Dante, il Sommo Poeta, nei versi del poeta Giuseppe Tontodonati tradotti da Ottaviano Giannangeli
Nel 2021 ricorrono i 700 anni dalla morte di Dante Alighieri, il Sommo Poeta, all’anagrafe Durate Alighiero nato a Firenze nel 1265 e morto a Ravenna nel 1321. In tutto il mondo sono in corso iniziative per ricordare la sua figura e le sue opere a partire da quella “Commedia”, l’aggettivo “Divina” fu attribuito dal Boccaccio, che lo ha consacrato come padre della lingua italiana. Tante anche le celebrazioni in dialetto che si sono tenute e che si terranno nei prossimi mesi in diverse regioni della nostra penisola, perché se è vero che sono tanti i poeti in lingua che nel ‘900 hanno affrontato la figura di Dante (“Dante nella poesia del ‘900” di Maria Antonietta Grignani, 2012) Luzi, Caproni, Montale, Pasolini, Zanzotto e altri, è altrettanto vero che ci sono stati anche poeti dialettali che hanno dedicato versi al Sommo Poeta. Tra questi il poeta Giuseppe Tontodonati (1917-1989), abruzzese di nascita e bolognese di adozione, che fa riferimento a Dante Alighieri in due sonetti della sua vasta produzione poetica, uno dedicato all’alluvione di Firenze del 1966 e l’altro dedicato alla Poesia che, secondo Tontodonati, vede in Dante Alighieri la massima espressione. Per la loro valenza, questi due sonetti furono tradotti e commentati dal Prof. Ottaviano Giannangeli (1923-2017) in un articolo dedicato a Tontodonati scritto pochi mesi dopo la scomparsa del poeta abruzzese avvenuta il 6 gennaio 1989 a Bologna. Di seguito un estratto di quell’articolo pubblicato sulla rivista “La Regione – numero monografico dedicato al poeta Giuseppe Tontodonati”(Pescara, novembre 1989), parole che a distanza di 32 anni in questo anniversario dantesco tornano di attualità:
“…Il fatto è che, in Tontodonati, il paesano entra volentieri nel letterato e nell’intellettuale, nell’uomo impegnato socialmente e civilmente che avverte i grossi problemi del mondo presente e scudiscia senza inibizioni il malcostume contemporaneo e la degradazione della politica; e, viceversa, il letterato e intellettuale presta i suoi temi al paesano, talvolta arbitrariamente- Ad esempio, nel sonetto LVIII di “Storie paesane”, si parla dell’inondazione di Firenze (chi parla è il paesano Ndunducce). La prima quartina crea subito un quadro apocalittico, che do in versione letteralissima:
Nu mare lemaccióse de ditrite / arecópre le tombe a Ssanda Croce… / nu Criste sfehuràte ’n mod’ atroce / ’mmezz’ a lu fanghe sànguene firite…
Un mare limaccioso di detriti / ricopre le tombe a Santa Croce… / un Cristo sfigurato in modo atroce / in mezzo al fango sanguina ferito…
nell’ultima terzina del sonetto, il paesano, raccomandando a Dio di salvare Firenze, esce a dire:
falle pe llu Fijje / che ppruvì, core, dol’e smarremènde / gna scrivi ch’la tremenda prufizzìjje.
fallo per il Figlio / che provò, cuor mio, dolore e smarrimento / quando scrisse quella tremenda profezia.
Quando avevamo letto quella parola “Figlio”, con la maiuscola, noi saremmo andati, sull’onda della preghiera popolare, col pensiero a Cristo: invece si trattava di Dante Alighieri, che avrebbe dunque dovuto essere — per un uomo del popolo, in cui si calava evidentemente lo scrittore —il patrocinatore presso Dio della causa di Firenze. – Allora, quale giudizio potremmo dare, globalmente, della poesia di Giuseppe Tontodonati? Si tratta di un titanico tentativo di tradurre in parola dialettale un mondo regionale che gli urgeva e gli urgeva dentro…Una poesia che vive anche dell’empito straordinario con cui l’allievo aspira a raggiungerla. Proprio come in quest’ultimo dei tre sonetti (inediti) di “Lu libbre”, (Il libro) che Vittoriano Esposito accoglie nel suo “Panorama della poesia dialettale abruzzese” (pp. 199-201) e che Giuseppe Tontodonati dedicava al suo “Canzoniere d’Abruzzo”, che si fregia in sovraccoperta dell’effigie del Guerriero di Capestrano, visto come soldato perennemente in marcia (anche questo sonetto voglio rendere, non indecorosamente spero, in versi italiani):
Fìjja de Ggióve, eterna puvisìje!.. / Tu come miéle addúvece la térre / all’ôme ngustijàte da le huérre, / da li mústre rumbànde, da pirìje, // Da tembéste ch’le cójje pe la vìje / mendre pe le bbuscájje de sta sérre, / come nu mercenárie senzatérre, / cérche la luce e la piatá de Ddìje. // O sole, o vite, o acque de surgénde!.. / alle sése rehónfie de stu sème / Dande nutrì, ‘mmurtàle, nu cungénde… // E, ddope avé varcàte nghe lu rème / lu fiume de Carónte, le dulénde / spiágge guató… e furgió lu Puhème..! //
Figlia di Giove, eterna poesia! / Tu, come miele, dolce fai la terra / all’uomo angustiato dalle guerre / e dai mostri rombanti, dai pericoli, // dalle tempeste che per via lo colgono / mentre per le boscaglie della serra / a mo’ di mercenario senza terra / cerca la luce e la pietà di Dio. // O sole, o vita, o acqua di sorgente!… / alle mammelle di tal seme gonfie / immortale nutrì Dante un concento. // E, dopo aver varcato con il remo / il fiume di Caronte, le dolenti / spiagge guadò, forgiando il suo Poema!… //
I sonetti furono composti poco più di due anni prima della morte dell’autore ed hanno una valenza, appunto, testamentaria. – Raiano (AQ), Settembre 1989 – Ottaviano Giannangeli “.
I versi di Giuseppe Tontodonati tornano ad incrociare in qualche modo il Sommo Poeta nei numerosi sonetti dedicati alla figura di Celestino V raccolti nel volumetto “Sam Bbietre Cele” (San Pietro Celestino) pubblicato postumo nel 2007. Dante non lo cita espressamente, ma il verso “..colui che fece per viltade il gran rifiuto” (60° verso del III canto dell’Inferno) si ritiene unanimemente riferito a Celestino V, al secolo Pietro da Morrone. Incoronato Papa il 29 agosto 1294 a L’Aquila nella Basilica di Collemaggio, il Papa del gran rifiuto si dimise pochi mesi dopo il 13 dicembre dello stesso anno. Come ricorda il Prof. Marcello M. de Giovanni nella prefazione al volume sopra citato, un’antica tradizione, che però non ha un riscontro ufficiale, vuole Dante Alighieri presente all’Aquila all’interno di Collemaggio il giorno dell’incoronazione di Celestino V. Per questo gesto di “viltade”, Dante lo pone all’Inferno, mentre Tontodonati vede in quel gesto e nel conseguente martirio a causa del suo successore Bonifacio VIII, le basi per la sua santificazione.
De Fra’ Cele prufume la memòrie!., / e dde le Scare spòjje ‘nzanguenàte / se fà nu pedestàlle pe’ la glòrie.//
Di Fra Celestino profuma la memoria!.. / e delle Sacre spoglie insanguinate / si fa un piedistallo per la gloria //.
Raffaello Tontodonati
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