Eraldo Affinati, con questo libro pubblicato da Mondadori nel 2018, ha voluto dare voce al lavoro di docente ed educatore svolto nella scuola Penny Wirton, fondata assieme alla moglie Anna Luce Lenzi. La loro è una scuola senza voti, senza classi, senza registri né burocrazie. “Dove il fanciullo amareggiato potrà essere accolto e consolato, avrebbe detto monsignore John Patrick Carrol – Abbing, il fondatore della Città dei Ragazzi” (Eraldo Affinati, Tutti i nomi del mondo, pp. 53- 54, Mondadori, Milano, 2018). E’ una scuola frequentata da migranti con qualche italiano, come Ottavio, un ex alunno ripetente che si esprime solo in dialetto romanesco. Non hanno nulla in comune. Sono scappati dai propri paesi dove infuria la guerra, la povertà e la miseria. Hanno ferite profonde nell’animo. Costituiscono il meglio dell’umanità, avrebbe detto don Milani. Gli alunni di Barbiana si rivedono in quelli di Colle Oppio, che hanno più problemi rispetto a loro, mutato il contesto storico e geografico. I primi venivano principalmente dal Monte Giovi, in Toscana, provincia di Firenze. I secondi provengono da ogni parte del mondo e portano con loro una varietà di lingue e linguaggi.
In un giorno imprecisato, il docente convoca nella sede della scuola al Colle Oppio di Roma un gruppo di ex alunni che hanno frequentato la scuola negli anni passati. Non tutti rispondono all’appello, anche perché alcuni sono morti, altri hanno fatto perdere le proprie tracce. “Rispondono ventisei nomi, quante sono le lettere dell’alfabeto. Sono individui provenienti da ogni parte del mondo, giovani profughi, antichi amici dispersi, nonni paterni e materni, adolescenti pieni di speranza, a volte sventurati. Alcuni sopravvissuti a guerre e carestie, vivono tra noi, altri che lasciano intravedere, insieme ad un passato lancinante, vicende legate alla storia della Resistenza italiana, parlano da un oltre. Ognuno racconta l’avventura in cui è impegnato. Ne scaturisce un’originalissima riflessione corale sull’epoca che stiamo attraversando, scrutinata nel filtro di un’esperienza intima e personale” (Nota dell’Editore, risvolto, prima pagina di copertina).
Il libro, di 280 pagine è diviso in 26 capitoli, tanti quanti sono gli alunni e le lettere dell’alfabeto, dalla A alla Z; A come Abdel, B come Bostan e così via, fino a Z come Zuri. Accanto al nome dell’alunno, che dialoga con il professore e Ottavio, l’alunno ripetente, viene aggiunto un sottotitolo che a volte riassume l’intera conversazione, altre volte rimanda a titoli di vecchie canzoni, Erba di casa mia, altre volte ancora a protagonisti di romanzi letti dall’insegnante o ad altro. Ogni alunno ricorda altri dieci alunni che hanno frequentato la Scuola Penny Wirton. Ecco perché il titolo del romanzo “Tutti i nomi del mondo”. Nella scuola è presente il mondo intero. Gli alunni vengono da ogni angolo del Pianeta. Ottavio è “romano de Roma”, ma anche lui è come se fosse straniero tra tanti. Parla solo il dialetto romanesco e non conosce l’italiano.
Eraldo Affinati propone ai propri alunni, che hanno risposto all’appello, di ricomporre in un tutto unico tutti i frammenti della vita, propria e degli amici conosciuti a scuola. Quando parla di se stesso, usa il verbo alla seconda persona singolare: “Un’estate dei primi anni Settanta, in un campeggio vicino a Civitavecchia. Andasti a prendere un cubo di ghiaccio guidando la Renault 4 di un tuo amico. Eri felice di poter azionare la leva del cambio sul volante alla tua destra. L’auto si bloccò sul lungomare. Per rimetterla in moto dovesti scendere e infilare la manovella sotto il cofano anteriore. Stavi a torso nudo. Pensavi a Huckleberry Fin. I libri erano rami a cui ti aggrappavi per non affogare trascinato dalla corrente. Al ritorno, sulla litoranea, schiacciasti a fondo corsa il pedale dell’acceleratore. Gli avvallamenti del terreno rischiarono di farti andare fuori strada. La Renault si trasformò in un bruco impazzito. Riuscisti a tenerla in carreggiata non sai neppure tu come” (Ibidem, pag. 65).
