di Raimondo Giustozzi
Il tragitto per andare alla Scuola Elementare era breve. Gianni lo fece in compagnia della mamma, che lo teneva per mano. Era il primo ottobre del millenovecento cinquantasei. Gli altri alunni arrivavano alla spicciolata. Il volto della mamma tradiva una emozione insolita. Sapeva di staccarsi, anche se per poche ore, dal figlio più grande. Rivolse poche parole alla maestra, dicendole di voler bene al bambino. Gianni trattenne le lacrime. Salutò la mamma e salì con gli altri bambini su per una scala. Era il primo giorno di scuola. Nella piccola frazione di campagna non esisteva un edificio scolastico. Le lezioni si tenevano, in due turni, uno al mattino, l’altro nel pomeriggio, in una grande stanza di una casa privata. Gli alunni venivano distribuiti in due pluriclassi: “Alle elementari lo Stato mi offrì una scuola di seconda categoria. Cinque classi in un’aula sola. Un quinto della scuola cui avevo diritto” (Scuola di Barbiana, lettera a una professoressa, pag. 10, Firenze).
Gli alunni della prima, terza e quinta classe facevano parte del primo turno di lezioni, quelli della seconda e quarta classe frequentavano il secondo turno. Gli arredi erano quelli di epoca fascista: “I banchi erano angusti, con lo schienale disposto spietatamente ad angolo retto. Dipinti di nero recavano graffiti lasciati da generazioni di temperini. Ogni banco aveva la sua ribaltina sotto la quale riporre la cartella e la merenda. I calamai erano boccette di vetro, dal fondo ricurvo, inserite nei fori ai lati dell’avvallamento portapenne. Ogni mattina, il bidello di turno aveva il compito di rimboccarli con inchiostro nuovo” (Gian Franco Vené, Mille lire al mese, vita quotidiana della famiglia nell’Italia fascista: in fila per due, pag. 76, Mondadori, Milano, 1990). Alle pareti erano appese carte geografiche logore dal tempo, il crocifisso, la foto del presidente della repubblica in carica. La cattedra era posta su un’alta pedana. La maestra aveva il dominio su tutto. Una lavagna completava l’arredo scolastico. Il gabinetto era alla turca, posizionato in fondo all’aula.
Era un’Italia uguale sotto qualsiasi cielo e a latitudini diverse. La scuola di Anghiari, in provincia di Arezzo, città alla quale Gian Franco Vené era tanto legato fino a diventarne cittadino onorario, era simile a quella di mille e più comuni italiani, compresa la scuola elementare di Santa Lucia, frazione di Morrovalle. Nella nuova sede, inaugurata nel 1958- 59, là dove è tuttora, adibita a Circolo ACLI, le pluriclassi rimanevano le stesse. Il nuovo edificio scolastico disponeva di due aule, due bagni e un ampio salone. Nella prima c’erano le classi: prima, terza e quinta, nell’altra, la seconda e la quarta. Tutto cambiava ma tutto rimaneva come prima quanto all’organizzazione. Scomparivano solo i due turni. Tutte le ore di lezione si tenevano al mattino. Il materiale di cancelleria: pennini, quaderni, gomme, matite, temperini, righe e squadre si acquistavano nel negozio poco lontano dalla scuola. Libri, il famoso sussidiario, e quaderni erano tenuti assieme da un laccio. Qualcuno aveva la cartella. Gli zainetti firmati erano ancora di là da venire.
Gianni ricorda meglio il nuovo edificio scolastico, dotato anche di un piccolo appartamento per le maestre. Queste provenivano tutte dal capoluogo provinciale. La scuola, sia nella vecchia sistemazione presso l’abitazione privata sia nella nuova struttura, era frequentata da tanti ragazzi. La campagna era allora abitata da famiglie numerose con tanti figli. Molti di loro provenivano dalle Cervare, da Maragatta, dalla Burella, Culmici, Petrocca Santa Lucia, altre contrade più piccole che confluivano nella frazione più grande. Era più il tempo che i ragazzi giocavano sotto una grande quercia che quello trascorso sui libri. D’altronde ai figli dei contadini non era permesso avere un avvenire diverso da quello dei loro nonni e dei genitori. La cultura era un frutto proibito, come la mela del paradiso terrestre. Agli alunni comunque andava bene se l’intervallo si prolungava.
