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Libri Dolores Prato, Le ore (1° Vol.) Parole (2° Vol.) La vita nel monastero della Visitazione e molto altro

“Un battente del gigantesco portone si stava schiudendo e di questo fui cosciente; lo tirava una piccola monaca, la Superiora, e quando fu aperto gli rimase attaccato come una sua appendice. Questa è Lolita – disse la zia. Varcai la soglia e fatti due passi, rigida come un automa, mi fermai senza pensare di voltarmi indietro per salutarla con uno sguardo. Davanti a me, in penombra, il gruppo delle educande immobili come se fossero di cartapesta. Alle mie spalle il contemporaneo rumore di opposti catorci e paletti mi disse che ero già isolata nell’altro mondo. Non soffrivo e non capivo, ero spezzata. Avevo spezzato me stessa quando spezzai il pettine”(Cfr. Dolores Prato, Le Ore, vol. I, pag. 9, Libri Scheiwiller, Milano, 1987).

Inizia così il primo volume “Le Ore”, che nell’intenzione di Dolores Prato doveva essere forse la continuazione del romanzo “Giù la piazza non c’è nessuno”. Il titolo dato al volume non è dell’autrice ma di Giorgio Zampa, come detto da lui stesso nella nota esplicativa, messa in fondo al libro (Ibidem, pag. 273). Il secondo volume, con lo stesso titolo Le ore ma con l’aggiunta di un  sottotitolo, Parole, è la continuazione del primo. Dolores Prato nella sua scrittura manifesta sempre la meraviglia che le parole suscitano su di lei. Operava sempre una distinzione tra le parole che sentiva in casa dagli zii (don Domenico e Paolina), fuori casa, quelle usate dalla piccola borghesia del tempo e  nell’educandato delle Visitandine di Treia dove visse come educanda dal 1905 al 1912. Nel testo si parla di un pettine spezzato. In un moto di rabbia, la piccola Dolores, che non voleva saperne di entrare nello studentato, spezza realmente il pettine che la zia stava usando, per pettinarle i capelli. Zizì era nettamente contrario alla decisione presa dalla sorella.

Il secondo volume, dal sottotitolo le parole, di 135 pagine in totale, comprese una nota di Giorgio Zampa e una breve biografia su Dolores Prato, è una vera antologia, intesa nel senso classico del termine, come raccolta di fiori, il tutto detto con una sottile ironia. “Io sapevo che i portogalli si chiamavano anche aranci, ma lo dovetti dimenticare … in collegio mai più ritrovai i portogalli che per le strade stavano sui carretti e in casa sulle fruttiere. C’erano gli aranci in convento, ma erano piccoli e aspri. Quelli di casa erano dolci, pieni di acqua dolce, spesso di un colore di dolce rubino”(Cfr. Dolores Prato, Le Ore, le parole, vol. II,  pp. 46 – 47, Libri Scheiwiller, Milano, 1988). “Il cesso diventava gabinetto o camerino, per lo zio era il luogo comodo, salvo quando lo chiamava licet, come si usava in seminario. Quello appeso di fuori come una gabbia, i muratori lo chiamavano latrina, ma noi ragazze dicevamo solo “quel posto”.  Se c’era un po’ di frizzante allegria nell’aria dicevamo Vado in quel posto che nomar non lice” (Cfr. Vol. I, pp.37-38).