Ottavio scherza su quanto il professore dice: “Mamma mia, quanto séte vecchi”, quando sente pronunciare gli anni Settanta. Non conosce i comandi di una Renault 4 nella quale la leva del cambio è a destra: “Ma è vero? Pe’ me sta a ddì ‘na cazzata”. Non conosce proprio Huckleberry Finn né l’autore Mark Twain: “Chi è? Un campione d’arti marziali miste?”. I libri poi: “Te ce sentivi mejo”. Quando la Renault si trasforma in un bruco impazzito (metafora), Ottavio non ci capisce nulla: “Mo’ me sa che ho ‘nteso quello che vòi dì. Come quanno metti er dito dentro a’ a gabbietta di’ criceti e quelli corrono da ‘na parte all’artra” (Ibidem, pag.65). In tutto il romanzo Ottavio fa da spalla al docente.
Gli alunni, che hanno risposto all’appello, usano la prima persona singolare quando parlano di se stessi, la terza singolare o plurale quando parlano di altri che non sono presenti. Il dialogo tra l’alunno capofila, l’insegnante e Ottavio, è sempre alla seconda persona singolare. Erminio (lettera E, 5° capitolo), ricorda gli insegnanti volontari della scuola: “Guido ha settant’anni. Un tempo dirigeva decine di persone in una grande azienda. E’ appena andato in pensione. La mattina nuota in piscina. Il pomeriggio non sa che fare. Gabriele vive di collaborazioni saltuarie. Coi piccoli egiziani ci sta bene. Gianna abita per conto suo. Separata, senza figli. Deve prendersi cura della madre anziana, Aspetta l’arrivo di Tatiana, badante ucraina, come se fosse una manna. Serena ha perso il marito. Letizia è disoccupata. Andrea vorrebbe smarrirsi in un altrove. Emanuele ha bisogno d ritrovarsi” (Ibidem, pag. 66). Lavorano gratis alla Scuola Penny Wirton
Nel capitolo successivo, il sesto (lettera F), Felicity, un’altra alunna della scuola racconta la propria storia. Viene dalla Nigeria dove era una ragazza come tante altre fino a quando un vecchio la porta alla periferia di Lagos, cedendola per una miseria agli uomini incaricati di condurla in Europa. Nel paese africano lascia tante amiche: Efua, Madele e Race, sorelline inseparabili, Zahra, la più piccola, ancora senza denti. Attraversa il Mediterraneo assieme ad altri disperati. Rinchiusa in un campo profughi viene ripetutamente violentata da più uomini. Rimane incinta. Dalla violenza subita nasce Success, una bambina che sprigiona simpatia. Da Como, dove è ospite presso una casa famiglia, giunge a Roma. Qui conosce la Scuola del professore Affinati. Porta con sé la piccola Success che diventa la mascotte della scuola.
Felicity si trova bene a scuola. Ogni alunno ha un suo insegnante: “Qui mi sembra tutto un altro mondo. Chissà se ce la farò. Fernanda, brasiliana, è molto più brava di me. Lei frequenta la scuola da molti mesi. Ne ha avuto il tempo e il modo. I frutti si vedono. Sta già facendo il futuro anteriore dei verbi con l’ausiliare essere: io sarò uscita. Lei sarà andata. Noi saremo rimasti. E poi con il verbo avere. Io avrò fatto. Tu avrai fatto. Loro avranno trovato. Io invece sono rimasta agli articoli determinativi. E un po’ di verbi. Il cellulare. L’amico. Lo Stato. Uno su due lo sbaglio ancora: il zaino. Il anello. Le giardino” (pag. 72). Non darti pena, la rincuora Ottavio. Lui stava peggio di lei e era anche italiano, per modo di dire.
