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Libri. Ian Bremmer, Noi contro di loro Il fallimento del globalismo

Noi contro di lorodi Raimondo Giustozzi

Il saggio di Ian Bremmer Noi contro di loro, il fallimento del globalismo, di 152 pagine, è stato pubblicato, prima negli Stati Uniti nel 2018, sempre nello stesso anno esce anche un’edizione italiana, EGEA, S.p.A. –  Milano. Il libro in questione è il volume 18° della collana geopolitica, capire gli equilibri del mondo, curata da Federico Rampini e edita dal Corriere della Sera su licenza EGEA S.p.A di Milano, nel luglio 2022. L’autore dirige il think tank Eurasia Group, uno dei più autorevoli centri mondiali di analisi sulle relazioni internazionali, l’economia globale, la geopolitica. Bremmer ha saputo prendere le distanze dall’ideologia del globalismo. “Anche grazie alle sue origini geografiche e sociali”- nato a Chelsea, nel Massachusetts, lontano dall’oro di Boston – “è riuscito a vedere quell’ideologia fallace con gli occhi dei tanti, troppi traditi: tutti coloro che nei Paesi sviluppati si sono sacrificati in nome della presunta efficienza di un mega mercato integrato a livello planetario” (Federico Rampini, Prefazione, in “Noi contro di loro, il fallimento del globalismo”, di Ian Bremmer, pp. 7- 9, Milano, 2022). (Nota errata corrige).

Il pensiero unico globalista, che ha dominato l’occidente negli ultimi trent’anni, oggi è in frantumi. La guerra in Ucraina, le sanzioni economiche, la nuova divisione del mondo  in blocchi, hanno solo accelerato e accentuato un movimento verso la de – globalizzazione, cominciato con la crisi del 2008. Non è lo smantellamento di ogni forma di integrazione internazionale, ma è pur sempre l’inizio di una storia diversa, con regole e nuovi protagonisti. “I fautori dell’apertura totale delle frontiere ai movimenti di merci, capitali e persone, hanno promesso un mondo un mondo a somma positiva, in cui tutti dovevano essere vincitori. La realtà ha fatto a pezzi la favola. Gli sconfitti della globalizzazione non hanno avuto altra scelta sul mercato politico se non quella di votare Brexit e Donald Trump. Bremmer, con la lucidità e l’onestà intellettuale che lo contraddistinguono, prende le distanze da quell’establishment politico che liquida i populismi come fenomeni deteriori, malattie della democrazia, virus politici dei bifolchi.

Nonostante la sconfitta di Donald Trump negli Stati Uniti e il declino di altri leader sovranisti, l’autore spiega le ragioni profonde che possono alimentare i populismi. Troppe categorie sociali soffrono tuttora per un impoverimento e un declassamento di status provocati dai grandi traumi della globalizzazione. Il loro futuro rimane incerto e precario. Hanno imparato a diffidare degli esperti, dei tecnocrati, la cui saggezza convenzionale è stata spesso asservita a interessi di parte. La base sociale dei populismi rappresenta il mondo in contrapposizione tra noi e loro. L’asse di divisione del mondo non è più tra destra e sinistra e neanche l’Occidente da tutti gli altri. E’ il divario che separa le élite da popoli spaventati che cercano protezione contro tutto, contro la competizione internazionale, contro l’immigrazione che abbassa i salari, contro l’innovazione tecnologica dirompente e distruttiva.

“Uno degli aspetti originali dell’opera è la capacità di allargare lo sguardo alle grandi nazioni emergenti. Il populismo non è un fenomeno tipicamente occidentale. Bremmer ne estende i confini dal Sudafrica all’Indonesia, dal Venezuela alla Turchia. Tutto ciò che sta accadendo rafforza la sua intuizione. Da Narendra Modi in India a Jair Bolsonaro in Brasile e Lopez Obrador in Messico, gli sviluppi più recenti continuano ad arricchire la casistica analizzata da Bremmer. In tutto il mondo, ricco o povero, masse di cittadini esprimono una richiesta congiunta di sicurezza e di riconoscimento, di protezione e di status, che le classi dirigenti elitarie e globaliste hanno ignorato con arroganza” (Ibidem).