Scrive nelle pagine iniziali del suo ingresso in collegio: “Io niente seppi più, niente vidi più, non ci fu più il tempo, non ci furono più i luoghi, non ci fu più nulla, neppure l’assenza di Zizì che si era nascosto dopo aver detto alla zia: fa tu, io non posso vederla uscire di casa; non mi accorsi che ci fosse l’onnipresente Eugenia. Aveva portato lassù la mia roba ed era scomparsa. In fondo avevano lasciato solo la zia. Essa aveva avuto la deplorevole tenacia di vincere l’ostilità delle monache che mi rifiutavano, sostenuta dal fatto che Olga Didimi era entrata da poco, che Caterina Acquaticci ci stava da qualche anno, perché la nostra no? Avrà detto a se stessa, lei che non mi voleva da meno di nessuno e s’impuntò come ben sapeva fare spingendomi dentro quell’inutile incubatrice di adolescenti. Il mio primo atto di violenza concluse la lunga infanzia, se l’infanzia può mai concludersi” (Le Ore, Vol. I, pag. 14). Il collegio delle Visitandine era frequentato dalle ragazze di famiglie benestanti, di cui Dolores Prato elenca blasoni e ricchezze: “C’era la prole femminile dei Conti Manzoni, Fiorenzi, Della Porta, Grimaldi, Pasolini, Broglio D’Ajano, dei Marchesi Honorati, Trionfi, Ricci Urbastro, Castellani; i Ruggeri Loderchi; era già titolato quel nome anche senza il conte davanti, Ruggeri Loderchi, tutto l’orto s’empiva di araldica; non era il conte non era il comunissimo Ruggeri, era quel Loderchi a dare tanta pompa. E nobili, tanti, i più considerati erano i nobili Porcelli”. Anche Dolores Prato conosceva conti e marchesi, che aveva conosciuto attraverso Zizì e Paolina, con la frequentazione delle loro case: “Nel mio segreto io avevo i miei; tra i miei oltre ai Conti Duranti, ai Marchesi Torelli, ai Conti Bosdati e agli Sciava, c’erano i Castracane, ma essendo fuorilegge io, lo diventavano anche quei nomi” (Ibidem, pag. 19).

La mal celata rabbia della scrittrice si attenua, quando si accorge che tutte le educande stanno schierate oltre il portone e lungo un grande corridoio in attesa del suo ingresso. Dolores non riesce a distinguerle bene perché sono contro luce. La direzione del collegio vuole quasi saggiare la sua preparazione. Le fanno vedere La Crocefissione del Tintoretto. Dolores la conosceva fin da piccola in casa di zio Domenico, sacerdote, ma persona colta che si interessava di arte, di pittura, e di quasi tutto lo scibile umano. Risponde pertanto con sicurezza: “Mi fermai di colpo, come chi smarrito in paese straniero, incontra un conoscente; giunsi le mani e dissi Il Tintoretto. Ritrovavo qualcosa di quella casa da cui violentemente mi avevano fatto uscire per essere educata” (Ibidem, pag. 6).

Del nuovo ambiente Dolores Prato inizia a descrivere tutti i particolari, interni ed esterni : i diversi piani dell’edificio, le camere delle suore, delle educande, la sala d’attesa, il refettorio, la chiesa, il coro. Si sofferma poi, per pagine intere, a descrivere il grande giardino con la molteplicità dei fiori che l’adornano: gli Astri, le Zinnie, la Salvia Splendida, Dalie, Artemisie Fiocchi di Cardinale, Verbena, Mughetto, gli Iris, la Palle di Neve. Mancavano però tanti fiori che la scrittrice aveva sempre amato quando era in casa di Zizì e della zia Paolina: la Peonia, l’Amorino, il Gelsomino, i Gigli di San Giuseppe, i Gladioli e le rose, quelle muscose, care a Dolores Prato. Ritornano continuamente nel romanzo “Campane a Sangiocondo”. Non meno precisa è la descrizione di tutte le colture dell’orto: insalate, finocchi, broccoli e cavoli e degli alberi da frutta: albicocchi, fichi, noccioli, limoni: “Questi ultimi erano scaglionati lungo il viale dai cipressi al pozzo. E noi che facevamo su è giù ne strappavamo una foglia che la spiegazzavamo tra le dita per sentirne l’odore” (Ibidem, pag. 55). Viali, orto e giardino erano fiancheggiati da siepi di mortella.

La Comunità delle Visitandine, che si erano trasferite a Treia da Offagna, era retta dalla Madrina, suor Margherita Maria, al secolo Elvira Masi fino alla sua vestizione nella Comunità della Visitazione di Luca. Era entrata in convento in seguito ad una delusione d’amore. Era nata a Lugo di Romagna. Nel collegio di Treia prevalevano le romagnole, scrive Dolores Prato, tanto che cantavano: “Un cardinal si recò a Lugo di Romagna per visitare in regola le chiese di campagna”. “La Madrina era tutto: amministratrice, generale, economa, esaminatrice delle pretendenti, maestra delle novizie; compilava e faceva stampare le farraginose circolari che si dovevano mandare a ogni monastero visitandino; corrispondeva con l’Arcivescovo e con la Santa Sede; teneva le necessarie pubbliche relazioni col mondo; fittissime quelle con le famiglie della collegiali perché si sa che del collegio era la direttrice” (pag. 68). Era aiutata nel suo lavoro da Maria Teresa dei conti Caccialupi Olivieri, Deposta, anche lei proveniente dal monastero di Offagna. Ambedue le figure erano quasi su un piedistallo, sia per l’autorità di cui godevano, sia per il blasone delle proprie famiglie di origine. I conti Caccialupi Olivieri erano signori di San Severino Marche (MC). Chi aveva ricoperto il ruolo di Madrina e rimaneva nella stessa comunità era la Deposta.

