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Civitanova Marche, quartiere San Marone: la fabbrica di bottiglie di Porto Civitanova e la fornace Ceccotti. Fabbrica delle bottiglie

Via della vetreriadi Raimondo Giustozzi

Era il luglio 1888, quando Ambrogio Faccio, professore di Scienze, arrivava da Milano a Porto Civitanova con la moglie Ernesta Cottino e i quattro figli: Rina, Corinna, Iolanda e Aldo. Era stato chiamato dal marchese Claudio Sesto Ciccolini a dirigere la fabbrica di bottiglie, in qualità di direttore dei lavori prima e della produzione poi. Belle le pagine lasciate dal compianto Ricciotti Fucchi sull’arrivo in treno della famiglia Faccio a Porto Civitanova, pubblicate nell’articolo: Sibilla Aleramo, Gli anni civitanovesi di un’insigne poetessa e scrittrice, in “Civitanova Immagini e storie”, n° 1, Civitanova Marche, giugno 1987.

La fabbrica iniziava la produzione il primo gennaio 1889. Gli spazi d’uso della fabbrica erano così distribuiti: al piano terra il magazzino, le materie prime e gli impiegati, al primo piano il capannone con il forno fusorio, uno soltanto a bacino nel 1888, al quale se ne aggiunse un altro nel 1908, sei forni per la ricottura, come è possibile notare dalle carte intestate della ditta società anonima per azioni con sede a Milano, amministratore il marchese Claudio Sesto Ciccolini, la direzione tecnica affidata all’ingegnere Ambrogio  Faccio.

La produzione ammontava a 6.000 bottiglie al giorno, 1.440.000 all’anno, per 240 giorni lavorativi, nei mesi estivi lo stabilimento veniva chiuso, licenziati gli operai senza nessuna sicurezza per la riassunzione all’inizio della stagione successiva fissata per la metà di settembre. Il trasporto dei materiali indispensabili per alimentare la produzione, avveniva per ferrovia: 700 vagoni all’anno scaricavano nella fabbrica di bottiglie: carbon fossile, solfato di soda, manganese, terre refrattarie, ferro, vimini, paglia di imballaggio. Un piccolo tronco ferroviario, superato un ponticello, ancora visibile fino ad alcuni anni fa, nei due piloni laterali, entrava all’interno dell’area dove sorgeva la fabbrica. La strada ferrata, nella tratta Ancona Pescara, era stata inaugurata nel 1863, quella per Macerata Fabriano era stata aperta nel 1884.

Nella fabbrica di bottiglie di Portocivitanova, all’apertura (primo gennaio 1889) lavoravano 70 operai, 30 indigeni e 40 provenienti dall’Italia settentrionale, l’età media sui trent’anni, molti i celibi, 48 su 70, soprattutto forestieri. Iniziata la produzione, il numero di operai alla fabbrica di bottiglie cresce di anno in anno, con qualche calo in momenti particolarmente difficili per l’azienda: 186 operai nel 1890, 122 nel 1892,167 nel 1893,195 di cui 19 donne nel 1894, 187 di cui 22 donne nel 1895, 204 di cui 23 donne nel 1896, 215 nel 1897, 186 nel 1900, così divisi: 19 maestri soffiatori, 19 gran garzoni, 19 levavetro, 29 portantini. 59 addetti al magazzino, di cui 30 donne, più sovrintendenti al  forno, guardia sala, addetti alle caldaie, imboccatori, impilatori, gazieri, fabbri, carrettieri, carbonai, 5 commessi, una guardia allo stabilimento. Il numero più alto degli operai è del 1902, 235 unità e del 1913, con 400 operai di cui 150 provenienti da Civitanova Alta.

