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Quartiere San Marone: Via Seneca, Virgilio, Orazio, Omero, Aristotele, Tacito

Il gotha della cultura greca e latina è raccolta nelle sei vie poste ad Ovest del Santuario San Marone. Via Seneca fino a pochi anni fa, prima che venisse costruita la nuova Chiesa dedicata a Maria Ausiliatrice, iniziava, come ora, da via D’Annunzio, costeggiava il retro dell’Oratorio San Domenico Savio e terminava all’altezza dell’ultima casa. Ora fiancheggia il nuovo edificio sacro e si raccorda con via Orazio, che si innesta con via D’Annunzio. Via Virgilio inizia da via D’Annunzio, incrocia via Omero, ma non ha un’uscita. Un suo prolungamento verso la nuova strada, che è l’estensione di via Seneca, all’altezza della nuova chiesa, sarebbe il progetto più fattibile. Sono solo pochi metri di strada da costruire. C’è poi il nodo da sciogliere: una via pedonale o carrabile che si colleghi alla statale adriatica. Via Omero, strada a senso unico, che inizia da Via Aristotele e termina con la via Seneca, è la parallela di Via D’Annunzio. Via Aristotele dall’incrocio di via D’Annunzio scende verso il fosso del Castellaro e dopo l’attraversamento di via Tacito, altra strada senza uscita, cambia nome e diventa via Abruzzo. Quest’ultima a doppio senso di circolazione, al mattino e nel tardo pomeriggio è la strada più trafficata di Civitanova Marche, in quanto incrocia via Civitanova, strada a doppio senso di circolazione per Civitanova Alta e per il Porto.

Noterelle su Seneca.

Lucio Anneo Seneca nasce a Cordova, in Spagna intorno al IV secolo a. C. Avviatosi verso un ideale acetico di vita, distolto dal padre, abbraccia il foro e la politica, prima sotto Caligola, poi sotto Claudio (che lo condanna all’esilio per sospetto adulterio) e sotto Nerone. Ricchissimo, fu oggetto di aspre critiche e venne anche citato in giudizio. Nel 65, coinvolto nella congiura di Pisone, si taglia le vene. Fra le opere, le più importanti sono: Dialoghi, Della clemenza, dei benefici, De otio e De tranquillitate animi (L’ozio e la serenità), De vita beata (La felicità), Questioni naturali, Epistole morali e nove tragedie.

L’otium (la t si pronuncia z) per i Romani racchiudeva molti significati. Indicava il semplice ozio, il riposo dagli affari, la quiete, il tempo libero, la calma, la pace, ma anche un genere di attività diversa da quella abituale, che costituiva invece il negotium (nec otium, non ozio). Rientrava dunque nell’otiun anche lo studio, che può essere definita una disoccupazione studiosa, la scolè (traslitterato) dei greci, da qui il termine scuola. L’otium di Seneca si riferisce alla vita contemplativa, o, più precisamente, meditativa, non alla contemplazione nel senso di rapimento nella visione mistica di Dio. Seneca seguiva gli insegnamenti dello Stoicismo: Late biosas (traslitterato da Greco), Vivi nascosto. Era anche l’ideale di Epicuro. “Nasceva dalla convinzione che la solitudine e in generale l’uscita dal caos del consesso umano, consentisse di vivere di più, assaporando maggiormente il piacere intero della vita” (Fonte Internet).

Ogni volta che andai tra gli uomini ne ritornai meno uomo di prima” (L. Anneo Seneca, Epist. VII, 3). La stessa dichiarazione sorprendente è contenuta nel libro “Imitazioni di Cristo”. Seneca raccomanda al discepolo Lucilio di evitare la folla: “La frequentazione di molti è dannosa…Ritirati in te stesso quanto puoi; stai insieme con quelli che sono destinati a renderti migliore, accogli quelli che tu puoi rendere migliori”. Queste massime valgono anche oggi. Certamente, la prima affermazione, se presa alla lettera e come principio generale è eccessiva e insostenibile, tanto più fori di moda oggi, perché si obietterebbe subito che, al contrario, stare tra la gente è essenziale per diventare uomini e donne del proprio tempo. Il significato dell’affermazione, in realtà, è più modesto. Vuole mettere in guardia contro la facile alienazione provocata dalla chiacchiera continua che accompagna la convivenza sociale. Si assumono degli atteggiamenti, si fanno delle scelte, ma non si ha mai il coraggio di guardare fino in fondo a noi. Non ci chiediamo mai se il nostro io più vero sia quello che appare in superficie oppure in realtà la nostra identità è ancora tutta da scoprire.

