di Nino Iacovella
Dal tempo del saggio “Schei” di Gian Antonio Stella sino all’ultimo articolo di Michele Serra sui capannoni industriali abbandonati nel Nord Est, due autori hanno descritto drammaticamente la realtà produttiva, e soprattutto operaia, dell’ex miracolo economico veneto: Vitaliano Trevisan con la sua toccante autobiografia in Works, e Fabio Franzin con la sua poesia scritta proprio da una intera esperienza di vita all’interno della fabbrica. E dall’opera principale “Fabrica” a questo ultimo libro “‘A fabrica ribandonàdha” (Arcipelago itaca Edizioni, 2021, Osimo), Franzin chiude il ciclo letterario che narra di una scommessa economico sociale fallimentare già in partenza: una piccola e media industria trainata dalle svalutazioni competitive e sullo sfruttamento dei lavoratori, una trasformazione valoriale di un territorio che porta, nell’arco di una sola generazione, da Dio a mammona, dalla solidarietà all’egoismo. Uno sviluppo dalle gambe corte che sottrarrà terra fertile alla semplicità contadina di un tempo e porterà alla dirompente forza corruttiva della nuova religione degli “schei”.
Fabio Franzin canta la remissione della classe operaia che non ha via di fuga dalla fabbrica: fabbrica che è il giogo che pesa sui destini delle famiglie proletarie, automatismo che non si riesce a disinnescare nemmeno per sabotaggio. L’autore, in presa diretta all’interno dei capannoni industriali, usa la lingua del suo territorio: il veneto. Suoni e pronuncia e madonne tra lamiere e torni, turni di notte e straordinari tirati al fine settimana sino ad ammattire, sino allo sboom, alla disoccupazione, per non essere considerati più buoni come ingranaggio dal quale estrarre profitto e speculazione. Leggere la poesia di Franzin è indispensabile per rimanere sempre empaticamente connessi alla sofferenza di chi vive nei luoghi di produzione. Quando alla durezza dei ritmi della fabbrica si affiancano gli incubi dell’incertezza sul futuro lavorativo. I mali atroci di una società sempre più sfaldata dove, forse, è possibile intravedere gli ultimi gesti di solidarietà proprio in coloro che condividono la dolorosa esperienza di fabbrica.
Notizia
Coeva al periodo che va dalla stesura di Fabrica (Atelier 2009) e Co’e man monche (Le voci della luna 2011), ‘A fabrica ribandonàdha nasce come una costola, un’appendice del poema operaio negli anni della grande crisi del terzo millennio. È stata scritta durante il periodo di forzata inattività seguita al fallimento dell’azienda che produceva pannelli semilavorati per mobili in cui avevo prestato la mia opera (reparto presse), per oltre un ventennio, e quindi sballottato nel tempo vuoto della mobilità, della ricerca di un nuovo inserimento nella realtà professionale. Vuoto durato quasi tre lunghi anni.
I testi posti in Appendice, nella sezione Te l‘erta del calvario, sui temi succitati, variano da una stesura (poi rivista) di quell’epoca, sino a testi scritti negli ultimi anni, come echi di una realtà che mi vede ancora dentro, ancora ancorato ai gesti delle mani e della si- rena, e anche come una sorta di colloquio sul tema con i poeti più amati.
La crisi è tutt’altro che superata, purtroppo, visto che, un decennio dopo, siamo ancora a registrare la moria di posti di lavoro (causati anche dal sempre più consistente impiego della robotica), e la chiusura di molte attività, sia nel mezzogiorno, come nel nord est del nostro paese, per la delocalizzazione dei siti produttivi in paesi dove la manifattura è a più basso costo.
L’avvento della pandemia da Covid, poi, con i suoi lockdown, totali e parziali, le restrizioni, i ristori statali insufficienti, non faranno che aggravare una condizione già in affanno.
Ci troveremo, perciò, a dover registrare nuove chiusure, nuove “Fabbriche abbandonate”.
In un’epoca in cui siamo un po’ tutti diventati operai, maestranze di un “padrone” invisibile che si impone con le leggi del mercato e della finanza.
