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Libri Luigi Bettazzi, Ateo a diciotto anni?

copertina librodi Raimondo Giustozzi

“Caro amico, mi dicesti un giorno che eri ateo. Ateo a diciott’anni. Mi dicesti che ti eri allontanato dalla Chiesa, che non credevi più in Dio e in Gesù Cristo. Pensai subito a quanti giovani sono nelle sue condizioni, a quanti, giovani o no, sono lontani dalla Chiesa, definiti materialisti e atei che attestano di non credere nel mondo dello spirito e nella realtà di Dio … Ma pensai anche a quanti, pur senza giungere a dichiarazioni drastiche, hanno abbandonato ogni professione di religiosità, giungendo, al di là delle etichette e delle affermazioni, a vivere un materialismo concreto, un ateismo pratico” (Luigi Bettazzi, Ateo a diciotto anni? pag. 5, Rizzoli Editore, Milano 1982).

È l’incipit del libro, 169 pagine, diviso in diciassette brevi capitoli, scritti con un linguaggio chiaro e accattivante ma senza omettere nulla della verità fondante la fede di chi crede in Dio, in Gesù Cristo e nella Chiesa con tutte le sue mancanze. Nei primi cinque capitoli, l’autore da sempre impegnato nei movimenti giovanili, in qualità di assistente diocesano e vice assistente nazionale degli universitari cattolici (FUCI), docente di Filosofia, analizza il fenomeno della crisi religiosa dl proprio tempo, trovandone le ragioni, sia tra i giovani sia tra gli adulti.

“Una volta si riteneva che la crisi di fede dei giovani nascesse dalla vivacità delle passioni. Il giovane avverte che il risveglio della sensibilità, della sessualità, del sentimento, trova nel mondo dei valori religiosi, fondamentalmente nella fede in Dio, un punto di riferimento e di giudizio severo. Un altro motivo che si invocava era il rifiuto della Chiesa come istituzione pubblica, troppo compromessa con il potere costituito. Il rifiuto della Chesa diventava il rifiuto di Dio. Il rifiuto superficiale e ostentato si rivelava soprattutto come anticlericalismo, spesso più vivace e non a caso nelle regioni sottoposte un tempo al potere temporale della Chiesa. Pur in questo clima di anticlericalismo diffuso, giunti al termine della vita, non si rifiutava il conforto religioso. Un detto popolare avvisava: Quando il corpo non ne può più, l’anima torna al buon Gesù. Alcuni incolpano le ideologie materialiste ed atee, foriere della crisi di fede nei giovani. Benessere e consumismo, impregnati di disprezzo per gli altri, di odio e di violenza, anche se si professano rispettosi della religione, non sono meno materialisti ed atei di quelli che si dichiarano tali. Il rifiuto di ogni forma di autoritarismo fatto proprio dai giovani colpisce un po’ tutte le autorità costituite, tra queste, anche la Chiesa” (Ibidem, pp. 6 – 7, op. cit.).

Le risposte a queste ragioni non possono essere date secondo una impostazione tradizionale, che partiva da Dio per arrivare all’uomo: “Ho pensato che il discorso dovesse partire dal tipo di fede più sicura e più diffusa tra i giovani, la fede nell’uomo. Da qui si potrà passare a incontrare Gesù Cristo, l’uomo che si rivela superiore all’uomo. E il Dio che cercheremo non sarà comunque il Dio astratto di certe filosofie, ma un Dio che si interessa della nostra vita, che ci ama, ci segue, entra nella nostra storia. E la Chiesa sarà valutata per l’aiuto, sostanziale e discreto, che ci potrà offrire per vivere la solidarietà con Dio e con gli altri uomini” (Ibidem, pag. 7). La novità di Cristo, che irrompe nella storia dell’uomo, in un ambiente e in un contesto storico ben preciso, è il filo conduttore degli altri sette capitoli (dal capitolo 6 al capitolo 12). Gli ultimi cinque capitoli (dal capitolo 13 al capitolo 17) danno delle risposte al tema dell’impegno della Chiesa nel mondo contemporaneo, impegnata nell’evangelizzazione e nella promozione umana.

