di Valerio Calzolaio
Comunque si chiami, ovunque si trovi, qualunque palestinese oggi vivente è un profugo, figlio nipote pronipote di una profuga e/o di un profugo. La sua identità non è mai chiaramente certificata. La carta d’identità ha colori diversi a seconda del territorio e dello Stato dove si trova, se esce dalla residenza istituzionale così denominata ha bisogno di uno specifico passaporto validato da una propria autorità non sovrana (e non costituzionale), da qualche altro Stato (obbligatorio è il nullaosta israeliano) e, in parte, dall’United Nations Relief and Works Agency for Palestine Refugees, UNRWA, l’apposita agenzia creata dalle Nazioni Unite nel biennio 1948-1949, il momento in cui ogni palestinese allora vivente nel luogo definito dalla comunità internazionale come “Palestina” fu reso un “rifugiato”, ovvero secondo la stessa Onu un individuo “il cui normale luogo di residenza è stato in Palestina tra il giugno 1946 e maggio 1948, che ha perso sia l’abitazione che i mezzi di sussistenza a causa della guerra arabo-israeliana del 1948”.
Nella storia umana sul pianeta è sempre complicato nominare un luogo o un ecosistema dal punto di vista di tutti i sapiens. Nessuno sa il primo che ci capitò della nostra specie, i primi che vi si insediarono, i primi che vi si estinsero, i successivi che vi arrivarono e vi si mescolarono. “Indigeno” è sempre riferibile a chi ci trovano gli “alieni” successivi. Nel corso del Paleolitico sono note le stratificazioni nello stesso luogo o ecosistema (pure molto evoluto per frequenti cambiamenti morfologici e climatici, alcuni ciclici) di più specie umane, non solo di gruppi della nostra specie. Nel corso dei millenni del Neolitico ogni luogo umano o ecosistema umano sono stati occupati da individui Homo sapiens ormai già divenuti meticci, una mescolanza di migrazioni e contaminazioni, pure culturali.
La storia dei nomi dei luoghi o degli ecosistemi contemporanei non è univoca, ogni voce di un dizionario toponomastico contiene più denominazioni e spesso più origini di ognuna di esse. Quel che accade per il medio oriente mediterraneo è frequente, le domande sono destinate a restare senza una risposta consensuale universale: quando sono stati messi i primi confini consensuali fra gruppi e popoli? Quanto erano comunque mescolate da sempre origini geografiche (intercontinentali) e fedi religiose (alternative)? C’erano prima israeliani o palestinesi? Ebrei o musulmani? Palestina o Israele? Ovviamente si possono leggere molte storie scientifiche a riguardo, meglio leggerle tante anzi, e di lingue diverse. Tuttavia, i millenni intersecano guerre vincitori vinti: la conclusione resta conflittuale, nasce da contrasti, riproduce opposizioni. E la diaspora palestinese ha una storia lunga e complessa, comunque non tutti i palestinesi sono mai stati solo negli attuali “territori palestinesi” e non tutti i palestinesi sono musulmani.
Circoscriviamo il campo, torniamo a quando era finita la seconda guerra mondiale e c’erano le autorità statuali e internazionali che ancora esistono, oggi che sono trascorsi oltre settanta anni, fra le tre o le quattro o le cinque generazioni umane dopo. Dopo secoli di dominio turco, alla fine della prima guerra mondiale (“persa” dai turchi) fu deciso un protettorato britannico sulla “Palestina” e molto si cominciò a discutere (e fare, anche con spostamenti di massa) sul destino istituzionale di quell’ecosistema ibrido e meticcio. Il genocidio nazista degli ebrei non fu impedito e risultò l’apice di una storica inaccettabile diffusa violenta avversione alla religione ebraica. L’appena nata Onu aveva subito previsto uno specifico prioritario comitato sulla Palestina, l’UNSCOP (United Nations Special Committee on Palestine), che approfonditamente discusse se e come affrontare l’immigrazione in quel territorio dei rifugiati europei ebrei, vittime scampate all’olocausto. Nel 1922 la popolazione ebraica era di 83.790 unita su un totale di 752.048 persone, pari all’11,14% della popolazione totale dell’allora cosiddetta “Palestina”, nel 1947 circa di 610.000, considerati “coloni”, un terzo del totale residente. Si rifletté su varie opzioni, anche su uno stato federale oppure su due Stati (Gerusalemme sotto controllo internazionale) e quest’ultima fu la decisione dell’Onu a fine 1947, certo non presa con il pieno consenso delle popolazioni coinvolte, fra atti di terrorismo e ricorsi internazionali.