La presenza degli altri è a volte facile motivo di distrazione. Blaise Pascal scriveva nei Pensieri: “Gli uomini non avendo potuto guarire la morte, la miseria, l’ignoranza, hanno deciso di non pensarci per rendersi felici. Tutta la preoccupazione dell’uomo è di dimenticare e di lasciar trascorrere questo tempo così breve e prezioso senza riflettere, occupandosi di cose che impediscono di pensarvi. Da qui nascono tutte le occupazioni tumultuarie degli uomini e di tutto ciò che si chiama distrazione o passatempo, nel quale si ha solo lo scopo di lasciar passare il tempo senza sentire se stessi”. Per scoprire chi siamo, è necessario fermarci, interrompere il ritmo degli impulsi e della vita ed entrare nella nuova dimensione del silenzio e della contemplazione, come suggerisce Seneca.

Noterelle su Orazio

Orazio nasce l’8 dicembre del 65 a.C. a Venosa, colonia romana fondata in posizione strategica tra Apulia (Puglia) e Lucania, allora territorio dauno, attualmente in Basilicata. Fu figlio di un fattore liberto che si trasferì poi a Roma per  fare l’esattore delle aste pubbliche (coactor auctionarius), compito poco stimato, ma redditizio; il poeta era dunque di umili origini, ma di buona condizione economica. A Roma va a scuola dal maestro Orbilius, chiamato dal poeta “plagosus”, manesco.  Orazio muore  il 27 novembre dell’ 8 a. C. e viene sepolto sul colle Esquilino, accanto al suo amico Mecenate, morto solo due mesi prima. E’ autore di 17 componimenti, pubblicati nel 30 a. C., chiamati Epodi (Epodon libri o Iambi, come li definisce l’autore). Compose 18  poesie, dette Satire (Saturae o Sermones, come le definisce l’autore), scritte tra il 41 e il 30 a. C. Il primo libro (10 satire) è dedicato a Mecenate e pubblicato tra il 35 e il 33 a. C. Il secondo libro (8 satire) viene pubblicato nel 30 a. C., insieme agli Epodi. Scrive le Odi (Carmina, come li definisce l’autore) distribuite in tre libri con 88 componimenti, pubblicati nel 23 a. C.. Un quarto libro con altri 15 componimenti viene pubblicato intorno al 13 a. C. Pubblica le Epistole (Lettere) raccolte in due libri. Il primo libro comprende 20 lettere composte a partire dal 23 e pubblicate nel 20 a. C. dedicate a Mecenate, mentre il secondo libro, che contiene 3 lettere, viene scritto tra il 19 e il 13 a. C. e comprende l’epistola ai Pisoni o Ars Poetica in 476 esametri. Il Carme secolare, del 17 a. C. viene scritto dall’autore su incarico di Augusto e destinato alla cerimonia conclusiva dei ludi saeculares (Fonte Wikipedia).

Orazio e la misura delle cose

“…Quid mi igitur suades? Ut vivam Naevius aut sic / ut Nomentanus?. Pergis pugnantia secum /
frontibus adversis conponere: non ego avarum / cum veto te, fieri vappam iubeo ac nebulonem: / est inter Tanain quiddam socerumque Viselli: / est modus in rebus, sunt certi denique fines, /  quos ultra citraque nequit consistere rectum” (Quinto Orazio Flacco, Satira 1, libro 1, A Mecenate: la misura delle cose, Libro 1).  Traduzione: “Che mi consigli allora? Di vivere come Nevio / o come Nomentano? Ti ostini a mettere di fronte cose che fanno a pugni, / quando ti consiglio d’essere avaro, non ti esorto a farti scioperato e scialacquatore. / C’è pure una via di mezzo fra Tanai e il suocero di Visellio: c’è una misura per tutte le cose, ci sono insomma confini precisi al di là dei quali non può esistere il giusto” (Traduzione, fonte Internet). I versi citati sono della satira che inizia con “Qui (Quomodo) fit, Maecenas, ut nemo, quam sibi sortem / seu ratio dederit seu fors obiecerit, illa / contentus vivat, laudet diversa seguentis?”. Come mai, Mecenate, che nessuno vive contento della sorte / che sceglie o che il caso gli getta innanzi  / e loda chi segue strade diverse?