Questo scritto, continua l’autore del libro, nato come lettera rivolta ai giovani, è rivolto ai giovani di ogni età, oggi si scriverebbe diversamente giovani, adulti e anche anziani: “Proprio perché sentire il problema di Dio, magri per accantonarlo, provvisoriamente, è segno di interesse alla vita, ai valori, è segno di giovinezza. Mentre chiudersi ai valori, fuggire i problemi, accontentarsi di come si è, dei propri orizzonti limitati, questo è vecchiaia, anche a diciott’anni” (Ibidem, pag. 8). Certe espressioni hanno avuto il potere di farmi catapultare indietro nel tempo, agli ottanta del secolo scorso; quando il libro fu pubblicato (1982) avevo trentatré anni con tutto l’entusiasmo di un docente all’inizio della propria carriera. Ora sono in pensione da undici anni. Non smetto di leggere e scrivere, anche se ho poco tempo. L’Utopia Cristiana fa parte ancora della mia vita familiare. Ciò che scriveva mons. Luigi Bettazzi quarantadue anni or sono, mi tocca ancora. Il libro va riletto con una attenzione al presente, forse più difficile, con il Covid prima e le due guerre devastanti, quella in Palestina e l’altra in Ucraina. La dignità della vita umana va riaffermata con forza sotto qualsiasi cielo, a latitudini e longitudini diverse. Accanto alle guerre, un altro problema che ci dovrebbe preoccupare non poco, è quello legato alle morti sul lavoro. Sono troppo devastanti moralmente.

Fede nell’uomo

“L’uomo nasce con l’esigenza assoluta di ricevere tutto dagli altri; riceve la vita, il nutrimento, le cure indispensabili per la crescita. Il bambino riceve tutto dagli altri e agli altri non può dare se non la gioia e la soddisfazione di vedere la continuità della loro stessa vita. Il primo modo di aprirsi agli altri è quello di fidarsi degli altri. Il bambino inizia a fidarsi della mamma che gli dà il nutrimento necessario. L’apertura dell’uomo all’altro uomo si manifesterà ancora più chiaramente al momento dello sviluppo più pieno. Non è un atto di fiducia e di fede quello che porta l’uomo e la donna, legati stabilmente tra loro, a provocare la nascita di un nuovo essere umano? Alla base di ogni agire umano c’è sempre un atto di fede. L’uomo che cresce è un uomo che passa dalla chiusura del ripiegamento infantile all’apertura dell’attenzione e dell’impegno per l’altro. L’apertura potrà essere graduale ed espandersi dalla coppia al gruppo di coppie, alla propria categoria, al gruppo omogeneo, ma si tratterà sempre di superamenti di quelle chiusure individualistiche che segnano i vari livelli d’immaturità nella crescita della persona umana” (Ibidem, pp. 12- 13).

“Chi si inserisce in un’organizzazione o in un’associazione, se uno si impegna in un sindacato o in un partito, non compie sempre un po’ un atto di fede negli altri membri di questa organizzazione e soprattutto nei suoi responsabili? Man mano che il ragazzo comincia a rendersi autonomo dal mondo dell’infanzia, a prendere distanza dai genitori, a contestare il modo autoritario di comportarsi dei grandi, sarà spinto a prendere le distanze anche da una religione che fa un tutt’uno con la sua infanzia. Un’immagine di Dio “gendarme” della morale individuale e del buon ordine della famiglia, appare contrastante con la spinta ad aprirsi che ad un certo punto ognuno sente. La crisi religiosa appare allora come una crisi educativa: non si sa far crescere l’intuizione di Dio, non Lo si sa presentare al ragazzo e al giovane con la stessa efficacia con cui Lo si è presentato al fanciullo. Un tempo si presentava Dio come l’architetto del mondo, quello che muove le fila d tutto. In realtà l’immagine che ci facciamo di Dio è sempre limitata: non per niente religioni come l’ebraismo e l’islamismo vietano le immagini della divinità. Gli astronauti sovietici, rientrati sulla terra, dopo il cammino nello spazio, raccontavano che non avevano incontrato Dio. Se l’avessero incontrato, certamente non sarebbe stato Dio. Dio poi non è un prestigiatore, colui che interviene su nostro comando o richiesta a modificare le leggi di questo mondo. Il Concilio Vaticano II indica tra le cause dell’ateismo la mancata testimonianza di coloro, anche cristiani, che si dicono religiosi, ma che hanno una fede poco educata e mal presentata e una vita troppo poco coerente” (pp. 14-17).