Per tutto questo il discorso sul lavoro mi sembra ancora attua- e, e quanto mai stringente.
“La fabbrica abbandonata” è davvero una metafora della nostra epoca. Non solo da intendersi come “opificio dismesso”, ma anche, e soprattutto, come luogo dove è stata dismessa l’etica delle mani, dove è sempre più arduo mantenersi umani. In questi spazi, destinati ormai solo al mero profitto (che è solo e sempre per i vertici delle aziende), dove ciò che è dismessa è persino l’ontologia stessa del lavoro, vedo spolpati sentimenti come l’amicizia, l’altruismo e la solidarietà; al contempo emergono sempre più la competizione, la delazione, l’individualismo, spogliando il luogo che dovrebbe rendere all’uomo la propria dignità, lasciandolo così solo con se stesso a operare, sempre più precariamente, in uno spazio svuotato di simboli, abbandonato a una triste e crudele guerra fra poveri.
Che poi, nella mia esperienza umana, essa sia stata anche il luogo dell’infanzia (nonostante il territorio fosse ancora ricco di prati, alberi, fiumi…), che sia stata un po’ il nostro “parco giochi”, mi sembra non altro che uno fra i tanti disegni del destino.
Tre navate ‘a ‘vea ‘sta nostra
catedràe, tre spazhi grandi co’
fa squasi un canp da baeón;
te quel in mèdho i piàstri, tuti in
spìroea, sacre coeòne del tenpio
sconsacrà, crose de tubi picàr
dai sufìti, l’altàr ièra un bancón
de fèro tut rùdhene. Là se ‘ven
fat un catechismo nostro, pìcoi
santi, co‘e stigmate tii dhenòci.
Tre navate aveva questa nostra
cattedrale, tre spazi enormi quasi
come un campo di calcio; in
quello centrale i pilastri, tutti in f
ila, sacre colonne del tempio
sconsacrato, crocifissi di tubi a pendere
dai soffitti, l’altare era un bancone
di ferro arrugginito. Là ci siamo
fatti un catechismo tutto nostro, piccoli
santi, con le stimmate sui ginocchi.
***
Un dì de piova, intànt che ‘l ne
scanpéa via – sé coréssi drioghe
senza un parché o ‘na gara, cussì,
pa’ far ganba e mùscoeo – ‘Berto l
’é cascà sora un pierón, un fèro
de l’armadhùra el ghe ‘à sbusà un
polpàcio, passà da fòra par fòra
tea carne. Intànt che lo menéssi
a spàea casa sua tut pàidho, pensàr
a Gesù, ai ciòdhi, ai nostri pecàdhi.
Un giorno che pioveva, mentre stava
scappando – ci correvamo dietro
senza una ragione o una gara, così,
per far gamba e muscolo – Alberto
cadde sopra un blocco di pietra, uno spuntone di ferro
dell’armatura gli si conficcò
in un polpaccio, trapassando
le carni. Mentre lo accompagnavamo
a spalla a casa sua tutto pallido,
pensare a Gesù, ai chiodi, ai nostri peccati.
***
Zhèrte zornàdhe de sol vignéa
drento fasse de ciaro sbièghe
in fra i denti dei fénestroni roti;
lame de mièl ‘ndo’ che pólvara
e moscati zoghéa a missiàrse su,
senza pase. Sgarpìe negre picàr
dai sufìti, ‘fa tende sbrindeàdhe
de un luto che no’l ne tochéa. Fra
chee strisse ieréssi oro e suìto dopo
onbrìe. Cussì ’é stat anca fòra da là.
Certe giornate di sole penetravano
fasce di luce oblique
fra i denti aguzzi dei lucernari infranti;
lame di miele dove polvere
e moscerini giocavano a far galassia,
senza requie. Ragnatele nere pendere
dai soffitti, come tende sbrindellate
di un lutto che non ci toccava. Fra
quelle strisce eravamo oro e subito dopo
ombra. Così è stata anche la vita
***
Dopo sen stadhi fracàdhi drento
aa furia del far, voénti o noénti.