“La Madrina, mai rassegata al fatto di avermi accettato, sfogava il suo disappunto ignorandomi, tenendomi a distanza, qualche volte trattandomi male … Un giorno non resse e con un tono di rimprovero più che di domanda disse: Fate leggere sempre a lei? Risposero più voci tra loro intrecciate. Legge tanto bene. Brusca interruzione della Madrina. No, legge troppo svelta. Perché le corre molto l’occhio disse Olga Manzoni. La Madrina tacque; io continuai a essere la preferita per la lettura e un giorno proprio lei rise di cuore, a lungo, mettendosi la mano avanti alla bocca come faceva quando la risata sprizzava da cosa maliziosa, le compagne pure ridevano, io ero piena di vergogna, avevo certo fatto un errore ma non sapevo quale; finalmente capii, avevo letto Lutero con l’accento sulla lettera u, dovevo leggerlo con l’accento sulla e. Per me ero lo stesso; quella parola con qualsiasi accento fosse, l’ignoravo” (ibidem, pag. 187). La malignità è quasi sempre la compagna del prepotente e del provocatore nato, uomo o donna che siano, laico o religioso. Di tutto quel periodo, scrive ancora Dolores Prato, quelle di Olga Manzoni, è restata una voce amica senza mai affievolirsi.

Tutto il  romanzo è una galleria di personaggi femminili, monache e converse. Mi piace citare, anche per invogliare alla lettura del libro, quelle pagine nelle quali Dolores Prato parla delle poche amicizie durature conosciute nell’Educandato delle Visitandine di Treia: “Antonietta fu la mia grande, anche lei romagnola … Antonietta era l’arzdora, vocabolo del cielo disceso che io pronunciavo asdora, non sapevo che volesse dire, né lo chiesi; forse era quello che nei contadini di Treia è la vergara, la moglie del vergaro, la padrona di casa. Lì dentro non si sarebbe mai legato con Treia; le loro terre erano lontane, in Provenza dov’era sorta la Visitazione; le più vicine in Romagna dove era sorta la Madrina. Un mazzo di chiavi dentro un anello sostenuto da un grosso gancio che Antonietta attaccava alla cintola del grembiule era il segno del suo essere Asdora. Cosa aprissero quelle chiavi non lo so. Ma poterle avere anch’io e appendermele alla cintura, un sogno! Un sogno che s’avverò; l’unico” (pag. 190).

Antonietta e Olga escono dall’Educandato: ”Noi si era nella Galleria – linea – di – mare e mangiavamo la merenda, pane e due piccole pere verdi. Il portone si aprì in fretta, un saluto in silenzio. E la contessa Manzoni stava abbracciando le sue figlie. Il portone si richiuse. Uno strappo vivo, muto, tutto mio, una lacerazione dell’anima e del corpo. Buttai via pane e pere dietro una cassapanca” (pag. 191). Dolores Prato richiama più volte nel libro le trasformazioni del convento volute da suor Margherita Maria, la “Madrina”, che amava abbattere pareti, aprirne altre, abbassare pavimenti, circondarsi di muratori che eseguivano i suoi ordini. Il grande fabbricato, un tempo occupato dalla Clarisse, si distribuiva su più piani. Un lato del convento, addossato ad una scarpata, confinava con una strada esterna, che circondava la mura di Treia. La conformazione del luogo aveva obbligato i costruttori a sbancare questa porzione di terreno e innalzare il fabbricato su più piani. Il piano terra, dove si apriva una grande galleria, in fondo alla quale, una scala portava ai piani superiori, viene chiamato scherzosamente linea di mare, perché era posto sulla linea del mare.