“Se credere è uscire da se stesso, dalla contemplazione narcisistica e dalla ricerca egoistica centrata su di sé, se credere è aprirsi a quanto c’è fuori di noi, e riconoscerlo non solo reale, ma degno di attirare la nostra attenzione e il nostro impego, qualcosa a cui vale la pena di mirare mentre si opera, a cui vale la pena donare la vita, non è forse vero che il primo oggetto della fede è l’uomo? Intorno alla realtà dell’uomo forse possiamo ritrovarci tutti, coloro che vi credono molto e coloro che vi credono poco, cloro che vi credono per una illimitata fiducia nel valore fondamentale della ragione e coloro che invece vi credono per la luce della fede, coloro che credono e lavorano per la propria umanità o per quella di un piccolo numero di loro pari e coloro invece che idealmente credono e si battono per l’umanità di tutti. Anche coloro che sono colti da pessimismo e scuotono la testa di fronte alle delusioni dell’umanità concreta, credono nell’uomo e in tutti gli uomini al di là del censo, della cultura posseduta da ogni uomo, perché rimangono ottimisti verso l’umanità ideale …. Certo non bisogna essere egoisti o troppo calcolatori, ma forse nemmeno dei superficiali o degli imprudenti. Occorre che tutti coloro che hanno comunque iniziato l’avventura umana possano nascere e affrontare la vita in condizioni vitali, possano mangiare a sufficienza per la loro fame e le loro esigenze biologiche, possano difendersi dalle epidemie e dalle malattie, possano insomma crescere sani e robusti senza inquinamenti atmosferici o terrestri che attentino alla loro fragile esistenza” (Ibidem, pp. 20- 21).

“Amare la vita, la vita propria e quella degli altri, viverla pienamente e farla vivere nel lavoro e nel riposo, nella salute e nella malattia, nella cultura e nell’arte, nella generazione e nella crescita dei figli, questo è credere nell’uomo, anzi, questo è credere. Credere negli ideali è credere nella storia. L’uguaglianza e l’universalità sono la condizione di autenticità della fede nell’uomo … Capisco – e questa volta con sdegno – che un uomo che ha sentito l’ebbrezza del potere sia portato a fare degli altri uno sgabello per il suo trono, servendosene, strumentalizzandoli, favorendoli finché lo favoriscono, ma colpendoli duramente, qualche volta fino alla morte, qualche volta in maniera ancora più crudele, con una specie di morte civile, politica o sociale, quando gli altri intralciano la sua ascesa e il mantenimento del suo potere … Credere è stimare gli uomini per quanto in sé hanno anche di diverso da noi … Credere negli uomini, nella gente implica riconoscere che siamo insieme, nascano, cresciamo, viviamo, insieme. Nessun uomo è un’isola, come dice il titolo di u libro molto noto … Luomo, nella sua esperienza prima ancora che nella su razionalità, scopre di essere un animale sociale, un essere che non si può realizzare se non con gli altri”.