La fabbrica rimaneva chiusa nel corso del quinquennio 1915- 1920. Riapriva e nel 1925 arrivava ad avere 215 operai, nel 1928 chiudeva definitivamente la produzione. In fabbrica, prima della costituzione della lega dei bottigliai, non esisteva nessuna difesa sindacale, si poteva essere licenziati da un momento all’altro, sottoposti ad una disciplina ferrea durante le ore di lavoro, multati se si arrivava in ritardo, per lavoro difettosi e naturalmente per sciopero, tanto per ogni operaio che si licenziava o veniva licenziato, il direttore ne  trovava sul mercato quanti ne voleva. La manodopera abbondava, l’alternativa per chi era senza lavoro era l’emigrazione in Argentina o in Brasile, le campagne si andavano letteralmente spopolando.

All’interno della fabbrica, i salari erano molto differenziati. Levavetro, gran garzoni e maestri soffiatori lavoravano a cottimo, mentre portantini ed altri operai venivano pagati a giornata. Nel 1905 i maestri soffiatori prendevano 10.50 lire al giorno, i gran garzoni 4.50 lire, i Levavetro 2.50, i portantini 1.60 lire al giorno se erano ragazzi al di sopra dei 17 anni, una lira se al di sotto di quella età. Tra i portantini c’erano anche i ragazzi, dodici, di età inferiore ai 15 anni, secondo una lettera di Ambrogio Faccio dell’Aprile 1889, sei mesi dopo ne erano venti. Lavoravano dalle sei alle sette ore al giorno, secondo le dichiarazioni dell’ingegnere, non si sa se dichiarate in buona fede. E’ naturale poi che il pagamento a cottimo ed a giornata era pensato proprio per spezzare il fronte di lotta degli operai, cosa che non riuscì affatto alla direzione della fabbrica, anzi rinsaldò ancor più la volontà di combattere contro i soprusi e le ingiustizie. Quelli che lavoravano a cottimo avrebbero dovuto chiedere, nelle intenzioni del Faccio, che la produzione fosse alta perché più pezzi producevano, più alto era il salario, gli altri erano pagati a giornata e non erano interessati alla quantità perché percepivano lo stesso salario, sia che la produzione fosse alta, sia che fosse bassa.

L’atteggiamento del Faccio verso gli operai, molti di loro, contadini inurbati o pescatori, era di assoluto disprezzo, perché lenti ad apprendere e incivili. Le maestranze erano tutte di origine piemontese, lombarda, qualcuno veniva dalla Spagna. Questo comportamento però era assai diffuso in quel tempo presso tutti i dirigenti d’azienda ed in tutte quelle aree toccate dall’incipiente industrializzazione. Si voleva fare subito e senza mezzi termini, di colui che fino a poco tempo prima aveva regolato il proprio lavoro e la propria esistenza sui ritmi delle stagioni, sia che lavorasse in campagna, sia che lavorasse in mare, un operaio efficiente pronto a chinare la testa ad ogni ordine del suo superiore, tutto doveva essere sacrificato insomma sull’altare della produttività.

“Il tempo umano cambiava estensione ed entrava in una dimensione esclusivamente produttiva,  mentre il vecchio mondo, fosse da rimpiangere o no, moriva malinconicamente e simbolicamente nelle latrine di una fabbrica, quella dei Caprotti di Ponte Albiate, nel milanese, primo grande esempio di tessitura, dove diversi operai fino a poco tempo contadini, in evidente difficoltà di fronte ai ritmi di produzione imposti dalle macchine, presero a nascondere nelle latrine della ditta, parte del cotone che non riuscivano a lavorare secondo la quantità imposta dai dirigenti” (Roberto Romano, I Caprotti, l’avventura economica ed umana di una dinastia industriale della Brianza).