Perché i palestinesi lanciano pietre? Si chiede l’autore del libro. Per attirare l’attenzione? Per migliorare le loro condizioni di vita? Per avanzare verso la creazione di uno Stato palestinese? Lanciano pietre perché vogliono che gli altri vedano che ne hanno abbastanza, che non sopportano di continuare a essere ignorati e che possono spaccare tutto. Presto ci saranno dei palestinesi in tutto il mondo. In tutto il mondo ci sono operai che temono di perdere il lavoro e il salario perché le dinamiche dell’economia globale e l’innovazione tecnologica li lasciano indietro. Le popolazioni locali temono che ondate di stranieri rendano irriconoscibili il volto e la voce del proprio paese. Temono i terroristi e i criminali che uccidono per motivi inspiegabili. Temono che lo Stato non possa o non voglia proteggerli. In preda all’ansia, diventano rancorosi (Ibidem, pag. 13).

Cresce negli Stati Uniti, come in molti paesi europei un senso dell’identità nazionale particolarmente forte, basato su affinità razziali, etniche e religiose. Gli attacchi terroristici, molti dei quali, come quelli di Parigi (2015), Bruxelles (2016), Manchester (2017), compiuti da Mussulmani nati in Europa, hanno aggiunto altra benzina sul fuoco dello scontro politico. La rabbia nazionalista e il rifiuto dei valori democratici dell’Unione Europea hanno preso piede soprattutto nell’Europa orientale e, in particolare, nei cosiddetti paesi di Visegrad: Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia (Ian Bremmer, Noi contro di loro, il fallimento del globalismo, pp. 29- 31). Questo non toglie il grande sostegno, dato dalla Polonia e da tutti gli altri stati dell’Est europeo, verso il popolo ucraino fatto oggetto di un massacro senza precedenti da Vladimir Putin in nome di un imperialismo zarista o ex sovietico.

Le paure e le angosce sembrano tranquillizzare tutti i perdenti americani, vittime della globalizzazione, finché non compare all’orizzonte Donald Trump che promette loro di riportarli indietro verso la terra promessa. I senatori Elizabeth Warren e Bernie Sanders, dal canto loro, mettono in guardia i loro fans entusiasti che le grandi imprese e le banche di Wall Street li stanno derubando. I sostenitori della Brexit incitano gli elettori a riprendere il controllo delle proprie frontiere e respingere leggi e regolamenti imposti dall’Europa. I populisti europei raccontano ai loro seguaci come guideranno la carica dei patrioti contro immigrati stranieri e agenti della globalizzazione. Questi capipopolo non invocano una riduzione delle imposte né un aumento della spesa, ma contestano il diritto delle élite di decidere le regole che governano la nostra vita” (Introduzione, pag. 14, ibidem, op. cit.). In mezzo tra quello che scrive Ian Bremmer (2018) e il nostro presente c’è la sciagurata guerra scatenata dalla Federazione Russa contro l’Ucraina (23 – 24 febbraio 2022).

Il libro di Ian Bremmer non è sulle pietre o sui danni che queste possono provocare. Le pietre sono un’espressione di frustrazione. Non risolvono i problemi. Invece, dobbiamo indagare più da vicino sulle fonti più profonde di questa frustrazione, su quelle che saranno probabilmente le risposte dei governi e sui modi in cui i leader politici, le istituzioni, le imprese, le scuole e i cittadini possono lavorare insieme per migliorare le cose. (Ibidem, pag. 14).

Il sogno americano si avvera per il giovane Ian Bremmer. Nato in un piccolo sobborgo del Massachusetts, lontano dal mondo dorato di Boston, un bel giorno la scuola superiore gli offre la possibilità di conoscere da vicino come funzionava l’America. Bastava avere un po’ di ambizione e essere disposti a viaggiare. Vestito di tutto punto, con giacca e cravatta, arriva assieme ad alcuni compagni nel centro della città (Boston). Salgono sugli ascensori e entrano in un ufficio megagalattico dove è ad accoglierli “Tim, un uomo che sembrava veramente felice di incontrarci. Aveva un’energica stretta di mano e ho avuto l’impressione che guardasse proprio me: Vi piacerebbe lavorare qui ha chiesto al gruppo. Uno di noi disse sì e gli altri fecero segno di assenso con il capo. Nessuno ve lo può impedire – ci disse e non permettete a nessuno di dire il contrario. Se volete avere successo, dovete solo studiare e lavorare con impegno. Sta a voi. Lui ci credeva e anch’io” (Ibidem, pag. 15).