Il posto di Antonietta e Olga viene rimpiazzato dalla sorelle Pichi, di Jesi: Carolina, Iduccia, Giannina e Annamaria. Famiglia altolocata, quella dei Pichi. Il padre Alessandro, “Gran gentiluomo alto e barbuto, era amministratore dei Merighi (marchesi). La madre, signora Giulia, grande scrittrice, non scriveva che lettere famigliari, sicché ufficialmente scrittrice non era” (pag. 193). Dotata di una sottile ironia, Dolores Prato scrive pagine frizzanti sull’educazione, respirata per circa sette anni nel collegio delle Visitandine: “In paese non c’era distinzione di ceto e di censo, non occorreva essere dello stesso luogo, venire dai poli o dall’equatore era lo sesso, bastava essere ragazzi per darsi del tu. Sarebbe stato assurdo che la Moscetta, quando mi svelava il mistero dei fiori di avena, avesse parlato dandomi del lei perché essa una zingara e io una signora. In collegio eravamo tutte ragazze, ma dovevamo darci del lei; meno confidenza più educazione nel tratto, dicevano. Può darsi, ma certe parolette che dovevamo introdurre nel discorrere a me sembravano le unghie della zampa di un gatto non sempre retratte nella loro guaina. Non si doveva rispondere con sì o no semplici, ma aggiungerci una parolina. Le suore facevano presto, dicevano Sì, sorella; anzi per l’esattezza Sorella, sì – sorella no. E noi che eravamo sorelle altro che nell’uniforme, dovevamo dire: Sì, cara, vengo subito. Mi dispiace, cara, ma non posso, le più zelanti non dimenticavano mai questo cara; io non potevo dirlo; se mi si chiedeva un favore lo facevo, ma non ci potevo mettere come prefazione o come chiusa quella strusciatina d’artigli. Non era obbligatorio il cara, si poteva sostituire con sì, poverina. Anche la Madrina, se non era tesa, richiesta di qualcosa come di poter andare in quel posto (cesso) diceva: sì, poverina, la perfezione stava nell’abolire addirittura il sì quando era richiesta di azione, subito, cara” (pag. 210). Nelle lettere si sprecavano parole come: cara, se non le dispiace, dilette sorelle, ottima loro madre. Dolores odiava il sovraccarico inutile di parole false.

La scrittrice raggiunge l’apice dell’ironia, quando, parlando dell’ambiente, scrive: “Ci vestirono da monache apparentemente per divertirci, ma in fondo con la speranza che ci affezionassimo al Sacro Abito. Ne fui oppressa; soffrivo come per mancanza d’aria perché, lo cominciai a capire allora, io respiro con la pelle quasi più che con i polmoni. Le monache non respirano – dissi. La Madrina mi buttò uno dei suoi sguardi pieni di disprezzo solo a me riservati ai quali cominciavo ad abituarmi” (pag. 93). La Madrina elegge sua segretaria Giannina Pichi, appena questa mette piedi in collegio, ha nei confronti di Dolores Prato un’avversione che si stempera con gli anni, quando capisce che ha bisogno anche di lei, soprattutto in occasione delle recite teatrali, durante le quali le Educande sono le protagoniste e le suore della Visitazione sono le spettatrici. Tutti i testi rappresentati hanno protagonisti maschili. Le educande si vestono da maschi, indossando abiti per l’occasione.

Tra le suore esisteva tutta una gerarchia e ruoli diversi: “La giovane che entrava perché voleva monacarsi si chiamava Pretendente, veniva istruita e in parte ammessa alla vita di comunità, non certo al Capitolo. Quando l’autorità la giudicava degna di passare al noviziato, avveniva la Vestizione. Deponeva il vestito laico per assumere il Sacro Abito … Le Sorelle Domestiche addette ai servizi e ai lavori manuali, mutavano lo stesso primitivo stato laicale con quello monastico, per questo erano chiamate Converse … Dopo le Converse venivano le Toriere; loro compito era quello di sbrigare ciò che c’era da sbrigare fuori di clausura. Il Santo Padre aveva stabilito che il loro vestito fosse quello delle zitelle del luogo: sottana, corpetto, zinale e cuffia nera. Le due Toriere della comunità di Treia erano: “Suor Felice e suor Agnese … non erano solo le più ignoranti, ma le sceme del monastero. Come Toriere avrebbero dovuto sbrigare fuori le cose che le suore di clausura non potevano, ma queste, trasferite a Treia, avevano preferito tenersele in clausura piuttosto che mostrarle fuori, non per il loro aspetto, ma per l’inarrivabile stupidità … Abitavano nella Foresteria, una casetta a due piani attaccata al vecchio colosso di fronte alla lunga scalinata, in mezzo c’era la porta di servizio del convento preceduta dal solito vano intercapedine tra i claustrali e i secolari; ci legavano muli e somari che avevano portato le loro some per il convento” (pp. 109 – 110).