Scrive anche lo storico Raffaele Romanelli: ” I regolamenti severissimi, le sanzioni disciplinari, i rituali di comportamento imposti nelle fabbriche dell’epoca sembravano concepiti per trasformare le abitudini di vita, atteggiamenti e l’intera personalità del contadino appena inurbato che si riteneva per questa sua natura tardo ad apprendere, tendenzialmente incivile ed amorale, educandolo ai nuovi valori di una gerarchia meccanica in cui l’etica del lavoro era rigorosamente misurata in termini di sfruttamento umano” ( Cfr. R. Romanelli, L’Italia Liberale, Il  Mulino, 1979). Il Faccio non potendo accusare gli abitanti del luogo come amorali, li apostrofava in termine dispregiativi come ipocriti, aveva minacciato anzi di licenziarli tutti e di sostituirli con operai fatti venire appositamente dal settentrione; a questa minaccia si oppose il padrone della fabbrica, il marchese Claudio Sesto Ciccolini, per motivi economici e di opportunità.

Gli operai scendevano in sciopero per chiedere salari migliori, riconoscendosi nella locale Camera del Lavoro fondata tra gli altri da Michele Alfredo Capriotti, il giovane avvocato che sposerà civilmente la secondogenita del Faccio, Corinna, sfidando quest’ultima le ire del padre, che rassegnate le dimissioni da direttore della vetreria in favore di Ulderico Pierangeli, andò a Roma per tentare una improbabile attività di floricoltore.

L’Archeologia Industriale.

L’archeologia industriale è ricerca, osservazione, interpretazione, tutela dei resti fisici lasciati dall’industria nel territorio. E’ osservazione di oggetti e si avvale per definizione di un metodo di ricerca interdisciplinare che comprende la lettura del “Monumento Industriale”. Dal punto di vista della storia economica, tecnologica, sociale, dell’arte e dell’architettura, “Monumento Industriale” può essere un opificio, una macchina, ma anche infrastrutture come ponti, canali, dighe, linee ferroviarie, strade, villaggi operai, semplici modificazioni del paesaggio e del territorio provocate dalla presenza e dalle esigenze dell’industria.

Nell’opinione pubblica e più in quelle aree che hanno conosciuto un debole processo industriale rispetto ad altre aree dove il fenomeno ha lasciato molte tracce, basti pensare alla Lombardia, regione leader della prima industrializzazione, stenta a farsi strada l’idea che l’archeologia non è solo la scienza che studia i resti delle civiltà antiche, ma anche quelli dell’industria, nonostante quest’ultima sia un prodotto della storia degli ultimi cento anni. E’ anche vero che l’archeologia industriale è una scienza, sempre che così si possa chiamare, nata solo di recente. La sua storia inizia in Inghilterra nella prima metà degli anni cinquanta ed in Italia è ancora più giovane. Risale solo al 1977 la fondazione a Milano, di una società italiana per l’archeologia industriale.

Anche la storiografia più recente, in particolare quella che trae ispirazione dagli storici francesi degli Annales, ha favorito, presso un pubblico sempre più vasto, l’interesse verso questa nuova scienza. E questo è un bene. Se la storia non è più considerata solo come un insieme di fatti i cui protagonisti sono i grandi personaggi, ma come “Storia totale” che comprende e considera ogni campo della attività umana, lo storico deve analizzare ogni cosa che reca l’impronta dell’uomo, gli appartiene, gli serve, lo esprime, ne dimostra l’attività, i gusti ed i modi.

La storia quindi, per questa nuova corrente di pensiero, la si può scrivere anche senza documenti scritti se non ci sono, ma con parole, segni, paesaggi, tegole, forme del campo, erbacce, con le eclissi di luna e gli attacchi dei cavalli da tiro, con oggetti, utensili, abitazioni, abbigliamento, tecniche di produzione, monumenti storico industriali, prezzi del grano, malattie, carestie, pestilenze, con tutte le costrizioni materiali che gravano sulla vita dell’uomo ed alle quali lo stesso oppone una risposta che è appunto quella della cultura materiale. E’ sull’onda di questo taglio storiografico dato al “fatto storico” che sono sorti i musei delle tradizioni ed arti popolari, quelli della civiltà contadina, della seta, del cappello, del legno, della scarpa e di tutte quelle attività che hanno caratterizzato un territorio e la società che vi si è sviluppata.