Orazio e la fiducia nel domani

“Inter spem curamque, timores inter et iras /  omnem crede diem tibi diluxisse supremum;  / grata superveniet quae non sperabitur hora” (Orazio, Le Epistole I, 4). Traduzione: “Tra speranza e preoccupazione, angosce e delusioni, / fa conto che quello che vivi sia l’ultimo giorno; / gran gioia ti darà spuntando il domani inatteso”.

 

L’invito di Orazio a cogliere l’attimo

“Tu ne quaesieris, scire nefas, quem mihi, quem tibi / finem di dederint, Leuconoe, nec Babylonios / temptaris numeros. Ut melius, quidquid erit, pati! / Seu pluris hiemes seu tribuit Iuppiter ultimam, / quae nunc oppositis debilitat pumicibus mare / Tyrrhenum, sapias: vina liques et spatio brevi / spem longam reseces. Dum loquimur, fugerit invida / aetas: carpe diem, quam minimum credula postero” (Orazio, Libro 1, Ode 11, carpe diem). Traduzione: “Tu non chiedere, è vietato sapere, quale fine a me, quale a te / gli dei abbiano assegnato, o Leuconoe, e non consultare / la cabala babilonese. Quanto (è) meglio, qualsiasi cosa sarà, accettarla! / Sia che Giove abbia assegnato più inverni, sia che abbia assegnato come ultimo / quello che ora sfianca con le scogliere di pomice che gli si oppongono il mare / Tirreno, sii saggia: filtra il vino e ad una breve scadenza / limita la lunga speranza. Mentre parliamo sarà fuggito, inesorabile, / il tempo: cogli il giorno, il meno possibile fiduciosa in quello successivo” (Fonte Internet).

Note su Virgilio

Virgilio (Andes nel mantovano, 15 ottobre 70 a. C. – Brindisi, 21 settembre 19 a. C. )  è uno dei più grandi poeti latini, autore dell’Eneide, delle Georgiche e delle Bucoliche.

Due versi dall’Eneide: “Tu regere imperio populos, Romane memento: / hae tibi erunt artes, pacisque imponere morem, / parcere subiectis et debellare superbos” (Virgilio, Eneide, VI, 851- 853). Traduzione: “Tu, o Romano, ricorda di governare i popoli: / queste saranno le tue arti, imporre il costume della pace, / risparmiare coloro che si sottomettono ed abbattere i superbi”.

Delle Bucoliche è impossibile non ricordare la prima Egloga, sì quella che inizia così: “Tityre tu patulae recubans sub tegmine fagi”. E’ un dialogo tra due pastori, l’uno Melibeo, l’altro Titiro. Il primo deve abbandonare i propri campi perché la terra, che pure ha coltivato con tanto amore, è stata data ai veterani dell’esercito romano in segno di riconoscenza per aver riportato una brillante vittoria sull’esercito nemico. Il secondo rimane nel proprio campicello, perché una forte raccomandazione a Roma ha deciso così, tanto da paragonare ad un dio la persona che lo ha protetto dallo sfratto: “Deus nobis haec otia fecit”. Un dio ha permesso tutto questo.

Cesare Morpurgo, uno dei più grandi latinisti, ci ha lasciato una mirabile introduzione all’Egloga ricordata. L’incipit del testo dice così: “ Nella gran pace silente della campagna, nella verde piana irrigua del Mantovano tra il Mincio ed il Po, passa come una raffica di tragedia. C’è stata lontana la guerra, la triste guerra fratricida, e ora la prepotente soldatesca s’abbatte su quella povera gente del luogo che della guerra non ha avuto colpa, alla guerra non ha partecipato, non s’è alleata coi vincitori né coi vinti: ha sempre seguitato a coltivare i suoi campi, a mietere il suo grano, a vendemmiare le sue vigne, a condurre al pascolo le sue pecore e le sue caprette: povera gente contenta di quel poco nella serenità del lavoro e del timor di dio. Ed ora, via che se ne dovranno andare, con quel branchetto di bestiole spaurite, con quella grama pecorella che s’ha da reggere tra le braccia perché ha appena partorito là sulla nuda roccia. E cala la sera e le ombre si allungano; tra poco, mentre fumano i comignoli delle poche case coloniche non ancora deserte, si accenderanno le tacite stelle. Addio, dolce casa! addio campi, orti, pomari, greppi, siepi boscose, alberi che stormiscono a tutte le brezze e tubar di tortore e di colombe, chiocciar di galline e trilli di lodole e di rosignoli! Si deve lasciar tutto, si deve andar via per sempre, alla ventura. Ahimé, ahimé, cara terra natia! Così se ne va il buon uomo Melibeo (nome che significa: colui che ha cura dei buoi); ed ecco, sorpresa! Nel passare, nel trascinarsi così, sospingendosi avanti le sue pecorelle, nella malinconia della sera imminente, eccoti là, sdraiato in una sua trasognata, un po’ egoistica felicità, sotto il vasto cascame di un faggio, il vecchio amico, Titiro, che resta, lui non lascia, lui, la sua casa, la siepe di confine, la greggia. C’è un dio, un dio terreno che l’ha protetto, laggiù nella grande Roma. Ed ecco la conversazione amara dei due innocenti, del più fortunato, per ora, e del molto sventurato: di chi resa e di chi va. Da duemila anni a questa parte questa prima egloga è famosa in tutto il mondo e cara a tutti gli uomini colti e ai cuori gentili. V’è trasfigurato in una quasi smemorata aura di sogno un duro evento reale: la spartizione dell’agro cremonese e poi di quello mantovano tra i veterani dell’esercito triumvirale reduce dalla battaglia di Filippi (ottobre 42 a.C.).