Mons. Bettazzi si appella ai giovani: “Credo che voi giovani possiate aiutarci in maniere tutta particolare, perché per la vostra età e la vostra limitata esperienza potete conservare più viva la fede nello stare insieme, prima che le difficoltà e le delusioni vi spingano a rinunciare ai vostri ideali, per ridurre anche voi, come noi più adulti, a mirare solo al successo, alla carriera, al guadagno” (Ibidem, pag. 28). Mette anche in guardia i giovani, quando scrive: “La maggiore disinvoltura sessuale non può favorire, a lungo andare, insensibilità e mancanza di autentica tenerezza, se viene vista e vissuta in un’ottica di licenza più che di libertà, in un’otica cioè di ricerca individuale ed egoistica anziché di crescita di una capacità autentica di donarsi, di porsi accano all’altro con delicatezza e disponibilità, proprio per crescere insieme? (Ibidem, pp. 28- 29).

“La piena maturità umana implica il riconoscimento della partecipazione comune alla stessa umanità; e questa peraltro non può nascondere la disuguaglianza tra chi di fatto ha e chi non ha, tra chi sa e chi non sa, tra chi può e chi non può, a seconda di una più fondamentale diversità di capacità e di possibilità … L’individualismo dominante rivela l’immaturità sociale dell’uomo” (Ibidem, pag. 37). Quanto Mons. Bettazzi scriveva quarantadue anni fa è diventato una deriva. L’individualismo individuale e di gruppo regna sovrano. Nessuno fa niente per niente. I social hanno ridotto il confronto ad una giungla di insulti. Le ideologie di cui parla nel testo non esistono più e con loro sono scomparsi gli ideali. Più che attale è quanto diceva Leibniz, quando affermava che “Ogni filosofia è vera per quello che afferma e falsa per quello che nega” Non c’è nemmeno più il confronto tra capitalismo e comunismo, imploso quest’ultimo, dopo aver rappresentato la “Religione laica” per eccellenza per quasi tutto il Novecento. Vero è quanto mons. Bettazzi scrive a proposito di questo scontro titanico tra le due ideologie economiche e sociali: “Il più grande alleato del comunismo è il capitalismo, perché sono le sue discriminazioni e oppressioni e provocare la reazione comunista. Come l’alleato maggiore del capitalismo è il comunismo, perché le sue massificazioni e violenze esaltano i valori delle rivendicazioni di libertà” (Ibidem, pag. 41). Oggi, gli orizzonti sono diventati più foschi. La guerra a Gaza e in Ucraina rappresenta il nuovo tsunami geopolitico e nuove avventure egemoniche, dagli esiti del tutto imprevedibili.

Più che valide sono le riflessioni che Bettazzi fa a proposito del concetto di Patria, quando scrive: “La patria non è stata forse in passato soprattutto la patria dei signori e dei nobili, che facevano le loro guerre per questioni dinastiche o per allargamento avido dei loro possedimenti? E non è stata, di recente, troppe volte la patria non dei poveri, ma dei benestanti, i quali, per difendere i loro interessi, sia pure ammantati da una vernice di nazionalismo, hanno sacrificato intere generazioni di giovani?” (Ibidem, pag. 43). Quanti giovani, russi e ucraini, sta sacrificando la guerra fratricida, scatenata dalla Federazione Russa di Vladimir Putin, per difendere, a suo dire, la propria patria dal cattivo occidente, cattivo nel senso classico del termine come captivus diabuli, posseduto dal diavolo, satana in persona? Non c’è poi nessuna vergogna. Putin, da aggressore, sostiene di essere aggredito. Il patriarca ortodosso russo Kirill benedice la guerra contro l’Ucraina e sostiene che i soldati russi morti in battaglia vanno diretti in paradiso. Bugie e bestemmie la fanno da padroni.

