Questo testo originalmente è stato pubblicato su Gdańsk Miasto Literatury
Da un’ora e mezzo sono in una videochiamata su Zoom con i rappresentanti delle istituzioni culturali dell’Europa Occidentale, e da un’ora e mezzo stiamo parlando di Lev Tolstoj (lo scrittore russo, l’autore di “Guerra e pace” e di “Anna Karenina”, ndt). Doveva essere una veloce call di lavoro sull’organizzazione della serie di discussioni sulla cultura ucraina vista in ottica de coloniale. Invece siamo qui da un’ora e mezzo (non sto scherzando, la versione gratuita di Zoom ci ha fatto ricollegare ben due volte) a parlare di Tolstoj. Anzi da un’ora e mezzo sto ascoltando un monologo su quanto inappropriato sarebbe cancellare la cultura russa e come il mondo – e i miei interlocutori in particolare – non sarebbero capaci di vivere senza Dostoevskij, Čajkovskij, e come avrete capito già, Tolstoj.
Alla fine mi sono cacciato in questo guaio da solo. Avevo avanzato una proposta per la serie di panel con nomi di speaker molto importanti e ho scatenato un inferno. Uno di questi era Volodymyr Sheiko, il direttore dell’Ukrainian Institute e il promotore della lettera aperta con la richiesta alle istituzioni culturali e ai rappresentanti del settore di sospendere la collaborazione con le istituzioni russe, di boicottare gli eventi culturali russi, di smettere di dare sostegno alla cultura e all’arte russa e così via.
Per un’ora e mezzo (e non era ancora finita) ho ascoltato discorsi sui significati della cultura russa, sull’assenza di collegamento con l’aggressione russa in corso, sui casi di “russofobia” in Europa, sulla brava ballerina russa scappata dal suo Paese nazista e sul buon lavoro che ha trovato nei Paesi Bassi e sull’ancora più brava donna con il manifesto “no guerra” apparsa sulla tv russa. E, come avrete già capito, su Tolstoj.
I panel che avevo proposto avevano l’intenzione di dare voce ad autori ucraini e volevo spiegare il mio punto di vista in questa Zoom call che non stava andando per niente bene. Dietro la richiesta di “cancellare” la cultura russa c’era l’idea di iniziare il processo di deimperializzazione e – ironicamente – di denazificazione del patrimonio culturale russo, sia quello classico sia quello contemporaneo, il quale tra l’altro è a sua volta nominato nella lettera di Sheiko. Stavo cercando di spiegare che da secoli le narrazioni imposte da questa cultura uccidono e deumanizzano le altre culture sottomesse da conquiste imperiali russe (incluse quelle sovietiche). Stavo cercando di spiegare che per troppo tempo così tanta gente e così tante nazioni sono state private delle loro voci come risultato dei bagni di sangue commessi dai russi – e uno di questi bagni di sangue sta accadendo proprio in questi giorni, e questo finalmente deve finire.
Un mio collega, anche lui di origine ucraina, si è unito a noi cercando di buttare qualche frase su tre secoli del genocidio culturale e fisico contro la nostra gente e la nostra identità da parte di Mosca. Le risposte sono state di questo tipo: «Ma ha detto “cancellare”», «Ma un ateneo milanese ha cancellato il corso degli studi su Dostoevskij e poi ci ha ripensato», «Ma è una follia smettere di suonare Čajkovskij!», «Ma Majakovskij?», «Ma Rodčenko?», «Ma Tolstoj?». Alla fine mi sono arreso, e ho scelto il ruolo di semplice ascoltatore di monologhi che andavano a ripetersi.
Mi sono allontanato con il pensiero, e mi è tornata subito in mente la libreria di mia madre, file e file dei volumi con le copertine monocromatiche (ogni libro era quasi uguale all’altro, ed era una tortura per un bambino con il disturbo ossessivo-compulsivo), con le lettere curve e dorate, e a volte con i ritratti sopra – Puškin, Dostoevskij, Čechov, Tolstoj. C’erano raccolte di opere complete, con qualche volume strano mancante, che occupavano almeno metà scaffale della libreria, e poi opere raccolte in soli tre o quattro volumi e, infine, edizioni separate dei romanzi più importanti.
Quelli di Tolstoj erano in marrone scuro con un accenno di verde che anche oggi suona davvero strano. La mensola a lui dedicata sembrava una palude tra i suoi vicini più chiari. Ho cominciato a immaginare il colore della palude in Karelia vicino a Sandarmokh. Poteva essere simile? Proprio quel posto in cui negli anni Trenta i sovietici hanno sterminato l’élite culturale ucraina insieme con gli altri. I libri di quegli autori sarebbero dovuti essere sullo scaffale di mia madre sin dall’inizio della mia formazione, però, quel posto era occupato dallo sciame paludoso dei vari Tolstoj.
Su quegli scaffali, tra Tolstoj e la crème de la crème della letteratura russa, c’erano soltanto due edizioni logore e pesanti di “Kobzar” di Taras Ševčenko in ucraino. E non c’era nessun libro di Pidmohylnyj, Chvylovyj, Zerov, o Domontovyč. Non c’era neppure un libro che menzionava e parlava di quei nomi: in fondo, quella era una tipica libreria di una tipica famiglia dell’intellighenzia sovietica, senza le edizioni illegali dei dissidenti pubblicate in Samizdat.