Formìghe del nord-est, del gran
miràcoeo; ore e straore, schèi e
sudhór, el sabo de sera ‘na corsa
pa’ ciorse indrìo ‘a vita, el cuor.
Moeàdhe ‘e bici che ‘à fat sigsag
fra i piastri; al só posto ‘e moto
enduro, ‘e Alfa e ‘e Golf che òni
tant finìa contro un platano duro.
Poi fummo spinti dentro
alla furia produttiva, volenti o nolenti.
Formiche del nord-est, del grande
miracolo; ore e straore, soldi e
sudore, il sabato sera una corsa
per riprenderci indietro la vita, il cuore.
Abbandonate le bici che zigzagarono
fra i pilastri; al loro posto le moto
enduro, le Alfa e le Golf che ogni
tanto si schiantavano contro un platano duro.
***
Sbàre, crose
(Visitare le fabbriche è come visitare le prigioni)
Czesław Miłosz
Ma ‘lora ‘ndov’ée ‘ndadhe ‘e sbare
che ‘vea da èsser fisse qua te ‘sti quari
scuri, incrosàdhe e rùdhene? Chi ‘o
che le ‘à stacàdhe via, che ‘l se ‘e ‘à
portàdhe casa, sora ‘e spàe, tel calvario
dee scàe, a sgrafàr i muri drio i coridòi,
far cristi in serie mai stadhi boni de far
miràcoi, a scontàr ‘na colpa che no’ i sa,
che no’ i capisse? Che ‘na fabrica ‘a ghe
somejiésse a ‘na presón, quel sì che i ‘o
savèa, mai i ‘varàe pensà de ‘verla drento
de lori, ‘na volta ‘assàdha, ‘na volta liberi.
Sbarre, croci
Ma allora dove sono finite le sbarre
che dovevano esserci qui, fitte, in questi finestroni
neri, incrociate e arrugginite? Chi mai
le avrà staccate, se le sarà
portate a casa, sulle spalle, nel calvario
delle scale, a graffiare le pareti lungo i corridoi,
creare cristi in serie mai stati capaci di compiere
miracoli, a scontare una colpa che non sanno,
e non possono comprendere? Che una fabbrica
fosse simile a una prigione, quello sì che lo
sapevano, mai avrebbero immaginato di conservarla dentro
di sé, una volta lasciata, una volta liberi.
***
Co’ste man
(Tanta fatica s’è fatta
per arrivare sin qua)
Franco Fortini
Co’ste man, ‘e stesse che ‘dèss scrive,
‘ò segà, fresà, ciapà in man panèi
de legno, invidhà, sbusà, scocetà,
incoeà, inpacà, sièlt e scartà, bordà,
stucà, ritocà, segnà, fregà e inbaeà
par pì de trenta àni. Co’ste man
‘ò carezhà mé fémena e mé fiòi,
‘a front de mé pare co’ l’é mort.
‘Dèss me ‘e mete contro el muso,
davanti ‘i òci. No’ò pì nianca
el coràjo de vardàrme al spècio,
nianca el coràjo de farme ciao.
Con queste mani
Con queste mani, le stesse che ora scrivono,
ho segato, fresato, afferrato pannelli
di legno, avvitato, forato, bloccato col nastro adesivo,
incollato, impaccato, scelto e scartato, bordato,
stuccato, ritoccato, segnato, levigato e imballato
per più di trent’anni. Con queste mani
ho accarezzato mia moglie e i miei figli,
la fronte di mio padre quando è morto.
Adesso me le premo contro il viso,
davanti agli occhi. Non ho più neanche
il coraggio di guardarmi allo specchio,
nemmeno il coraggio di salutarmi
***
Miràcoi?
Vegnerà el vero Cristo, operajo
Pier Paolo Pasolini
El vegnarà, sì. Vero davéro?
mah. E sarà za massa tardi.
Sora i busi dei ciodi guanti
e scarpe col puntàl de fèro.
Sora quei dee roe un casco
de plastica zàea; a ‘scónder
el sbrègo vèrt tel costato
‘na felpa blè, un marchio.