La novità di Cristo

Nei secondi cinque capitoli, mons. Bettazzi mette al centro delle proprie riflessioni la figura di Gesù Cristo, per i credenti, culmine e sorgente dell’esperienza umana, ma che per ogni uomo rimane un momento di ispirazione e di verifica a cui non si può sfuggire. Il Concilio Vaticano II, nella Gaudium et Spes, dice addirittura che Gesù Cristo “rivela l’uomo all’uomo”. Gesù va inquadrato nella storia del suo tempo e della sua terra. È la storia del popolo di Israele, che in un mondo di idolatria e di violenza cresce come “popolo nuovo”. Il Dio rivelato a Israele è un Dio talmente “spirituale” da non poter essere rappresentato con immagini materiali. Si dovrà venerare a Gerusalemme solo nell’unico Tempio, dentro il quale non vi saranno immagini dipinte o scolpite. Attorno all’unico Tempio dell’unico Dio si stabilisce e cresce il popolo “sacro”, feroce con gli altri popoli quando sono in guerra, ma anche sprezzante con loro quando sono in pace. Il popolo non deve frequentarli nemmeno nelle loro case o lasciare che essi entrino nelle case del popolo di Dio. Questa difesa verso gli altri diventa invece all’interno del popolo di Israele solidarietà ed aiuto reciproco. Ritornano più volte gli inviti a prendersi cura dei poveri, delle vedove, degli orfani e degli stranieri.

L’irruzione di Gesù Cristo nella storia di Israele sconvolge tutto. “Non sono la razza, la religione, la cultura che rendono l’uomo prossimo; ogni uomo va trattato come prossimo, anzi bisogna rendere prossimo ogni uomo. Di fronte ad un popolo sacro, perché eletto da Dio, alla categoria sacra dei sacerdoti, col luogo sacro del Tempio, con riti e cerimoniali sacri, orgoglio dei farisei, Gesù viene a cambiare radicalmente la prospettiva. Se al sacro noi contrapponiamo il profano, il secolo, come dicevano gli antichi, verrebbe da concludere che il grande secolarizzatore fu proprio Gesù Cristo, che non faceva parte del clero, era laico, abolì Tempio e cerimoniali, offrì la salvezza al secolo, cioè a tutti gli uomini di tutti i popoli. La secolarizzazione, che potrebbe apparire a prima vista come un decadimento della fede, può risultare invece una purificazione e un accrescimento, nel senso di una maggiore consapevolezza, di un impegno più personale e di una solidarietà più universale” (Ibidem, pp. 51- 52).

Gesù nasce e vive in un paese secondario, in una situazione di scarso rilievo, affronta umiliazioni, persecuzioni e una morte ignominiosa. Sceglie come interlocutori e li mette al centro della propria predicazione, le categorie più umili, gli uomini meno valutati: i pastori, visti allora come fannulloni, i bambini, non ancora vezzeggiati e coccolati, considerati meno uomini, i lebbrosi, rifiutati da tutti, i samaritani, scomunicati, da odiare e da evitare, i pubblicani, screditati perché esattori delle tasse, al servizio dell’oppressore pagano, le prostitute, creature ricercate, ma con superiorità e disprezzo. Eppure tutti questi risultano i capifila, i rappresentanti della marea montante degli inferiori, degli esclusi, degli uomini che non contano, dei socialmente emarginati, che pure (e proprio per questo) rivelano l’infinito mistero dell’uomo in quanto tale e richiamano quell’insopprimibile dignità che ci rende tutti fondamentalmente uguali, imponendoci dunque di rispettare e di difendere, di valorizzare e di incoraggiare ogni uomo” (Ibidem, pp. 52-53).

Don Luigi Bettazzi è chiaro in questo punto, quando si rivolge al diciottenne che si dichiara ateo: “Se trovassi che ti è stata proposta un’immagine slavata di Cristo, che dice soltanto siate buoni, vogliamoci bene e che incoraggia così a non approfondire i problemi della vita e della società per lasciare come sono gli orientamenti presenti di ordini costituti, allora ti capisco se rifiuti Cristo” (pag.55). Il mondo nuovo che Gesù è venuto ad annunciare e a iniziare è lo stesso mondo, con gli stessi uomini, ma visto in un rapporto non più di lotta o di dominio, bensì di unione e di servizio: “Il più grande tra voi diventi come il più piccolo e chi governa come colui che serve” (Lc. 22,25).