Il territorio di Civitanova Marche non possiede grandi “monumenti industriali” degni di questo nome, eppure la cittadina ha ospitato in un passato non lontano: una fabbrica di bottiglie, la SACMC (Società Costruzioni Meccaniche Adriano Cecchetti), diventata poi SGI (Società Gestione Industriale), conosciuta da tutti come la “Cecchetti”. Della fabbrica non è rimasto più nulla, ma alcuni importanti servizi ad essa collegati sono rimasti. Basti pensare alle case operaie Cecchetti di via Parini, all’asilo Cecchetti, ora sede della “Casa della Carità don Lino Ramini”, completamente ristrutturato al suo interno mentre l’esterno è rimasto qual era, all’edificio nel quale un tempo erano gli uffici dell’INAIL, per diversi anni occupato dal Liceo Toscanini. Il tornio per sale montate, uscito nel 1862 dalla fabbrica di Graffenstaden, un ridente paesino della Lorena, poco distante da Strasburgo, recuperato grazie all’intervento dell’imprenditore Giuseppe Faggiolati, giace per il momento in un angolo non ancora edificato, dove un tempo c’era il magazzino della SACMAC, in attesa del museo cittadino, come detto in un altro articolo.

 

L’area dietro alla stazione ferroviaria, ora adibita a parcheggi, era ricca di manufatti legati alla prima industrializzazione della cittadina: fabbrica di bottiglie, fonderie e la fornace Ceccotti. Ora E’ estremamente difficile leggere visivamente ed immaginare l’intero complesso della Ceccotti, peggio ancora il fabbricato della fabbrica delle Bottiglie dove era direttore Ambrogio Faccio, papà di Sibilla Aleramo, al secolo Rina Faccio. Il vecchio forno fusorio, con l’alta ciminiera e gli altri forni di ricottura sono andati distrutti nel corso dei bombardamenti della seconda guerra mondiale.

Molti resti fisici della fornace Ceccotti, le “gambette”, dove si mettevano ad essiccare i mattoni, ancora esistenti attorno al manufatto, sono coperti da una fitta vegetazione, da materiali inerti, da capannoni nati successivamente e da abitazioni situate lungo la via Marconi che porta alla stazione. “I due fratelli Ceccotti possedevano una fornace a Fontespina, Balduino Ceccotti ne divenne l’unico titolare nel 1921. Nello stesso periodo, in via della Vetreria, dietro la ferrovia e poco lontana dalla chiesa di San Marone, esisteva la Società Anonima Fabbrica Laterizi, che, nel 1924, mutò il proprio nome in Fornace di Porto Civitanova, la cui proprietà apparteneva alla ditta Adriano Cecchetti & C. La fornace produceva mattoni pieni, e forati, pianelle, pianelloni, tegole marsigliesi e coppi. Per tutto il ventennio, Adriano Cecchetti risulta esserne il titolare. Balduino Ceccotti rileva l’attività, messa in liquidazione già nel 1932, viste le continue richieste di Ettore Sanvito al Comune di Porto Civitanova per il saldo delle fatture, al fine di chiudere le operazioni di contabilità. Ceccotti diventa proprietario della fornace nel 1939, chiudendo quello di Fontespina” (Cfr. Marco Diomedi, San Marone, Quartiere industriale e residenziale a ridosso del centro urbano, pag. 59, in Civitanova Immagini e Storie, vol. 9°, Civitanova Marche, 2001).

Tutto il complesso era di notevoli dimensione, basta vederne oggi i resti. I numerosi corpi di fabbrica ospitavano le varie fasi del processo produttivo: formatura, essiccazione, cottura e stoccaggio. Non mancavano poi spazi adibiti a funzioni amministrative e residenziali. La struttura era in laterizi, la copertura del tetto in legno. Il forno Hoffman, del tipo a teste mozze, è lungo sessantacinque metri, il rivestimento esterno è in argilla. La fornace garantiva lavoro a circa centocinquanta famiglie; nel 1946 aveva una produzione giornaliera di ben ottantasette mila mattoni e questo è continuato fino al 1980, quando è iniziato il periodo irreversibile della sua crisi. Dal 1980 ad oggi si sono succeduti diversi progetti per il recupero di tutta l’area ma senza arrivare ad alcunché.