Melibeo:

 

“Tìtyre, tù patulaè  recubàns sub tègmine fàgi / silvestrèm tenuì musàm meditàris avèna; / nòs patriaè finès et dùlcia lìnquimus àrva; / nòs patriàm fugimùs: tu, Tìtyre, lèntus in ùmbra / fòrmosàm resonàre docès  Amarỳllida sìlvas…” (Virgilio, I Egloga).  Traduzione: “Titiro, tu, che stai sdraiato sotto il riparo / di un ampio faggio, componi una canzone silvestre / col modesto flauto; io lascio la patria e i suoi dolci / campi; ne fuggiamo via; tu, Titiro, sereno nell’ombra / fai risuonare i boschi del nome della bella Amarilli”.

Titiro partecipa alla tristezza dell’amico Melibeo. Prima di lasciarlo, lo invita a restare ancora: “Hìc tamen hànc mecùm poteràs requièscere nòctem / frònde supèr viridì: sunt  nòbis mìtia pòma, / càstaneaè mollès, et prèssi còpia làctis, / èt iam sùmma procùl villàrum cùlmina fùmant, /màiorèsque cadùnt  altìs de mòntibus ùmbrae” . Traduzione: “Pur con me, tuttavia, potevi passar qui la notte / su verdi frasche coricato; ho qui dolci mele mature, / Ho qui soavi castagne e pur copia di latte rappreso. / Dei casolari campestri ora fumano i tetti da lungi; / Dalle alte vette dei monti più vaste ormai scendono le ombre” (Traduzione, Bignone).

Et iam summa procul villarum culmina fumant / maioresque cadunt altis de montibus umbrae”. Già da lontano fumano i comignoli delle case coloniche (villarum) / e le ombre della sera srotolano dalle alte montagne. Un altro grande poeta della letteratura italiana faceva sua l’immagine della sera con alcuni versi ugualmente indimenticabili: “Già tutta l’aria imbruna, / torna azzurro il sereno, / e tornan  l’ombre / giù da’ colli e da’ tetti, / al biancheggiar della recente Luna” (Giacomo leopardi, Il sabato del villaggio). Nella poesia di Leopardi c’è un elemento in più: la Luna. Un tempo, anche la campagna marchigiana, punteggiata di case coloniche, si prestava alla scena dell’Egloga ricordata. Chi ha una certa età, come chi scrive, la ricorda come è descritta da Virgilio. La poesia non conosce confini geografici.

“Omnia fert aetas, animum quoque; saepe ego longos / cantando puerum memini me condere soles; / nunc oblita mihi tot carmina” (Virgilio, Bucoliche, Egloga IX). Traduzione: Tutto il tempo ci strappa, anche l’anima; / ricordo che spesso da ragazzo trascorrevo, cantando, lunghe giornate; / ora ho scordato tante canzoni. Perché la poesia e alcune pagine di prosa dei classici latini, italiani, greci non possono alimentare la quotidianità dell’esistenza a volte grigia e piatta? Le Egloghe ricordate sopra le ho imparate a memoria negli anni del Liceo e di anni ne son passati veramente tanti.

Note su Omero.