“Amore ai più piccoli e ai più poveri e spirito di servizio verso tutti implicano la libertà interiore, cioè la capacità di non lascarsi dominare da quanto invece viene apprezzato dagli uomini: cultura, ricchezza, potere politico. Implicano distacco e giusta valutazione, dicono stima e ricerca di povertà…. Questa non è disprezzo dei beni: le realtà del mondo vanno apprezzate, stimate, utilizzate. Ma va stimato e cercato, al di sopra di tutto, l’amore, e va perseguito e realizzato il servizio: tutto deve essere subordinato a questo. Si è poveri per poter amare… Poiché i ricchi sapevano farsi giustizia da soli, la giustizia di Dio consisteva nel prendere le parti dei poveri e degli oppressi. La ricchezza, ce lo conferma anche la cronaca spicciola, non favorisce la fede. Troppo spesso indurisce il cuore, non fosse altro per paura di perderla. A che tra due persone o due famiglie povere, chi ha un po’ di più finisce col farlo valere sull’altro, per umiliarlo, magari per sottometterlo o per sfruttarlo” (Ibidem, pp.60- 65).

Gesù fu ucciso. Affrontò la morte per vincerla. Amare fino alla morte è amare oltre la morte. Morire per amore non è finire di vivere, è vivere per sempre. Gesù esorta i suoi discepoli ad amare; ma non di un amore superficiale o romantico, bensì di un amore fatto di dedizione, di dimenticanza di sé, fino a morire pur di aiutare il fratello … La pace che Gesù è venuto a portare non è un comodo vogliamoci bene, è andare al di là del proprio egoismo, è un impegno di riconciliazione tra lontani, tra nemici. È togliere presunzioni e violenze, egoismi ed emarginazioni, perché sul terreno dissodato possa fiorire la vita nuova.  Uguaglianza, servizio, povertà, valore della croce sono i grandi doni, le grandi novità caratteristiche di Cristo e della vita cristiana. Nella realtà dell’impegno cristiano rimane sempre il rischio di ridurre la fede ad una dimensione puramente spirituale … Credere non è solo l’atto intellettuale di chi deduce che Gesù Cristo è esistito e riconosce che nella sua umanità vi è qualcosa di sovrumano … Credere in Cristo vuole dire sentirsi coinvolti nella sua realtà umana e sovrumana, vuol dire impegnarsi a vivere una vita pienamente umana nel modo totalmente nuovo che Egli ci ha portato, vuol dire buttare in Lui la nostra vita, la nostra fatica, la nostra morte, per sentirsi risorgere con Lui, giorno per giorno, fino alla resurrezione definitiva (Ibidem, pp.67- 74).

L’amore universale, il servizio, la povertà, la valorizzazione della croce sono i soli valori che salvano l’uomo e fanno progredire la storia … In Gesù Cristo, vero uomo, si rivela l’aldilà dell’uomo, del mondo. Questo aldilà, trans, da qui il termine trascendente si manifesta allora non come qualcosa di distaccato, di lontano: è al di là ma è al di dentro, presente nell’umanità. La povertà diventa rivelazione di un aldilà, così come la non violenza, così come l’amore, la solidarietà, il servizio. È di questa realtà che è fatta la storia: non la storia dei libri, incentrata sulle guerre e le violenze, ma la storia vera, quella del progresso dell’umanità, fondata sulla fedeltà dei poveri alla vita, sulla ricerca perseverante di ideali, che sembrano utopistici, ma che poi sono quelli che elevano il mondo … Il Dio di Gesù Cristo non è un Dio generico. È un Dio che partecipa alla vita dell’uomo, alla sua storia, perché la vita e la storia di un’umanità così strettamente unita alla divinità – in Cristo l’umanità e la divinità sono indissolubilmente unite – diventano in qualche modo la vita e la storia del divino nel mondo (Ibidem, pp. 75- 78).