Gavina (lettera G) ricorda il nonno Alfredo Cavina, partigiano della 36 Brigata Garibaldi, fucilato, il 26 luglio 1944, dai nazisti insieme agli altri nove prigionieri, fra i quali don Francesco Babini, a Pievequinta, frazione di Forlì. Hermal (lettera H) viene dal paese delle aquile, Albania. Il nome del ragazzo in albanese significa “Vento delle montagne”. Il suo paese di origine viene visitato da Eraldo Affinati, giramondo per curiosità di conoscere la storia e la geografia, l’umanità nascosta sotto qualsiasi cielo, a latitudini e longitudini diverse: Belgio, Marocco, Tunisia, Egitto, America. Il professore era arrivato a Valona, la città di Hermal: “Tu non lo sapevi, ma con ogni probabilità stavo giocando in terrazza. Ricordi ancora l’insegna stradale bucherellata da proiettili”. Tutti pensavano all’Esodo verso le coste italiane: “Nei cortili interni della città molti nascondevano i gommoni pronti sopra al carrello. Di notte il canale d’Otranto si trasformava in una babele di lingue e persone. Certe navi assomigliavano a tipografie nautiche: due milioni di lire a passaporto” (Ibidem, pp. 90- 91).
Aforismi e riflessioni accompagnano i ricordi: “Tutto ritorna. Niente resta solo in un posto. Non smetti di ripeterlo, a te stesso e agli altri. Una volta te lo disse anche Federico Zeri, quando andasti a trovarlo nella sua villa di Mentana”. La voce è di Eraldo Affinati che parla di sé in seconda persona, dialogando con gli allievi della scuola “Ecco perché continui a insegnare a quelli come me. Biglie colorate nella melma delle periferie. Poi finiscono nei rigagnoli ai lati delle strade, riflessi di sogni spezzati. Non li ritroviamo più. Smembrati. Recisi. Offesi. Massacrati”. “Ognuno ha un pezzetto di responsabilità. Se la disattende, qualcun altro, dopo di lui, alla distanza di una o due generazioni, dovrà metterci una pezza. Porre rimedio. Colmare questa lacuna” (Ibidem, pp. 94- 95). Il compito di ogni docente è quello di porre rimedio alle ingiustizie: “Credere in ciò che fai, senza pensare al risultato che potrai ottenere” (pag. 197).
Non mancano i continui incoraggiamenti del professore verso i propri alunni. Il docente propone continui esercizi di grammatica italiana: cancellare le frasi sbagliate su quattro frasi date, osservare le immagini, imparare i verbi e completare le frasi, coniugando il verbo camminare al presente indicativo. Io cammino, tu cammini, lui / lei cammina, noi camminiamo, voi camminate, loro camminano. Noi… sempre con piacere. Loro… sul marciapiede. I vecchi… con il bastone. Tu… senza guardare. Tu e Gianni… troppo in fretta. Ottavio, il più entusiasta della scuola dice al professore: “’O sai che te dico? Se ci’i davi ar professionale ‘sti esercizi li sbajevamo puro noialtri! Eravamo capoccioni. E invece tu pe’ ‘ncoraggiacce ce dicevi sempre: a regà’ dovemo annà a giocà in serie A. E noi t’arisponnevamo: a professo’, ma che te sei bevuto er cervello? Qui manco ‘n promozzione ce metteno!” (pag. 70 – 75). E ancora: “L’oro nasce dal fango. La bellezza dal marciume. La società dalla pazzia” (pag. 128).