Sul poeta greco esiste tutta una vasta produzione storico letteraria che va sotto il nome di Questione Omerica. Filologi e storici della lingua greca arcaica dibattono da secoli l’attendibilità della composizione dell’Iliade e dell’odissea da parte di Omero e sull’esistenza stessa di quest’ultimo. Molte città, situate tra la Grecia, la Turchia e la costa asiatica che si affaccia sul Mar Mediterraneo odierno, ne hanno rivendicato i natali: Chio, Smirne, Atene, Argo, Rodi, Salamina. Si dice che fosse cieco. I due poemi sono molto diversi tra loro. L’Iliade narra la guerra tra Greci e Troiani, causata, secondo la leggenda, dal rapimento di Elena, moglie del re di Sparta, Menelao, da parte di Paride, figlio del re di Troia. In realtà la guerra scoppiò per motivi commerciali. L’Odissea racconta il lungo viaggio di ritorno di Odisseo (Ulisse), uno dei principali eroi della guerra di Troia, verso Itaca la propria patria, dove lo aspettano la moglie Penelope e suo figlio Telemaco

Nell’Iliade predominano le scene di guerra, di assalti alle navi greche da parte dei Troiani, di feroci combattimenti tra l’uno e l’altro esercito, di grandi eroi: Ettore, Achille, Patroclo, Aiace Telamonio. Sono pochi i momenti di tregua. Uno di questi è l’incontro tra Ettore, eroe troiano, e la moglie Andromaca. L’eroe troiano approfitta di una tregua momentanea e corre verso casa, per stare anche se solo per pochi attimi con la moglie e il figlioletto. Non li trova in casa. La guardiana gli dice che sono usciti entrambi assieme alla nutrice per dirigersi verso le porte Scee, il luogo più vicino al teatro della guerra in atto. Incontra Andromaca, il figlio e l’ancella che ritornano verso casa.

“Finito non avea queste parole / La guardïana, che veloce Ettorre / Dalle soglie si spicca, e ripetendo / Il già corso sentier, fende diritto / Del grand’Ilio le piazze: ed alle Scee, / Onde al campo è l’uscita, ecco d’incontro / Andromaca venirgli, illustre germe / D’Eezïone, abitator dell’alta / Ipoplaco selvosa, e de’ Cilíci / Dominator nell’ipoplacia Tebe. / Ei ricca di gran dote al grande Ettorre / Diede a sposa costei ch’ivi allor corse / Ad incontrarlo; e seco iva l’ancella / Tra le braccia portando il pargoletto / Unico figlio dell’eroe troiano, / Bambin leggiadro come stella. Il padre / Scamandrio lo nomava, il vulgo tutto / Astïanatte, perché il padre ei solo / Era dell’alta Troia il difensore”.

Andromaca chiede ad Ettore di non esporsi troppo verso il nemico. Non vuole rimanere vedova. Il bambino è troppo piccolo per rimanere senza un padre. Lei ha perso il papà, ucciso dallo spietato Achille. Non ha più la mamma, resa schiava dai greci. Gli suggerisce di organizzare la difesa presso le porte Scee e di non portarsi in campo aperto. Ettore le risponde che non può passare per codardo agli occhi dei Troiani. Dopo aver parlato con Andromaca, prende in braccio il figlioletto. Questi  si spaventa alla vista delle armi.

“… Così detto, distese al caro figlio / L’aperte braccia. Acuto mise un grido / Il bambinello, e declinato il volto, / Tutto il nascose alla nutrice in seno, / Dalle fiere atterrito armi paterne, / E dal cimiero che di chiome equine / Alto su l’elmo orribilmente ondeggia. /  Sorrise il genitor, sorrise anch’ella / La veneranda madre; e dalla fronte / L’intenerito eroe tosto si tolse / L’elmo, e raggiante sul terren lo pose. / Indi baciato con immenso affetto, / E dolcemente tra le mani alquanto / Palleggiato l’infante, alzollo al cielo, / E supplice slamò: Giove pietoso / E voi tutti, o Celesti, ah concedete / Che di me degno un dì questo mio figlio / Sia splendor della patria, e de’ Troiani…” (Iliade, Iliade 6, 390-493, l’incontro di Ettore e Andromaca). Il testo in Italiano è di Vincenzo Monti, chiamato da Ugo Foscolo il gran traduttor dei traduttori di Omero, in quanto, non conoscendo la lingua greca, usava la traduzione di altri.