Tu non mi cercheresti, se non mi avessi già trovato” (S. Agostino e B. Pascal). E’ dentro di noi che sentiamo la presenza di un Assoluto, che ci sostiene, ci stimola, ci ammonisce, un Assoluto che è al d dentro della storia e l’orienta, al di là di tutti i limiti e le contraddizioni di cui noi la avviluppiamo … Ma per amare veramente bisogna saper riconoscere e accogliere l’amore, sconfiggendo così l’insidia dell’orgoglio di essere noi a dare e riconoscendo invece l’altro a un livello tale da poterci lasciare amare da lui, da godere di essere amati … Credere in Dio è uscire dal nostro isolamento, che sembra elevarci mentre in realtà ci deforma: proprio perché solo aprendoci a Lui troviamo le nostre giuste dimensioni, rispetto a tutti i valori che da Lui sgorgano e in Lui si equilibrano, e rispetto a tutti gli uomini e alla storia cui Egli offre un significato e un incoraggiamento … Nell’uscire dunque da se stessi per riconoscere che c’è un mondo più grande di noi, col quale entriamo in contatto e in dialogo, nel quale ci inseriamo con tutta la nostra vita, proprio in questo dono che è l’more sono inclusi l’amore verso Dio e l’amore verso l’uomo” (Ibidem, pp. 79- 96). Chi lotta per la pace e per l’uguaglianza tra gli uomini, chi s’impegna nelle strutture civili per la difesa degli inermi, chi serve nel volontariato i più bisognosi, magari smascherando ingiustizie, oppressioni, sfruttamenti e discriminazioni, testimoniando nell’obiezione di coscienza il rifiuto a quanto egli valuta manifestazione o preparazione alla violenza, quello costruisce il Regno” (Ibidem, pag. 98).

L’obiezione di coscienza oggi è un dato acquisito. Occorrerebbe anche chiedersi quanto ha contribuito a cambiare le cose. Qualche ministro sta riproponendo la leva militare obbligatoria, dicendo che è educativa e altre sciocchezze La guerra purificatrice, benedetta dal patriarca di Mosca, Kirill, verso l’Ucraina e l’Occidente posseduto da Satana, sta riorientando le scelte degli stati verso spese militari folli ((N.d.R.).

Il Regno di Dio è il mondo come Dio lo desidera e lo propone, il mondo in cui l’uomo riconosce la sua realtà di dipendente e di signore: dipendente da Dio, perché fatto a sua immagine e somiglianza, e proprio per questo signore di tutte le altre creature. Predicare il Regno di Dio, che altro non è che il Regno dell’uomo comporta risolvere il problema tra evangelizzazione e promozione umana. Evangelizzazione sarebbe l’annuncio del Vangelo, starebbe quasi ad indicare l’aspetto specificamente divino della vita e della storia; promozione umana indicherebbe invece gli aspetti più specificamente umani. L’evangelizzazione deve rispettare la cultura delle popolazioni dove si vuole annunciare il Vangelo. “In passato, invece, si è spesso esportata, insieme al Vangelo, la cultura occidentale, obbligando i popoli diversi a ricopiare le programmazioni europee (fino a far diventare l’America meridionale una America Latina: Forse è proprio per questo che popolazioni di culture più antiche e più sviluppate, come quelle dell’Oriente (dall’India, alla Cina, al Giappone), si sono dimostrate così impenetrabili di fronte alla predicazione del Vangelo, presentato in forma troppo occidentale e insensibile alle ricche tradizioni religiose e sociali di quei luoghi” (Ibidem, pag. 109).

 

 

La Chiesa “Sacramento della vita e dell’amore”.