No’ lo riconosserà nissùn,
e nissùn pì lo ‘spetéa, romài,
drento ‘ste quatro mura grise,
fra ‘ste machine che sufia.
I ‘o metarà là a ciapàr tòchi.
Òto, dièse dì de contràto.
Dopo un fià se ghe spiega
che ‘e prediche el vàe pur
a farle da ‘n’antra banda,
che no’ven tenpo da pèrder.
Miràcoi? seh! saràe za tant
se i ne tignésse qua fin nadhàl
Miracoli?
Verrà, sì. Vero davvero?
mah. E sarà già troppo tardi.
A coprire i fori dei chiodi guanti
e scarpe con la punta di ferro.
Sopra quelli delle spine un casco
di plastica gialla; a nascondere
lo squarcio aperto sul costato
una felpa blu, un logo.
Non lo riconoscerà nessuno,
e nessuno più lo attendeva, ormai,
fra queste quattro mura grigie,
fra questi macchinari che ringhiano.
Lo metteranno là a prendere pezzi.
otto, dieci giorni di contratto.
Dopo un po’ gli spiegheremo
che le prediche vada pure
a farle da un’altra parte,
che non abbiamo tempo da perdere.
Miracoli? sì! sarebbe già tanto
se ci tenessero qui sino a natale.
***
Inverno del ‘18, Fronte Occidentàe
Un sècoeo dopo Caporéto, no’ l’é
pì drio sentieri ièrti in fra ‘e cròdhe,
rive de fiumi zheèsti o rossi de sangue,
fra bufere de neve te stepe infinìdhe
che se vede ‘a disfàta de un pòpoeo,
ma tee stazhión dee nostre cità, tee
piazhe desoeàdhe dei paesi, davanti
ae vetrine inpolveràdhe dee botéghe
seràdhe, tee panchine mèdhe rote
de parchi intitoeàdhi a chissàchi
che ‘sto esercito de sbandàdhi se
cura ‘e ferìdhe. E come un sècoeo
fa, mandàdhi al fronte co’ divise
da poc: i pì zóvani co’ felpe o pail
cioti in saldo aa Decathlon, gins
coi risvoltini o braghe cargo bèis
de l’A&M; i pì veci, giè inbotìdhi
co’a marca de l’azienda che li ‘à
‘assàdhi casa, caschi de lana scura,
scassèe colme de siénzhi e scontrini.
Òmini ferìdhi a colpi de spred,
cascàdhi drento agenzie interinài,
da l’ultima manovra de ‘utùno,
o persi parché el grosso dea trupa
l’é stat spostà in Poeònia o Romania.
Soldàdhi restàdhi indrìo, che no’ sa
pì star al passo dea marcia. Armàdhi
sol de bire e ansie. Amàdhi da nissùn.
Inverno del ‘18, Fronte Occidentale
Un secolo dopo Caporetto, non è
più lungo sentieri erti fra le rocce,
rive di fiumi azzurri o rossi di sangue,
fra bufere di neve in steppe infinite
che si scorge la disfatta di un popolo,
ma nelle stazioni delle nostre città, nelle
piazze desolate dei paesi, davanti
alle vetrine impolverate di negozi
chiusi, nelle panchine malconce
di parchi intitolati a chissà chi
che questo esercito di sbandati si
lecca le ferite. E come un secolo
fa, mandati al fronte con misere
uniformi: i più giovani con felpe o pile
acquistati in saldo alla Decathlon, jeans
coi risvoltini o pantaloni cargo beige
dell’A&M; i più maturi gilè imbottiti
col logo dell’azienda che li ha
licenziati, caschi di lana scura,
tasche colme di silenzi e scontrini.
Uomini feriti a colpi di spread,
caduti dentro agenzie interinali,
dall’ultima manovra d’autunno,
o persi perché il grosso delle truppe
è stato dislocato in Polonia o Romania.
Soldati di retrovia, che non sanno
più stare al passo della marcia. Armati
solo di birre e ansie. Amati da nessuno.