Grazie a quel programma, Ian Bremmer ottiene una borsa di studio per il college. Consegue il PhD, lancia una società, fa soldi, va in TV, scrive dei libri. “Un ragazzo generato nella periferia difficile di una grande città americana, il figlio di una madre sola, (mio padre è morto quando avevo quattro anni), che con una rara determinazione ha guidato due ragazzi a evitare ogni trappola, proiettandoli verso il successo. Un piccolo esempio di Sogno Americano” (Ibidem, pag. 15). Se il sistema ha funzionato per me – si chiede l’autore del libro – ed è lo stesso sistema che ha fatto uscire centinaia di milioni di persone dalla povertà, perché non potrebbe funzionare per tutti?.

Non è stato così e non è così. Le prime avvisaglie di una rottura con il passato si hanno nel 1999 in occasione della riunione dell’Organizzazione mondiale del Commercio (WTO) nella cittadina di Seattle, negli USA, quando un gruppo di manifestanti colse a volo l’occasione per scagliarsi contro le multinazionali, il nucleare e contro ogni altra cosa. I globalisti non prestarono nessuna attenzione agli episodi di contestazione e violenza tra gruppi di ragazzi e i poliziotti incaricati di mantenere l’ordine pubblico. Nel 2008, la combinazione di anni di deregolamentazione finanziaria, scommesse sbagliate e malafede hanno affondato alcune delle maggiori banche del mondo. Le primavere arabe ebbero il potere momentaneo di catturare l’attenzione dell’occidente circa la possibilità di una transizione democratica del mondo arabo. Niente di più sbagliato. Con l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea, il globalismo ha avuto un’altra battuta d’arresto.

Venendo ai nostri giorni, la guerra della Federazione Russa contro l’Ucraina è un altro tassello di questo scenario antiglobalista. Pullulano partiti sovranisti ovunque, gruppi suprematisti, un altro bel modo per dichiararsi razzisti. Creare neologismi è diventato un vezzo per mascherare altro. Putin scrive che solo uno stato sovrano potrà raggiungere una crescita degna di tale nome. Si dimentica di dire però che nella guerra in corso non riconosce la sovranità di un altro stato, Ucraina, al quale toglie territori, risorse, rubandogli il grano, distruggendo intere città, bombardando civili inermi. Per il Cremlino possedere l’Ucraina è una questione di vitale importanza, perché la Federazione Russa ha bisogno di una profondità strategica. Stalin diceva che la Siberia è grande, là c’è posto per tutti, peccato che era ed è rimasto il luogo dove confinare gli oppositori politici o prelevare soldati da mandare al fronte in Ucraina, senza coinvolgere più di tanto altri territori della Federazione, quelli che gravitano attorno a Mosca o a San Pietroburgo.

A guerra ancora in corso, nella narrazione di Putin il Noi contro di Loro si trasforma in una sorta di crociata. Non basta più parlare di denazificare l’Ucraina, chiamare il governo di Kiev una banda di drogati. Si delineano altre ragioni tra le quali quella di una guerra contro l’occidente ateo, regno di  Satana e di assassini. Auspice il patriarca Kirill, l’alleanza tra il trono e l’altare fa precipitare la storia maledettamente indietro nel tempo (N.D.R.).