La fornace Ceccotti.

Ceccotti “preferì spostare il proprio stabilimento nella zona vicina al Santuario di San Marone perché poteva utilizzare l’argilla estratta dalla cava che si trovava nelle immediate vicinanze, tra l’impianto stesso e il cimitero. L’argilla estratta veniva trasportata mediante vagoncini su rotaie nel sito per una prima essiccazione che avveniva su appositi stampi. Successivamente veniva cotta in appositi forni, dove il fuoco ardeva ventiquattro ore su ventiquattro per otto- nove mesi, in modo continuativo. La produzione non era sempre costante, così si potevano verificare continuamente delle assunzioni e licenziamenti anche nello stessi anno” (Ibidem, pag. 59).

Spesso l’argilla veniva scavata lontano dalla fornace. Ricordo che in una porzione di terreno ricco di argilla di alta qualità, in località Maragatta, di fianco alla strada che conduce da Santa Lucia di Morrovalle a Macerata, passando per il torrente Trodica e andando verso la villa Lucangeli, lavorava per più ore al giorno un trattore con la ruspa e lo scavatore. Al comando del mezzo c’era Umberto Bellesi. L’argilla, scavata e ammucchiata su un lato, veniva caricata su camion che facevano la spola tra il sito e la fornace Fermani di Piediripa, frazione di Macerata. Avere la cava d’argilla vicino alla fornace, come nel caso Ceccotti, permetteva di risparmiare tempo e aumentare la produzione.

La lettura del “Monumento Industriale” e di ciò che ne resta, in questo caso la fornace in questione, rimanda ad uno studio della produzione nelle sue diverse fasi di lavoro, al ruolo della macchina nel processo produttivo, all’architettura della fabbrica, alle condizioni di vita degli operai. Questa attività lavorativa non era esente da ripercussioni negative soprattutto sul fisico degli operai, sottoposti com’erano a costante contatto col fango, con la polvere, con i fumi della combustione e con il calore del forno. L’alimentazione, per di più solitamente insufficiente, non sosteneva adeguatamente tale genere di vita. La pelle dei fornaciai al lavoro era letteralmente ricoperta di polvere d’argilla, che penetrava nei pori, ostacolando la necessaria traspirazione. I fornaciai si sottoponevano a frequenti lavaggi, usando anche l’acqua fredda dei fossi, con la conseguenza di essere colpiti da congestioni.

I resti di una fornace abbandonata sono segni di una vicenda umana e la loro presenza, ancora oggi parlante, contribuisce a ricostruire, anche nei dettagli, fasi di lavoro, ambiente e condizioni di vita. Il terreno argilloso, materia prima della lavorazione, prima dell’avvento dell’industrializzazione, veniva liberato manualmente dal manto erboso e squadre di operai, solitamente corrispondenti a nuclei familiari, compresi anche i ragazzi, scavavano l’argilla sottostante per una profondità di due o tre metri. Questa operazione, chiamata escavazione, avveniva nei mesi autunnali. L’argilla scavata veniva ammucchiata in un canto e lasciata all’aperto. In questo modo, l’argilla, esposta alle intemperie dei fenomeni atmosferici, si liberava di tutto il silicio in eccesso, acquistando così la plasticità, condizione fondamentale perché la stessa potesse acquistare più malleabilità.

In primavera, dai cumuli preparati durante l’inverno, gli uomini zappavano di volta in volta il quantitativo di argilla che serviva durante la giornata di lavoro. Si zappava e si bagnava più volte il materiale perché riprendesse l’elasticità persa durante la fase di ibernazione. Successivamente, l’argilla prelevata veniva di nuovo ammucchiata per essere pestata con un attrezzo, oppure più spesso con i piedi, lavoro quasi sempre eseguito dai ragazzi e dalle donne. Se l’argilla risultava troppo porosa, si aggiungeva argilla più fine allo scopo di renderla più consistente; se era troppo fine veniva mischiata con altra più grossa.