I bambini delle Cervare erano i più lontani dalla scuola. Partivano da casa molto presto. Attraversavano a piedi i campi, scendevano sul fondovalle e risalivano la collina. Il percorso era di tre chilometri all’andata e altrettanti al ritorno. Giunti a destinazione, almeno avessero avuto una scuola degna di questo nome. Niente affatto. Frequentavano come i loro coetanei di Santa Lucia le pluriclassi. Santa Lucia, frazione di Morrovalle, era allora “Popolata di case e di oliveti” avrebbe detto Ugo Foscolo. Nelle consultazioni elettorali, il seggio, che veniva allestito presso la Scuola Elementare di Santa Lucia, aveva il più alto numero di votanti rispetto alle altre frazioni. La chiesa attigua alla Scuola Elementare si riempiva di fedeli nelle due messe della domenica, l’una celebrata alle 8,00, l’altra alle 11,30. Oggi, la chiesa è chiusa da anni per il terremoto del 2016 ma anche per un cedimento strutturale che interessa la parete che dà sulla strada, la provinciale per Macerata – Morrovalle- Montecosaro – Civitanova Marche.
Il confronto con gli alunni che frequentavano le scuole del capoluogo comunale era inesistente. Non era tanto la distanza quanto la mancanza di mezzi per spostarsi. Don Milani diceva che la differenza tra un ragazzo di campagna e di città è da ricercare nella mancanza di prepotenza che il primo non ha proprio, mentre il secondo ne ha da vendere. Gianni ricorda che, quando andava assieme ad altri ragazzi della campagna nel capoluogo comunale per la preparazione alla prima comunione, stava per alcuni giorni insieme ai ragazzi di paese. Avevano quasi sempre da sbeffeggiarli, perché insieme al parroco avevano da ridire sulla loro preparazione. Erano stati preparati da don Primo Antonelli. Era originario di Civitanova Alta. Era quasi il parroco di Santa Lucia. Veniva dal capoluogo in motorino, sia che piovesse sia che facesse bel tempo. Era un pezzo di pane. Proprio per questo era anche deriso da molti perché non era affatto ambizioso. Gli ambiziosi! Ci sono sempre stati e ci saranno sempre. Beati loro!
Quello che Gianni ricorda non è il canto del bel tempo andato, perché anche allora tante cose non andavano affatto nel verso giusto. C’era anche allora chi si vantava di essere chissà chi e non era nulla. Anzi, tanti progetti non si realizzavano perché molti adulti erano presi dalla fregola di voler sempre e comunque comandare. E’ l’antico difetto di queste nostre contrade “de volé sempre e comunque commannà”, retaggio di epoche non tanto lontane nelle quali si doveva pagare il pegno per piegarsi a soprusi di ogni genere. Quando c’era l’occasione si tirava fuori un anarchismo un po’ di facciata e qualche volta anche di sostanza.
A scuola si preparava su carta ornata da luccicanti bozzetti natalizi la letterina di auguri che, prima del pranzo di Natale, i ragazzi avrebbero nascosto sotto il piatto dei genitori, per riceverne qualche piccola mancia. Nel nuovo edificio, l’ampio salone posto all’entrata della scuola permetteva la recitazione, a più voci, di poesie e testi teatrali in occasione del Natale, presenti i genitori degli alunni: “Le monachine” di Enrico Panzacchi: “Siedono i bimbi attorno al focolare / e pigliano diletto / coi visi rubicondi, a riguardare / le monachine mentre vanno a letto…”, “Le ciaramelle” di Giovanni Pascoli: “Udii tra il sonno le ciaramelle, / ho udito un suono di ninne nanne. / Ci sono in cielo tutte le stelle, / ci sono i lumi nelle capanne. // Sono venute dai monti oscuri / le ciaramelle senza dir niente; / hanno destata ne’ suoi tuguri / tutta la buona povera gente…”. Il pezzo forte, recitato a più voci era “La Notte Santa” di Guido Gozzano: “Consolati, Maria, del tuo pellegrinare! / Siam giunti. Ecco Betlemme ornata di trofei. / Presso quell’osteria potremo riposare, / ché troppo stanco sono e troppo stanca sei. // Il campanile scocca / lentamente le sei. // – Avete un po’ di posto, o voi del Caval Grigio? / Un po’ di posto per me e per Giuseppe? / – Signori, ce ne duole: è notte di prodigio; / son troppi i forestieri; le stanze ho piene zeppe // Il campanile scocca / lentamente le sette…”. La piccola recita terminava con la voce corale di tutti gli alunni: È nato! / Alleluja! Alleluja! // È nato il Sovrano Bambino. / La notte, che già fu sì buia, / risplende d’un astro divino. / Orsù, cornamuse, più gaje / suonate; squillate, campane…”.