Nella parte finale del libro, Dolores Prato si sofferma a lungo nella descrizione delle feste liturgiche, mettendo in risalto le differenze con quanto aveva vissuto in casa degli zii: don Domenico e Paolina Ciaramponi. In collegio tutto era ovattato e vissuto in un modo del tutto finto. “Gli anni di collegio erano lunghi. Natale arrivava quando quell’atro già si tingeva d’azzurro per la lontananza. Quel che ritornava, ritornava dopo tanto tempo. Forse perché allora erano piccoli pensieri, piccoli dolori, non bastavano a riempire il tempo. Lì dentro s’ignorava il momento preciso in cui si passava da un anno all’altro” (Pag. 223).

Dolores Prato riceveva di rado la visita della zia Paolina, ma dall’ingresso nel collegio non aveva più  rivisto lo zio, partito per l’Argentina. Lo stupore fu, quando in un giorno improvvisato, mentre tutte le educande erano a Messa, Dolores distingue nel celebrante, che sta officiando il rito, la voce di suo zio don Domenico Ciaramponi. “Per tutta la Messa ero stata curva, il viso tra le mani per non vedere e non essere vista, ma adesso mi turavo gli orecchi quasi a sfondarli, adesso soffrivo il soffribile” (pag. 213). Dolores in preda all’ansia, al termine della Messa, non riuscendo assieme alla sua amica Caterina a spegnere il lume a petrolio che pende dal soffitto, sventola all’indirizzo del lume, il proprio grembiule per spegnere la fiamma. Il grosso bottone della cintura del grembiule spezza il lume di vetro. La fiamma si spegne, ma vetri e petrolio cadono sul pavimento. Disperata, corre verso la sacrestia: “A scapicollo giù per le scale e fui in sacrestia, piangevo, gridavo, picchiavo nella ruota, non lo vedevo, ma lo zio era a un passo da me: Zizì, ho fatto un disastro, Zizì, portami via” (pag. 215).

Dolores viene portata via e lo zio non va più a dire Messa al convento. La ragazza torna però in casa dello zio per un breve periodo di vacanza. “Tornai a casa e lo zio mi venne incontro tutto sorriso e vita come prima; non era affatto vecchio … Pochi giorni di vacanza; quel tanto che a lui bastasse per rivedermi, per riavermi vicina, ma che io non m’accorgessi che lui si preparava a ripartire per l’America. Vi ritornava per me; per lasciarmi una dote. Aveva settantadue anni. A  casa era tutto come prima, anche il pappagallo quando mi vide sbatté le ali come sempre. Cocò, quel giorno che mi portarono via non vidi neppure te, Cocò, e gli mettevo l’indice tra la morsa del suo formidabile becco, che lui chiudeva senza stringere, accarezzandolo con quella sua lingua grossa, nera e dura. Zizì, cantagli Tigre uscita dai deserti e lui cantò quel feroce pezzo. Zizì, cantagli Mi togliesti a un sole ardente e lui cantò il dolcissimo pezzo. La sua voce era quella di sempre, quella che nacque con la mia presa di coscienza, quella che mi cantava O Lola che di latte hai la camisa” (pag. 216). Zio Domenico riparte per l’America e zia Paolina riaccompagna Dolores in collegio.

In collegio, per le educande, l’otto maggio di ogni anno era il giorno in cui buttavano via la maglia assieme all’inverno. Per Dolores Prato era come una festa. Avvertiva l’aria ventosa, fresca non più fredda, che le accarezzava i capelli. E ad ogni principio dell’estate ritornavano le ciliegie, le cerase, fresche, colorate, ciondolanti. In casa, quelle a coppia, se le metteva a cavalcioni sugli orecchi. In collegio non accadeva mai perché il gesto era simbolo di vanità. “Nulla era più vergognoso di quella parola vuota, vanità” pag. 240). Nell’Educandato invece c’erano fatti e situazioni in cui si pensava alla grande. Ci si doveva vestire alla grande, si facevano merende alla grande. “Nelle merende in grande, la Madrina era una spettatrice, ma spesso se ne andava, la nostra serena festosità non aveva bisogno di sorveglianza” (pag. 241). Altro grande momento di festa era quello dedicato ai santi fondatori della Congregazione. Si approntavano lunghe tavole nella Galleria – linea – di mare; si distribuivano due file di bicchieri, tra queste dei cestelli colmi di fette di pane. Benché non corressero cordiali rapporti tra noi e le suore, o meglio  tra la Madrina e le suore, al trattamento eravamo sempre invitate. Quando ognuna aveva preso posto, venivano le converse con delle brocche e versavano nei bicchieri una limonata che dal limone prendeva abusivamente il nome” (pag. 245 – 246).