“Oggi la parola d’ordine è disuguaglianza. Abbiamo sempre saputo che il mondo era un posto di disparità, ma la maggior parte delle élite mondiali credeva che la globalizzazione fosse la soluzione,  non il problema. Intanto, mentre le élite si riunivano per deliberare, tra la gente cresceva la frustrazione. A Chelsea, nel mio vecchio quartiere, la gente è furiosa. Non crede più che il lavoro e l’istruzione siano la chiave. Non vede vie d’uscita e si sente ingannata. Mio fratello ha votato per Donald Trump, e se mia madre fosse viva, scommetto che l’avrebbe fatto anche lei. Sicuramente, non avrebbe mai votato per chiunque fosse stato a Washington negli ultimi trent’anni. Negli Appalachi come a Gaza, in America Latina, in Nord Africa e nell’Europa Orientale, la rabbia sta diventando la reazione più ovvia” (Ibidem, pag. 16).

“I globalisti si sono spaventati? Assolutamente no. Gli Stati Uniti e le economie globali hanno registrato una crescita nel 2017 e nel 2018 e non c’è nessuna rivoluzione globale in agguato, né una terza guerra universale che imponga a tutti un cambiamento di prospettiva. La rabbia della gente è una condizione cronica con la quale abbiamo imparato a convivere, dal momento che, per noi, l’attuale sistema funziona così bene. Cosa aveva detto Obama quando ha presentato la propria candidatura:? In tempi difficili, le persone che hanno perso i loro mezzi di sussistenza sono amareggiate, si aggrappano alle armi o alla religione o all’antipatia verso chi non è simile a loro o a sentimenti contro gli immigrati, contro il libero scambio come un modo per esprimere le proprie frustrazioni” (Ibidem, pag. 16).

I cinque capitoli del libro, declinati in paragrafi di diversa lunghezza descrivono tutte le ansie e le frustrazioni di chi non si riconosce più nella globalizzazione, mettendo l’accento sull’insicurezza economica, l’ansia culturale, la difficoltà di ritornare indietro. I segnali d’allarme circa i mutamenti in atto occupano tutto il secondo capitolo (pp.39- 53).  Le linee di faglia toccano dodici paesi: Sudafrica, la Nigeria, l’Egitto, Arabia Saudita, Brasile, Messico, Venezuela, Turchia, Russia, Indonesia, India e Cina, nazioni che hanno subito enormi cambiamenti negli ultimi venticinque anni. Ognuno di questi paesi ha i suoi punti di forza e di vulnerabilità. Insieme assommano a ben oltre la metà degli abitanti del pianeta e presentano anche la più alta percentuale di giovani. Il loro destino determinerà il futuro dell’intera economia globale del XXI secolo (Ian Bremmer, linee di faglia, pp. 55 – 84, in op. cit.). I muri che i governi costruiscono per proteggere chi è dentro da chi è fuori e lo Stato dal suo popolo i nuovi patti che si scrivono all’interno degli stati e non solo sono gli ultimi due capitoli del libro (Ibidem, pp. 85- 109).

Il libro si occupa delle conseguenze che il fallimento della globalizzazione si porta dietro. “Quando gli esseri umani si sentono minacciati, identificano il pericolo e cercano alleati. Usiamo il nemico, reale o immaginario, per radunare amici al nostro fianco. Questo libro affronta i cambiamenti politici, economici e tecnologici in atto nel mondo e le divisioni sempre più ampie che essi creeranno tra le nuove schiere di vincitori e perdenti (è il primo capitolo, pp. 19 – 38). Riguarda il modo in cui le persone definiranno queste minacce come lotte per la sopravvivenza, che presentano varie versioni di Noi contro differenti forme di Loro.

La conclusione cerca di dare delle indicazioni plausibili circa il futuro che ci attende: “Gli esseri umani usano la loro naturale ingegnosità per creare gli strumenti di cui hanno bisogno per sopravvivere. In questo caso, la sopravvivenza richiede che inventiamo nuovi modi di vivere insieme. La necessità deve diventare di nuovo la madre dell’invenzione” (Ibidem, pag. 135).

 

 

(Nota errata corrige). Nella recensione al libro di Federico Rampini: San Francisco Milano, l’oceano di mezzo, c’è un errore. Mi sono accorto dopo. Il volume di Rampini è il numero 17 della collana geopolitica, capire gli equilibri del mondo. Chiedo scusa al lettore (R. Giustozzi).

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