Voci e rumori lontani
Santa Lucia di Morrovalle, seconda metà degli anni cinquanta del secolo scorso. Zio Alberto e papà Luigi, curvi sulle manichette dei due aratri, inferrati sul terreno ad aprire i solchi per la semina, indirizzavano, per stimolarle, grida continue alle mucche aggiogate ai due mezzi meccanici. “Va’ là, va’ su, va’ gghiò, qua statte”. I nomi delle mucche: Paloma e Cimarè. Quadro idilliaco? Niente affatto. Fatica tanta, risultati modesti, ma tanta serenità. Sì, Gianni veniva dal contado, come ebbe a sottolineare un signore del capoluogo, rimarcando ironicamente le sue origini contadine di cui Gianni andava fiero. Il modesto interlocutore, un po’ saccente, faceva sfoggio di cultura, come se certe cose le sapesse solo lui. Il contado, da qui il termine contadino, nel Medioevo era il territorio attorno al comune. All’interno dell’agglomerato urbano c’erano tutte le libertà: “L’aria di città rende liberi”, nel contado invece si era soggetti alle ripetute angherie dei potenti di turno.
Nella casa attigua alla casa di Gianni, un rumore cadenzato e regolare lacerava l’aria e si confondeva con quello che proveniva dai campi. Era quello della gigantesca pressa della famiglia Giosuè. Paolo ed Otello, figli di Nazzareno e Rosa Costantini, avevano ereditato dal padre la piccola officina da fabbro ferraio e la stavano portando versi più ambiti traguardi. Nazzareno Giosuè, nato a Montecosaro nel 1887, figlio di mezzadri, aveva trascorso quattro anni, dal 1903 al 1906, in Argentina a lavorare presso il reparto forge delle ferrovie locali. Rientrato in Italia, trovava un’occupazione presso l’Alfa Romeo, prestigiosa fabbrica milanese e vi rimaneva a lavorare per tutta la durata del primo conflitto mondiale. Da Milano si trasferiva di nuovo a Santa Lucia di Morrovalle ed apriva una piccola officina di fabbro. Il lavoro consisteva nel riparare il coltro, il vomere, il versoio dell’aratro, la rella, uno strumento in ferro che serviva per ripulire l’erpice quando durante l’erpicatura, si intoppava di terra ed erbacce, le catene da traino necessarie per tirare l’erpice a maglie snodate ed il rullo. C’era poi da arrotare falci e falcette, ferrare gli zoccoli dei buoi e riparare gli attrezzi della cantina, quali i grossi cerchi in ferro che fasciavano le doghe delle botti rigorosamente di rovere. Tutto veniva pagato con lo scambio dei prodotti della terra per ogni lavoro effettuato.
Ma la storia galoppa. Nel 1965 nasce la ditta “Giosuè Otello & Remo” che assume fino a dieci operai. Nel nuovo capannone, costruito in un’area vicina alla vecchia fabbrica, era possibile realizzare lavori impensabili negli anni indietro. Si costruiscono strutture in ferro per impianti sportivi ed industriali di una certa dimensione. Il lavoro aumenta quando la ditta stringe il sodalizio con la “Nuova Pignone” del gruppo ENI che ha la propria sede a Firenze. La ditta “Giosuè & Remo s.n.c.” costruisce intanto una pressa di dimensioni notevoli: 3 per 12 metri, che permette di costruire pannelli in lamiera all’esterno ed all’interno rivestiti di cartongesso, attrezzati per pareti portanti, completi di porte e finestre, irrigiditi con nervature in acciaio, isolati con schiuma poliuretanica, pannelli che servono per le pareti esterne degli ospedali.