A scuole finite e ad esame ultimato, tutte le Educande si trasferivano in campagna, più precisamente nell’orto. La città era l’Educandato, la campagna era l’orto: “Un fabbricato che aveva l’aria di essere stato rabberciato dai muratori poco prima della mia entrata. Era costituito da diverse camere tra cui un immenso stanzone con qualche vecchio banco dove riponevamo ciò che portavamo dalla città. L’entrata era di fronte l’albicocco, attraverso un piccolo ponte che scavalcava il sottostante pollaio; però i si poteva entrare anche dal campanile a cui era stata tolta una parte delle sue dirute adiacenze per metterlo insieme. Dal ponticello si entrava in una stanza grande di per sé, piccola in confronto dell’immenso camerone, quando pioveva si mangiava lì” (pag. 24).

Durante il periodo della Campagna, lo Studio e la Camera da Lavoro, in una parola lo Studentato, diventavano un paese lontano. Tutte le feste dell’estate venivano vissute in campagna: “Il 22 luglio in piena estate con un acquazzone capitava la festa della Madonna … Il 26 luglio era la festa di Sant’Anna; con la stessa sicurezza con cui quattro giorni prima avevamo aspettato la pioggia, aspettavamo le converse che sorridenti e festose venissero nell’orto e guardando in alto come se la santa si fosse affacciata nel cielo, alzando le braccia le dicevano: Mi rallegro sant’Anna mia / siete la mamma di Maria, / siete la nonna di Gesù / mi rallegro sempre più” (pag. 230).  Dolores Prato era contenta di stare in campagna perché poteva stare sola assai più di quanto lo era in città. Il 21 settembre  era la festa di san Matteo. Al 29 settembre con la festa di san Michele, si tornava in città.

Con ottobre riprendeva il “travaglio usato” delle Educande. “Dopo l’ozio e i colori estivi, le prime nebbie fresco umide che velavano le cose vicine, ovattando le lontane, arrivavano come una promessa di pace e di attività”. Il 10 dicembre era la festa della Venuta, a notte, i contadini accendevano i focaracci, ogni casolare un focaraccio. Pareva che il cielo avesse rovesciato sulla terra tutte le sue stelle dopo averle incendiate”. Il focaraccio è il falò che, nella religiosità popolare, doveva illuminare il cammino degli angeli che trasportavano sul colle lauretano la Santa Casa di Nazareth.

Nelle ultime pagine del libro, la scrittrice si sofferma sulle differenze tra l’ambiente educativo e religioso che la piccola Dolores respirava in casa dello zio: “In casa, dopo la prima Comunione, gli zii non si erano occupati né di confessione, né di comunione, ma lì dentro bisognava confessarsi per forza, lì dentro si peccava e prima di ogni confessione si doveva fare l’esame di coscienza, per scacciare tutti i pensieri cattivi” (pp. 265 – 266). Le forzature del collegio pesavano.  Quali fossero questi pensieri cattivi non lo sapevano nemmeno i confessori. Dolores Prato ricorda solo un confessore, un oratoriano di Recanati, padre Benedettucci, al quale riesce ad aprire la propria anima. Il confessore ordinario, il canonico don Raffaele Curzi, meglio dimenticarlo: “Non so che se lo facesse con le altre, ma con me chiacchierava, mi diceva dei suoi malanni con sempre  …” (pag. 269). Il libro termina con questi puntini di sospensione, testimonianza evidente che il romanzo di Dolores Prato sulla vita nell’Educandato delle Visitandine di Treia è del tutto incompiuto. Ci stava lavorando negli ultimi anni di vita. Non riuscì a portare a termine il progetto.

Raimondo Giustozzi

 Copertine dei due volumi Le ore

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