“Eraldo Affinati, con questa sorprendente Spoon River, imbastisce un processo autobiografico e collettivo sui temi che sin dall’inizio hanno contraddistinto, come un filo rosso, la sua opera inconfondibile: libertà, responsabilità, educazione, giustizia, valori etici, religiosi e politici. Ma stavolta, scoprendo le ragioni profonde della propria vocazione pedagogica e letteraria, non può evitare di subire il controfagotti, comici e caustici insieme, del suo allievo preferito (Ottavio), il solo, forse, in grado di consegnargli alla fine la sola risposta che lui desiderava”(Nota dell’editore, risvolto prima pagina di copertina).
Alla lettera O come Ottavio, lo stesso dice: “Che ne sapevo, io, quanno se semo visti, che tu c’avevi dietro tutte ‘ste storie de solitudini, de rabbie, de padri e madri abbandonati, de ferite, de viaggi, de pischelli malandrini, de scòle nove che vòi fa co’ tu’ moje p’imparà l’italiano a li regazzini che vengheno da tutto er monno? Pe’ me a l’inizio eri solo er professore: ‘na questione de voti, pagelle, calendari, vacanze, promozioni e bocciature. Allora perché me davi ‘n sacco de consijj? Quanno t’ho ariconosciuto, num m’è sembrato vero de vedé ch’eri stato puro te ‘n pischelletto come me, co’ ‘e croste e li bacherozzi, e che da’ a borgata te c’eri tirato fòri co’ quarche stampa e ‘n paro de frasi scritte a penna. Pe’ quello me ce sò affezionato e stamo a ffà ‘sto giro ‘nzieme, che manco so ‘ndo ce porta” (Ibidem, pag. 165). Nell’ultimo capitolo del romanzo: “Epilogo ar Campo der Sole”, Ottavio manifesta tutta la propria ammirazione verso il maestro e promette che se avrà un figlio da Luana, la fidanzata, quando la sposerà, lo manderà alla sua scuola e gli dice: “Bùttetece dentro co’ l’occhi chiusi tutto vestito, come te pare. Abbasta che j’empari ‘a vita. ‘O devi da fà filà dritto. No com’ho fatto io che nun ce capivo ‘na mazza. E puro adesso c’ho ‘a maja nera. Arivo sempre urtimo. Lui deve diventà com’a te! Primo ‘n corsia. Tho detto tutto” (Ibidem, pp. 279- 280).
Non mancano qua e là nel romanzo pennellate del paesaggio romano: “Il sole scendeva inesorabile dietro i palazzi di Casal Bruciato, come se il nome del quartiere potesse dare senso a quel tramonto” (pag. 68); “La luce è una spada che filtra dai palazzi prospicienti trascinando fra i banchi della scuola la polvere dei terrazzi desolati, ruggine di balconi coi panni appesi ad asciugare” (pag. 191). “Boscaglie, camicie a scacchi, erbe schiacciate, teloni, sigarette, attrezzi agricoli, acqua sporca, vapori, cespugli e catarro; è stata questa la mia Resistenza” – dice Will, nome di battaglia, antifascista dichiarato, zio materno di Eraldo Affinati. Ullah viene dal Mali. Frequenta la scuola Penny Wirton, abita a Tor Marancia, “Vive in un mondo fatto di insegne luminose che spesso non significano niente. Carrefour aperto ventiquattr’ore su ventiquattro. Sanitari e ortopedia. Noi di notte. Ai suoi occhi sono indicazioni incomprensibili. Informazioni destinate a non raggiungerlo mai” (pag. 219).
Qual è il retroterra culturale degli alunni che frequentano la Scuola Penny Wirton? Costantin è rumeno: “Mio padre ubriaco nella terrazza di un condominio alla periferia di Bucarest. Fra i panni stesi ad asciugare. I bidoni dell’immondizia. I gatti selvatici. Gli stucchi screpolati dell’edilizia sovietica. Mia madre con gli occhi stravolti che cerca di portarmi via mentre lui mi guarda come dall’orlo di un fosso. Comincia tutto da lì, in una putredine del sentimento tumefatto” (pag. 39). La vita di tutti gli alunni, protagonisti del romanzo è fatta di infanzia tradita, sogni spezzati, miseria materiale e morale. “Dai diamanti non nasce niente / dal letame nascono i fiori”, cantava Fabrizio De André. E’ vero ma ci deve essere sempre qualcuno che aiuta i fiori a nascere. “Cambiare il mondo non è possibile. Cambiare la vita di un ragazzo, sì” (pag. 215).