***
Sen come chee ramàzhe
Son ‘pena ‘tornà casa da una
de ‘ste manifestazhión contro
‘a crisi dei sindacati, i me ‘à
anca regaeà ‘na majia co’a scrita
rossa IO RESISTO tel davanti
i me ‘à mess in man ‘na bandiera
da sventoeàr parché par che sie
anca ‘a RAI, co’e só telecamere,
in piazha, e ‘lora bisogna far ciasso,
i dise, co’ vose, tanburi e coeóri.
…………………………………
IO RESISTO, sì, ma ‘l magón
che ‘ò drento, no’ basta slogan
de riscossa o un spritz insieme
pa’ pararlo zó, pa’ far speranza.
Cussì passéjie drio ‘a Livenza,
te ‘sto dì de dizhenbre, griso,
de piovéta fina, e fissa, camìne
e varde ‘e rive, l’aqua bassa,
‘e nutrie e ‘e ànere, ‘e nùvoe che
passa lente sora ‘a lastra sbusàdha.
Noàntri sen quei che ‘a fat serf
tea colma, quei che ‘a fat grando
el nord-est: ore e straore drento
i capanóni, sabo e domenega,
turni e nòt parché o cussì o cussì,
lavoro ‘a nostra scuòea, dovér
e testa bassa, dó schèi al dièse.
………………………………….
‘Dèss sen come chee ramàzhe
negre, longo ‘a sponda, nude
de fòjie, brute e spazhe, coeór
dea rùdhene, del paltàn, co’ tute
chee scoàzhe picàdhe, strazhe
de nàilo. Resti dea bubana che
l’aqua l’à ‘assà là, co’a magra,
co’a storia, ‘l destìn se ‘à revessà.
Siamo come quei cespugli
Sono appena tornato a casa da una
di queste manifestazioni indette
dal sindacato contro la crisi, mi hanno
anche regalato una maglietta con la scritta
rossa IO RESISTO sul davanti
e mi hanno messo in mano una bandiera
da sventolare perché pare sia presente
anche la RAI, con le sue telecamere,
in piazza, e allora bisogna far chiasso,
ci dicono, con voce, tamburi e colori.
…………………………………
IO RESISTO, sì, ma il magone
che ho dentro, non bastano slogan
di riscossa o uno spritz in compagnia
per digerirlo, per infondere speranza.
Così passeggio lungo la Livenza,
in questo pomeriggio di dicembre, uggioso,
di pioggerella fitta, cammino
e guardo le rive, l’acqua bassa,
le nutrie e le anatre, le nubi che
scorrono lente sopra quella lastra bucherellata.
Noi siamo quelli che hanno fatto surf
nel benessere, quelli che hanno
fatto grande il nord-est: ore e straore dentro
i capannoni, sabato e domenica,
turni e notti perché o così o così,
lavoro la nostra scuola, dovere
e testa bassa, due soldi il dieci.
………………………………….
Ora siamo come quei cespugli
scuri, lungo l’argine, nudi
di foglie, spenti e lerci, del colore
della ruggine e del fango, con tutta
quell’immondizia appesa, stracci
di nylon. Resti della cuccagna che
l’acqua ha deposto là, con la magra,
quando la storia, il destino si sono capovolti.
***
‘Ndé a dirghe
(copiando “I bu” di Tonino Guerra, 50 anni dopo)
‘Ndé a dirghe ai mé coèghi
operai che romài ‘a ‘é finìdha,
che el só lavoro no’l serve pì,
che incùo se fa prima coi robò.
E po’ fen fenta che ne fae pecà
pensàr aa fadhìga che i ‘à fat,
(come i bò, prima e dopo de lori)
vardàndoi ‘ndar, a testa bassa,
drio ‘a corda longa dea crisi.
Andate a dire
Andate a dire ai miei colleghi
operai che ormai è finita,
che il loro lavoro non serve più,
che oggi si fa prima coi robot.
E poi fingiamo ci faccia pena
pensare alla fatica che hanno fatto
(come i buoi, prima e dopo di essi)
guardandoli andare, a capo chino,
lungo la corda lunga della crisi.
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