Durante le mie lezioni di letteratura a scuola nessuno ha mai menzionato quei nomi di autori ucraini accanto agli altri. Abbiamo rischiato di non conoscerli affatto. Erano i tardi anni Novanta, alcuni anni dopo la scissione dell’Unione Sovietica, e noi comunque dovevamo ascoltare il corso di letteratura russa assieme al corso molto modesto di letteratura ucraina che si basava ancora sulla selezione sovietica di opere neutrali. C’erano contadini sofferenti e leggende popolari, e con l’arrivo alla letteratura del Novecento delle opere di Vasyl Barka e simili, bandite in epoca sovietica, non sarebbe cambiato molto a parte il fatto che i contadini soffrivano ancora di più. (Vasyl Barka è l’autore del romanzo “Il principe giallo. Lo sterminio per fame dei contadini in Ucraina” che racconta la tragedia di Holodomor, la pianificazione della carestia organizzata dall’Urss che sterminò milioni di ucraini, ndt).
Il corso di letteratura russa era diverso. C’era la grandezza imperiale e lo sviluppo della tradizione letteraria. Il programma era quello dei tempi sovietici che con maestria giustificava la dominazione russa anche in un’Ucraina ormai indipendente, dove alla fine non aveva più bisogno di essere confermata. Ripetevamo a memoria le parole di Puškin sulle conquiste russe in Polonia e Ucraina, le parole di Lermontov sulle guerre imperiali nel Caucaso, approfondivamo i volumi sulla propaganda comunista di Šolochov e naturalmente c’era Tolstoj.
Abbiamo letto i volumi pesanti con le opere di Tolstoj, ascoltando il pacifismo che trasudava da tutte le pagine. Lo abbiamo discusso in classe, gli abbiamo dedicato i saggi, a lui e alla sorte della Patria, e a nessuno è venuto in mente di specificare che quella patria era di qualcun altro e non nostra. Abbiamo dovuto imparare a memoria il brano sul cielo sopra Austerlitz, proprio come avevano fatto i nostri genitori e i nostri nonni, e come hanno fatto altri bambini in ogni villaggio e ogni città in Russia. Lo fanno ancora oggi, presumo che nessuno abbia voluto rivoluzionare l’abituale ordine delle cose.
Cercate solo di immaginare che ogni politico russo che ha pianificato l’occupazione dell’Ucraina, ogni comandante militare che ha dato ordini a ogni soldato di obbedire a quegli ordini, ogni propagandista russo che incita al genocidio, e ogni cittadino russo che felicemente inghiottisce quella propaganda, ognuno di questi personaggi ha letto a scuola Tolstoj. E non solo letto, ma discusso, scritto i saggi, ascoltato il professore che spiegava il profondo sentimento pacifista di Tolstoj.
Ogni assassino a Bucha, ogni ladro a Irpin, ogni torturatore a Olenivka, ogni esecutore a Popasna ha ricevuto un’obbligatoria infusione di opere di Tolstoj ritenute insostituibili. E io non smetto di chiedere a me stesso che cosa hanno visto veramente su quelle pagine impolverate e in quel cielo immenso sopra Austerlitz? Quali conoscenze gli hanno passato quelle parole? Hanno visto qualcosa di completamente diverso rispetto agli intellettuali occidentali che leggono le stesse parole in inglese, francese o portoghese? Tolstoj ha fallito nel promuovere l’idea di pacifismo come ha fallito anche nel compito di non abusare di sua moglie?
Queste domande per ora rimangono senza una risposta e io non posso immaginare il futuro degli studi russi senza un impegno a trovare quelle risposte. Altrettanto non riesco immaginare le nuove pubblicazioni estere delle opere di Tolstoj senza le foto della guerra russa in Ucraina ogni due pagine. A partire dal 2022, le foto delle teste tagliate dei prigionieri ucraini sono altrettanto importanti per capire “la mistica anima russa”, al pari di tutte quelle opere ottocentesche. Studiare la letteratura russa oggi richiede di dimenticare tutto ciò che si sapeva della letteratura russa e di dimenticare tutti quegli anni in cui la si leggeva per piacere, e bisogna chiedere a sé stessi e agli altri che cosa è che non va in quei libri e in quegli autori che li hanno scritti e nella gente che li ha letti.
Non possiamo proibirvi di leggere Tolstoj (cosa che, alla fine, non è mai stata nostra intenzione), però possiamo, e Dio se lo facciamo, farvi passare per sempre la gioia di leggere quei testi.
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L’autore, Andrii Dostliev
Artista, curatore, ricercatore di fotografia ucraino che vive in Polonia. La sua area di interesse include memoria, trauma, identità sia personale che collettive, pratiche decoloniali in Europa orientale e i limiti di fotografia come mezzo di comunicazione.
Per la pubblicazione di questo testo si ringrazia Tetyana Pushnova, la direttrice della sezione “Cultura” di Ukraiska Pravda. Il testo in inglese che ha portato alla pubblicazione del nostro si trova qui.
Linkiesta – Esteri – 22 maggio 2024
di Andrii Dostliev
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