“La Chiesa è la comunità che trasmette la Prola del Signore, la Parla che rivela all’uomo non soltanto i misteri di Dio, ma anche i misteri stessi dell’uomo … La radice o il pretesto di molto ateismo si ritrova nella realtà della Chiesa e nella sua azione nella storia: non si condividono certe sue prese di posizione, soprattutto certi giudizi morali e certe valutazioni politiche, se ne mette in dubbio l’autorevolezza e si finisce col rifiutare la legittimità non solo dei giudizi e delle valutazioni, ma della Chiesa stessa. La responsabilità è da attribuirsi anche al modo con cui la Chiesa è stata presentata. Per difendersi da chi avrebbe voluto una Chiesa solo spirituale, si è insistito in questi ultimi secoli sulla Chiesa come società visibile, garantita in questa sua struttura dalla gerarchia con tutti i poteri che caratterizzano le società perfette. Gli antichi, pensando che la salvezza degli uomini è dovuta solo a Gesù Cisto e che Gesù Cristo vive nel mondo attraverso la Chiesa, erano arrivati alla conclusione che al di fuori della Chiesa visibile, della gerarchia, non c’è salvezza (Extra Ecclesiam nulla salus).

Il Concilio Vaticano II, concilio pastorale e non dogmatico ha voluto richiamare un’altra Chiesa, quella delle origini, come assemblea dei fedeli che credono in Cristo. Caratteristica della Chiesa non è il privilegio, ma la responsabilità di chi è cristiano dalla gerarchia fino all’ultimo fedele, che nei piani di Gesù Cristo è il primo:” Il primo tra voi sia come colui che serve”. Il cristianesimo è un talento. Tenerselo per sé non basta, sogna trafficarlo, impegnarlo nel rischio con gli altri: allora soltanto è giustificato. La Chiesa è lo strumento per annunciare Cristo. Abbé Pierre, Raoul Follerau, Madre Teresa di Calcutta, Oscar Romero, Vittorio Bachelet e altri testimoni del Vangelo sono esempi di come si possa servire l’uomo attraverso la testimonianza cristiana.

La Chiesa è un’assemblea di fedeli che tende all’aldilà ma con uno sguardo attento all’aldiquà. Sono i capitoli quattordici e quindici del libro. Proprio perché questi due aspetti devono procedere di pari passo, la Chiesa del Concilio si è impegnata a trasmettere da un lato il Vangelo, dall’altro calare l’annuncio nella realtà del proprio tempo. Mons. Bettazzi commenta le diverse encicliche che rappresentano delle pietre miliari: Pacem in terris (1963, papa Giovanni XXIII), Octogesima adveniens (1967, papa Paolo VI), Populorum Progressio (1967, papa Paolo VI), Laborem exercens (1981, papa Giovanni Paolo II). Il vescovo di Ivrea non dimentica di citare e commentare ampiamente la costituzione conciliare Gaudium et Spes nella quale se da un lato si afferma che la chiesa ha molto da insegnare al mondo, ha anche molto da imparare dal mondo, soprattutto per quanto riguarda l’organizzazione della società.

L’ultimo capitolo del saggio – lettera, messo quasi a conclusione della fatica letteraria, è un appello sincero ed aperto all’occasionale giovane lettore ma anche adulto, diversamente giovane come si ama dire da un po’ di tempo, anche per nascondere l’età che avanza e con essa le immancabili delusioni: “Non avere timore di dover credere. Abbi il coraggio di essere te stesso, di esserlo sempre più nella ricerca, nella scoperta, nella vita, senza lasciarti plagiare da chi ti scoraggia, da chi ti preme, da chi ti schernisce …Il regno di Dio è il mondo dei giovani, dei giovani nello spirito, che contrastano la vecchiaia di chi – a qualunque età – si ripiega su di sé, sulla meschinità dei propri calcoli, sull’egoismo dei propri esclusivi interessi … credere in Dio è credere nell’uomo, la fede religiosa non può essere un alibi per l’impegno concreto, tanto più da quando Dio si è fatto uomo per incarnare la salvezza nella nostra storia” (Ibidem, pp. 166 – 169).

 

Raimondo Giustozzi

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