Il formista, un uomo addetto alla modellatura di mattoni e tegole, riempiva d’argilla alcune cassette di legno fornite di manici sporgenti che servivano, una volta impugnati, per capovolgere la forma e farne mattoni, tegole o coppi. Il lavoro del formista consisteva poi nell’asportare dalla cassetta di legno l’argilla in eccesso, farne uscire la forma richiesta, ripetendo l’operazione per centinaia di volte al giorno. I mattoni crudi venivano lasciati ad essiccare per una quindicina di giorni su appositi sostegni chiamati “gambette”, riparati dall’azione degli eventi atmosferici con stuoie di paglia. I mattoni ancora crudi, accatastati in pacchi regolari detti “cobbie” venivano disposti attorno al forno, protetti dalle falde del tetto, in attesa di essere introdotti per la cottura.

Il fuochista o “cobbiettaro” prelevava i pacchi di mattoni essiccati e li calava all’interno del forno che aveva una struttura piramidale, detta anche “a pignone”. Accatastati uno sopra l’altro, i mattoni assumevano la forma di una grossa piramide. La camera di combustione era posta alla base ed era alimentata dal fuoco a legna. Questo sistema di cottura presentava degli inconvenienti. I mattoni a volte non risultavano cotti in modo uniforme, per cui si richiedeva una nuova cottura dei pacchi di mattoni. Il forno poi, al termine della cottura delle “cobbie” doveva essere quasi del tutto smantellato per permettere l’estrazione dei materiali cotti: mattoni, tegole o coppi. Queste lunghe soste dovute ai tempi di cottura non permettevano una produzione costante, rilevante e di qualità.

Una solta decisiva nella produzione dei laterizi si è avuta con l’avvento del forno Hoffmann, ideato dall’architetto prussiano Frederich Hoffmann che lo mise in funzione per la prima volta nel novembre del 1855. Il forno, in origine a struttura circolare, era basato sul principio del fuoco continuo con recupero di calore. I materiali da cuocere venivano posti in una galleria circolare, che successivamente assunse una forma allungata coperta da una volta. Nel muro esterno venivano praticate delle aperture che servivano per inserire o togliere i materiali, cioè come si usava dire, per “infornaciare” e “fornaciare”. Nella volta della galleria erano praticati dei fori, tenuti chiusi con coperchi di ghisa, attraverso i quali si introduceva il combustibile, di solito carbone macinato. Le camere di combustione erano collegate ad un unico collettore centrale, in comunicazione diretta con il camino di tiraggio dell’aria; alcune valvole consentivano di immettere o di togliere aria calda a seconda che si fosse nella fase di riscaldamento o di raffreddamento.

La struttura del forno Hoffmann era completata dalla ciminiera, che, nel brevetto originario con il forno a pianta circolare, era prevista in posizione centrale, poi con le modifiche successive, venne posta in posizione laterale oppure in testa al forno. Le falde del tetto erano particolarmente larghe, tanto da formare attorno alla galleria di cottura un vero e proprio porticato che serviva per riparare i laterizi in attesa della cottura.

I vantaggi arrecati dall’adozione del forno Hoffmann furono notevoli. Si ebbe una migliore qualità del prodotto che poteva cuocere in modo uniforme grazie alla regolare diffusione del calore. La produzione era più continua e gli operai potevano lavorare con ritmi più spediti. Il lavoro del fuochista, tanto importante ai fini dell’esito finale, era ora meno ingrato rispetto alle fornaci antiche. Il forno Hoffmann fu via via perfezionato con l’applicazione di accorgimenti di varia natura. Si cominciò col tagliare le teste del forno, in corrispondenza degli angoli di curva ellittica, per caricare da lì i pacchi di mattoni. La volta a botte della galleria di cottura fu sostituita da una volta piana che consentiva di recuperare spazio e di inserire più comodamente i pacchi rettangolari.

