle società locali, se ne sono alimentate e le hanno allargate fino a far esplodere le società medesime, che in alcuni casi hanno retto l’urto, se pure a fatica, in altri casi sono state scagliate lontano in mille pezzi” (Ibidem, pag. X).
“Le terre adriatiche hanno costituito per tanti aspetti un laboratorio delle politiche estreme del Novecento. Ciò dipende in parte dalla loro collocazione. La frontiera adriatica infatti, che dal golfo di Trieste scende fino alle Bocche di Cattaro, è una tipica area di sovrapposizione tra periferie, in questo caso del mondo romanzo, germanico e slavo con qualche incursione magiara. Si tratta di una situazione frequente lungo la grande faglia che dal Baltico scende nel Mediterraneo ed al Mar Nero, dove la pluralità delle presenze linguistiche, culturali e religiose può produrre incontri fecondi, ma anche sanguinosi contrasti. Così è accaduto nel corso del XX secolo, che ha visto prevalere decisamente la dimensione conflittuale. L’intreccio di rivalità nazionali, sociali, ideologiche e statuali non si è limitato a generare isolate esplosioni di violenza, quanto piuttosto ha determinato a partire dalla Grande Guerra sino al termine degli anni Cinquanta una continua e pervasiva presenza della violenza politica, se pur con fasi e intensità diverse” (Ibidem, pag. X).
Ciò che resta da fare, scrive Raoul Pupo, è di superare una volta per sempre la logica della Storia Nazionale, che in quanto tale assolve le colpe dei propri padri, fascisti o comunisti che siano. Fino ad ora è prevalsa una storia italiana o jugoslava (slovena e croata), scelta che può solo generare incomprensioni e deformazioni interpretative. “Infatti, è solo applicando contemporaneamente punti di vista diversi che si può sperare di comprendere le dinamiche di un territorio plurale come quello dell’adriatico orientale, caratterizzato a lungo da forme di ibridismo nazionale, nel quale i processi di nazionalizzazione non sono stati affatto lineari … Può essere utile tentare, almeno per grandi linee, un approccio globale, che tenga conto sia dei fili di continuità che dei momenti di rottura: nei contesti, nei soggetti storici e nelle colture della violenza” (Ibidem, pag. XI). Il lavoro fatto da Raoul Pupo nel saggio, di circa trecento pagine, muove proprio in questa direzione. Il risultato è una piacevole lettura, impegnativa sì, ma affatto divisiva. Torti e ragioni vengono attentamente passate al vaglio della ricerca storica. Il libro è diviso in otto capitoli, declinati in capoversi.
Indice del volume
- L’Austria era un paese ordinato? (Il primo martire, lotta di classe, violenza di Stato)
- La stagione delle fiamme (Preludio, Sursum Corda, Legionari, sogni rivoluzionari, gli uomini neri)
- La duplice oppressione (Bonifica etnica, il bastone alla mano, Tigr, Comunismo adriatico)
- Guerra totale (Alle porte dell’inferno, da retrovia a fronte, Autunno di morte, nubifragio)
- Nel nuovo ordine europeo (Teoria e pratica della repressione, la macchina della morte, zelanti collaboratori, guerra civile)
- Foibe (Primavera di sangue, Basovizza, coprire le foibe)
- Dopoguerra senza fine (La fratellanza con il bastone, rieducare, Pola nella bufera, la sfida della piazza, la rivolta di Trieste, gli ultimi a partire)
- Qualche considerazione a fondo strada (Dalle fiamme alle stragi, per concludere)
Scrive Raoul Pupo a conclusione del lavoro: “L’obiettivo che ci siamo osti all’inizio del libro non è affatto di costruire un museo degli orrori o, peggio ancora, di stilare insensata graduatorie di sofferenze e di colpe. Quello che a me interessava era di capire le logiche che hanno governato esplosioni e stagioni di violenza. Da questo punto di vista, il profilo altimetrico che abbiamo potuto disegnare osservando il succedersi degli eventi consente in effetti di leggere in maniera tutt’altro che meccanica i rapporti di continuità e rottura e ci permette anche di sfuggire alla trappola dei confronti parziali e di comodo. È piuttosto ovvio infatti, ragionando di storia, che quanto accade prima influenzi quel che succede dopo e non viceversa. Ma le traiettorie dei processi di radicalizzazione politica che hanno travolto le terre di frontiera adriatiche non sono quelle, tese e nitide, di un volo di freccia. I protagonisti sono molteplici ed abbiamo visto che spesso dissentono negli obiettivi ma condividono i linguaggi, delle parole e delle mani. In ogni caso, si tratta di soggetti storici concreti e mutevoli nel tempo, e non di astrazioni atemporali come gli italiani e gli slavi: concettualizzazioni ideologiche queste che spalancano la strada alle generalizzazioni e agli equivoci, per non dire dell’attribuzione di responsabilità collettive, con tutti gli abusi che ne possono seguire non solo sul piano intellettuale” (Ibidem, pag. 254).
Onestà intellettuale a tutto tondo quella di Raoul Pupo, quando afferma che la qualità nella pratica della violenza, scatenata negli anni delle debacle fascista , “non può venir letta in termini esclusivi di reazione ai precedenti soprusi, perché nasce all’interno di un altro e più ampio contesto – non solo le terre giuliane, ma anche i territori ex jugoslavi sui quali l’Italia cerca sanguinosamente di esercitare il suo dominio – in un clima profondamente diverso e cioè nel pieno di un conflitto che non conosce pietà, e vede la discesa in campo di un soggetto come il movimento di liberazione jugoslavo a guida comunista che -a differenza dei bolscevichi adriatici del primo dopoguerra – possiede una solida cultura rivoluzionaria e la gioca fino in fondo anche attraverso pratiche di lotta estreme sia nei modi che nell’efficacia” (Ibidem, ag.254).
Raimondo Giustozzi
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