Nel vicino campo lavorato dal papà e dallo zio di Gianni, il trattore, un FIAT 125, cingolato da montagna, aveva sostituito la forza lavoro rappresentata dalle mucche. Il parco attrezzi: rastrelli in ferro, erpici, falciatrici meccaniche, aratri più pesanti, si era modificato in base a questa nuova forza motrice ed era soggetto a rotture continue. Si ricorreva allora alla saldatura presso la vicina ditta. Non c’erano più le grida a spronare le mucche ma era il rumore del trattore a lacerare l’aria e a rompere il silenzio della campagna. Nel nuovo capannone della ditta “Giosuè Otello & Remo”, il rumore della vecchia pressa si univa a quello del Maglio e della profilatrice da diciotto passaggi a rulli, che permetteva di realizzare lamiere, curve centinate e gregate, che servivano per la copertura dei capannoni. Voci e rumori segnavano il passaggio temporale, disegnandone quasi nuove identità personali e collettive.
Il piccolo borgo si animava soltanto alla domenica o nei giorni di festa, tra tutte quella di San Vincenzo Ferreri che cadeva con l’inizio della primavera. Arrivava la giostra con i seggiolini volanti, detta calcinculo. Sul prato antistante la vicina casa colonica di Stefoni Galizio, si piazzava un grosso telo ed alla sera c’era la proiezione di film strappa lacrime: “Catene“, “Le piccole orfanelle“. Gianni ricorda che al papà piaceva molto la recitazione di Amedeo Nazzari, un divo del cinema. Non mancavano le bancarelle con le girandole, le noccioline, i lupini, le bambole ed i giochi popolari: la corsa con i sacchi, la rottura delle pigne, la gara della pastasciutta, l’albero della cuccagna, il tiro della fune, il gioco delle carte o della morra. In qualche anno, quando si era trovato un bel gruzzoletto di soldi, si organizzavano corse ciclistiche per dilettanti ed alla notte, gli immancabili fuochi artificiali chiudevano il giorno di festa, nel corso della giornata poi non mancavano mai gli spari che aprivano la giornata, segnalavano il mezzogiorno e accompagnavano la processione di San Vincenzo Ferreri o le rogazioni per le campagne.
Non è il canto del bel tempo andato, perché anche allora tante cose non andavano affatto nel verso giusto. C’era anche allora chi si vantava di essere chissà chi e non era nulla. Anzi, tanti progetti non si realizzavano perché molti erano presi dalla fregola di voler sempre e comunque comandare. E’ l’antico difetto di queste nostre contrade “de volé sempre e comunque commannà”, retaggio di epoche non tanto lontane nelle quali si doveva pagare il pegno per piegarsi a soprusi di ogni genere.
Mi corre l’obbligo di una precisazione. Gianni è un nome del tutto inventato. Richiama il Gianni della Lettera a una professoressa: “Gianni non sapeva mettere l’acca al verbo avere. Ma del mondo dei grandi sapeva tante cose. Del lavoro, delle famiglie, della vita del paese” (Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, pag. 17). Gianni non sapeva esprimersi in un italiano corretto. Per forza la lingua che usava era quella del suo babbo mezzadro. Questi era riuscito ad avere il diploma di quinta elementare quando faceva il soldato. Aveva anche servito la patria in armi: Etiopia, Albania, Grecia. Aveva fatto tutte le guerre d’aggressione volute da chi sognava un’Italia dai grandi destini imperiali e parlava di colli fatali di Roma. Si sa poi come andò a finire: morte, distruzioni di ogni genere e guerra civile. Il papà di Gianni ritornò a casa con un’asma bronchiale contratta sui monti dell’Albania ai confini con la Grecia.
Gianni è uguale al Sandro o al Lucio della Lettera citata sopra. Quando scrivevano ci tenevano a dire che avevano aiutato il babbo nei lavori dei campi: “’ngo lo pacca jeppe su è gghiò’ pé’ li campi”. La maestra rideva divertita e segnava gli errori in rosso: “Bisognerebbe intendersi su cosa sia lingua corretta. Le lingue le creano i poveri e poi seguitano a rinnovarle all’infinito. I ricchi le cristallizzano per poter sfottere chi non parla come loro. O per bocciarlo” (Lettera a una professoressa, pag. 19). “Lo pacca jeppe” era il frangizolle. La jeppa era la zolla dura e compatta che doveva essere frantumata, prima con il frangizolle, poi con l’erpice a maglie snodate fino a rendere il terreno piatto e come levigato, pronto per la semina.
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