Fotografie rubate. Impazza ancora la scellerata guerra in Ucraina. Una immagine, tra le tante trasmesse in televisione, mi ha colpito qualche mese fa. Un adolescente con la propria bicicletta sta attraversando un sentiero vicino casa. Improvvisamente vede venirgli incontro il papà che ritorna dal fronte, forse a pochi chilometri da casa. Lo riconosce subito. Butta via la bici e gli salta addosso in un impeto di gioia irrefrenabile. L’amore vince ogni cosa. La guerra distrugge e semina odio.

Viaggio in greco è tradotto, traslitterato in lingua italiana, con il termine “Nostos”. La parola nostalgia è la combinazione di due parole greche: nostos (viaggio) e algos (dolore). La nostalgia può essere intesa in senso realistico come dolore, mancanza, ma anche in senso simbolico di desiderio, tensione di conoscenza e di ricerca, e – viceversa – distacco, di esilio di perdita. Telemaco nei primi libri del poema si mette in viaggio per ritrovare il padre Ulisse, che non ha mai conosciuto perché quando era partito per la guerra, lui era appena nato. Ulisse compie il proprio viaggio verso Itaca per riabbracciare la propria moglie Penelope e il figlio Telemaco. Tutti i personaggi dell’Odissea, il fido capraio Eumeo, Euriclea, la nutrice di Ulisse bambino, vivono di nostalgia, tranne i Proci, i pretendenti al trono di Itaca. Il cane Argo muore per la contentezza, perché riesce a rivedere il proprio padrone Ulisse dopo tanti anni di lontananza. L’animale compie anche lui un proprio viaggio, fatto di mancanza e di desiderio: “E Argo la Moira di nera morte afferrò / appena rivisto Odisseo, dopo vent’anni” (Odissea, Libro XVII, il Cane Argo). La Moira in senso lato è il destino di ogni essere umano e animale.

Tutte le vie del Quartiere San Marone sono dedicate a poeti, scrittori, latini, greci, italiani. Altre vie di Civitanova Marche sono dedicate alle regioni italiane, al Risorgimento italiano, ai nomi di navigatori ed esploratori, all’ambiente marinaro (via del timone, carena, remo, conchiglia, ecc.) altre a nomi di santi. Il libro, curato da Eugenio Iacolina, Una via, un nome, una storia, pubblicato alcuni anni fa con il patrocinio del comune di Civitanova Marche, è la risposta al desiderio dell’avvocato Alfredo Squadroni (Sant’Elpidio a Mare 15 giugno 1933- Civitanova Marche, 12 ottobre 2008), manifestato nel corso di una riunione del consiglio comunale per l’attribuzione del nome al viale lungomare Sud, alla medaglia d’oro al V. M. Maresciallo dei carabinieri Sergio Piermanni, morto in seguito ad un conflitto a fuoco con dei malviventi nei pressi della stazione di Civitanova Marche nella primavera del 1977. In quella riunione, l’avvocato diceva: “Spesso, vengono dati alle vie della nostra città, nomi il cui significato profondo e la cui storia vengono ignorati. Potrebbe essere interessante evidenziare, scoprire le ragioni per cui si ricordano un nome o un luogo, portando alla luce il valore ed il significato che essi racchiudono. I luoghi che riguardano l’unità nazionale e risorgimentale; uomini e donne che hanno lottato e si sono sacrificati fino ai nostri giorni per l’ideale patrio; uomini e donne che hanno onorato i vari campi della nostra vita che la mente umana può ricordare, sia italiani che stranieri; luoghi che ricordano atti eroici, battaglie, personaggi illustri della cultura, dell’arte, della navigazione e quant’altro” (Civitanova Marche, una via un nome una storia, a cura di Eugenio Iacolina, pag.2, Civitanova Marche, 2015).

E’ forse fuorviante aver scelto di intitolare uno slargo di Civitanova Marche Alta a Toro Seduto, che non ha nulla a che fare con quanto detto dall’avvocato Alfredo Squadroni. Certo sarà difficile memorizzare il nome di Toro Seduto nella lingua dei Sioux Hunkpapa. Voglio riportare invece una preghiera Apache, per ricordare i nativi americani: “Possa il sole darti / nuova energia di giorno; / possa la luna darti / il riposo di notte; / possa la pioggia / lavar via le tue / preoccupazioni; / possa la brezza / soffiare nuova forza / nel tuo essere; / possa tu camminare / dolcemente nel mondo, / e conoscere la sua bellezza. / Ogni giorno della tua vita” (Preghiera Apache, fonte Internet).

Raimondo GiustozziVia Virgilio incrocio con via Omero

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