La struttura del forno subì poi un altro stravolgimento quando fu messo in pratica il concetto di camera di cottura fissa nella quale venivano introdotti i mattoni caricati sui vagoncini, rimanendoci quanto bastava per portare a termine la cottura. I vagoncini furono ampiamente adottati anche per il trasporto dell’argilla dalle cave alla fornace. All’inizio i vagoncini erano a trazione umana o trainati dagli animali, sostituiti poi da quelli a scartamento ridotto, trainati, nelle aziende più grandi, da motori diesel.

L’evoluzione tecnologica del settore non si fermò solo al forno Hoffmann. Non vanno dimenticati i progressi fatti nel campo della modellatura vera e propria del mattone; la prima macchina per la trafilatura meccanica dell’argilla fu presentata a Londra nel 1851, ma solo molto più tardi, naturalmente, fu utilizzata in Italia. Nel secondo dopoguerra il processo di evoluzione tecnologica continuò incessantemente, applicato a tutte le fasi della produzione: dagli essiccatori industriali, all’imballaggio, fino all’adozione del nastri trasportatori per la movimentazione del materiali.

Nel nostro territorio, che esistessero molte fornaci, è documentato dai resti che si possono osservare direttamente. E’ il caso della fornace Antonelli di Potenza Picena, ridotta ad un rudere pericolante. Esiste però poco lontano la frazione Casette Antonelli, costruite dal proprietario della fornace omonima per i propri operai. A Civitanova Marche, di lato alla pista ciclo pedonale, che dalla città bassa sale alla città alta, la ciminiera è ciò che resta della vecchia fornace, che ha conosciuto in tempi diversi molti proprietari. La fornace produceva mattoni, coppi e anche vasellame, ma già nel primo decennio del Novecento aveva ridotto di molto la propria attività.

 

Raimondo Giustozzi

 

 

Bibliografia: Fabbrica di bottiglie, Sibilla Aleramo e la fornace Ceccotti

 

  1. Diomedi, San Marone, Quartiere industriale e residenziale a ridosso del centro urbano, in “Civitanova Immagini e Storie”, N° 9, giugno 2001, Civitanova Marche.

Ricciotti Fucchi, Sibilla Aleramo, Gli anni civitanovesi di un’insigne poetessa e scrittrice, in “Civitanova Immagini e storie”, n° 1, Civitanova Marche, giugno 1987.

Pier Luigi Cavalieri, Sibilla Aleramo, Gli anni di Una donna, Porto Civitanova 1888 – 1902, Cattedrale, 96 Garibaldi Ancona.

Pier Luigi Cavalieri, Le origini dell’industria a Civitanova Marche. La fabbrica di bottiglie 1889 – 1908, in” Civitanova Immagini e Storie”, n°1, Civitanova Marche, giugno 1987.

Roberto Gaetani, Un socialista vero, perciò dimenticato, Michele Alfredo Capriotti (1874- 1915), in “Civitanova Immagini e storie”, N° 4, Civitanova Marche, 2009. Michele Capriotti, il marito di Corinna Faccio fu il primo segretario della Umanitaria, grande fondazione filantropica milanese, fondata nel 1893 da Prospero Moisè Loria mediante un proprio lascito disposto da se stesso. Ho avuto la fortuna di conoscere anche questa grande istituzione milanese negli anni della mia lunga permanenza in terra lombarda per un corso d’aggiornamento sull’emigrazione.

Raimondo Giustozzi, Il paesaggio civitanovese nelle pagine del romanzo Una donna, link Sibilla Aleramo.it – Il paesaggio civitanovese nelle pagine di Una Donna

e Millepaesi, anno XXXIII –  N° 7 luglio 2014

Roberto Romano, I Caprotti, l’avventura economica ed umana di una dinastia industriale della Brianza, Franco Angeli Editore, 2008.

  1. Romanelli, L’Italia Liberale, Il Mulino, 1979.

 

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