Alla lettera R dedicata a Rosina c’è un accenno ad alcune pagine del Nuovo Testamento: “Accogli i profughi. Soccorri i bisognosi. Incoraggia i riottosi, consola gli afflitti. Dai da mangiare agli affamati. Dai da bere agli assetati. Vesti gli ignudi. Alloggia i pellegrini. Visita gli infermi. Seppellisci i morti. Ammonisci i peccatori. Perdona le offese. Sopporta pazientemente le persone moleste. Prega Dio per i vivi e per i morti… Insegna agli ignoranti. Saresti tu, Hod? La testa inclinata sulla spalla. Il portamento sciolto del piccolo messaggero? Tu Roman, coi capelli colorati di rosso? E tu, Roullah, magro come un chiodo, già quasi sulle impalcature edilizie dove ti troverai fra un paio di mesi? (pag. 195).
Il romanzo di Eraldo Affinati dovrebbe essere letto da ogni docente, non importa se in servizio o in pensione. Ognuno può scrivere il proprio romanzo dell’anima. Chi è in pensione, senz’altro è il più invogliato a farlo perché si sente più libero. Basta essere sinceri con se stessi e ripensare al lavoro fatto. Fare un bilancio assieme agli alunni, quelli che si ricordano meglio perché problematici. Accantonare ogni nostalgia per il tempo passato. Non addossare le colpe a terzi, siano essi i genitori degli alunni o la società in genere. Chi è in servizio incontra quotidianamente molti problemi anche nelle cosiddette scuole normali. Gli alunni stranieri sono sempre più numerosi. Non conoscono la lingua italiana. “Compito dello Stato è rimuovere gli ostacoli”. Recita così il terzo articolo della Costituzione Italiana. In classe il compito di rimuovere gli ostacoli spetta all’insegnante. Come? Utilizzando sussidi, Internet, altro e non solo con gli stranieri. Se i genitori di questi alunni sapessero fare da soli non vi manderebbero i figli a scuola. Lo diceva don Lorenzo Milani. In ogni ragazzo c’è sempre un punto di accessibilità al bene. Lo scriveva don Giovanni Bosco.
Docenti “Vasi di terracotta, costretti a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro”, per prendere una citazione da I Promessi Sposi. Manzoni lo diceva di don Abbondio. Gli insegnanti sono artigiani della parola. Il loro lavoro va misurato sui tempi lunghi. La società invece vuole tutto e subito. Competenze e basta, da spendere quanto prima sul lavoro. Cinismo e menefreghismo sono le parole d’ordine che regnano sovrane in ogni piega della società. “Non me ne po’ fregà de meno” di chi non vuole apprendere. Peggio per lui. I diritti dell’individuo cozzano con quelli della società. Eppure è possibile trovare un punto di equilibrio tra le due realtà. Il pensiero pedagogico di don Lorenzo Milani, di San Giovanni Bosco, di Eraldo Affinati non può essere ridotto a “Trucioli di utopie” che hanno appassionato e appassionano ancora migliaia di educatori e di docenti. E’ facile agitare l’assioma “Chi educa colui che educa” e scegliere solo l’istruzione, quando va bene, a volte nemmeno questa.
Sul priore di Barbiana, don Lorenzo Milani, rimando all’articolo “Trucioli di utopie che hanno appassionato più di una generazione”, pubblicato nello Specchio Magazine l’8 /10 /2020, cliccando sul link riportato sotto. E’ la recensione e non solo al libro di Eraldo Affinati, Sulle strade di don Lorenzo Milani, l’uomo del futuro, finalista al premio Strega, Mondadori Editore, 2016.
Raimondo Giustozzi
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