Il 14 maggio 1948, contestualmente al ritiro degli ultimi soldati britannici alla vigilia della fine del mandato, il Consiglio Nazionale Sionista, riunito a Tel Aviv, dichiarò costituito nella terra di Israele lo Stato Ebraico, Israele, anche se non tutti i cittadini ebrei coinvolti erano d’accordo. Uno dei primi atti del governo israeliano fu quello di abrogare le limitazioni all’immigrazione. Gli arabi palestinesi (che in parte si erano opposti alla soluzione con due stati proposta dalla Risoluzione ONU 181) non proclamarono il proprio stato e alcune nazioni arabe confinanti confermarono apertamente le ostilità contro Israele. Come è noto, il conflitto, più o meno cruento, esiste da allora e, quel che qui rileva, i palestinesi sono diventati stabilmente “rifugiati”, in quella che considerano la loro “patria” e nei campi profughi dell’Onu, in quel territorio e all’estero, in esilio e nei paesi arabi mediorientali; con innumerevoli dinamiche di cittadinanze, status, emigrazioni, immigrazioni, colonizzazioni, occupazioni, migrazioni forzate.
A maggio 2021 vi è stata una nuova “guerra” dichiarata, la dodicesima ufficiale in 73 anni, ora sembra in corso una tregua, speriamo duratura. Ma chi sono oggi i palestinesi? Essere rifugiato è in teoria e nel diritto internazionale uno status eccezionale, straordinario, transitorio. L’Onu certifica che non si è “padroni” del proprio destino, i singoli non sono autonomi, la struttura istituzionale collettiva non è riconosciuta né riconoscibile; il titolare di quello status è un singolo individuo che ha diritto ad asilo: protezione internazionale, accoglienza materiale, assistenza finanziaria, cooperazione economica. Nei 75 anni dal 1946 l’Assemblea generale dell’Onu ha votato oltre 700 risoluzioni, il relativo Consiglio di sicurezza oltre 100; sono stati esaminati almeno 200 piani di pace, presentati a vario titolo, discussi in differenti sedi formali e informali, aggiornati in lunghi periodi di incontri e mediazioni. Durante questo tempo in ogni Stato democratico si sono svolte decine di elezioni: in ogni nazione sono cambiati Capi dello Stato repubblicani o monarchici, presidenti del consiglio e ministri; i cittadini di ogni nazione risultano permanentemente individui con diritti e doveri propri di quello Stato; talora vi sono stati regimi e rivoluzioni, crimini pubblici e corruzione, manifestazioni e svolte, cittadini emigranti e immigrati. I palestinesi sono rimasti sempre e solo “rifugiati”, non cittadini con le stesse dinamiche di una comunità (nel bene e nel male), invece senza nessuna regola e istituzione collettiva pubblica autonoma, “non” responsabili di un territorio (quella che noi chiamiamo “Costituzione”).
Come è noto, quando aiutiamo con denaro un altro paese in difficoltà, accade spesso che i fondi non arrivino presto e bene a chi ne ha davvero bisogno, possono restare in mano dei governanti pro tempore. Quel paese è comunque “sovrano”, il sostegno a dittature si copre talora di questo alibi, connesso anche agli interessi legati a possibili affari in quel paese, al fatto che quel paese vota all’Onu, a opzioni geopolitiche, alla consapevolezza che sono i paesi “sovrani” che possono dichiarare le guerre. Non esiste una “sovranità” palestinese, ovvio che tanti aiuti si aggiungano alla minima assistenza Onu, finanziando questa o quella organizzazione “privata” e mantenendo il circolo vizioso dell’instabilità e dei conflitti in tutta quell’area, non solo nella Palestina; tanto più che da 54 anni altri territori sono stati occupati dallo Stato di Israele e che da decenni non cessa un’ulteriore colonizzazione fatta di espropri e insediamenti illegali. Le stesse esigenze israeliane di “difesa” sono spesso prevalentemente legate alla lotta politico-parlamentare interna più che al diritto internazionale, pur senza affrontare qui il merito dell’ideologia sionista. Non tutti gli ebrei risiedono in Israele e non tutti i cittadini israeliani sono ebrei. Vale qualcosa di analogo per ogni Stato del mondo.
Facciamo un esempio pratico. Uno stato sovrano gestisce fra l’altro il passaporto, l’entrata e l’uscita dal proprio territorio. Fatta salva la specifica dinamica di chiusure provocata dalla pandemia, nella classifica globale dei paesi in base alla libertà di viaggio dei titolari di passaporto ordinario (al contrario di quelli diplomatici), uscire ed entrare nei cosiddetti “territori palestinesi” è consentito verso e da meno di quaranta Stati, uscire e entrare da uno Stato europeo verso e da circa centocinquanta Stati, basta vedere l’Henley Passport Index, aggiornato anno per anno. In questa situazione nel 2019 vi erano 5,6 milioni di rifugiati palestinesi sotto il mandato Unwra, circa il 7 per cento del totale dei profughi nel mondo. Nel 1948, all’inizio i palestinesi Refugees erano fra 0,7 e 2,2 milioni (a seconda delle definizioni), ora oltre cinque, i figli dei figli dei figli dei figli. Sono gli stessi sapiens di allora, nessuno ha mai cessato di essere profugo, tuttalpiù è divenuto profugo “discendente”. Non a caso, è rara l’esistenza di ambasciate palestinesi nel mondo (in Europa solo la Svezia la ha), pur se 135 dei 194 Stati dell’Onu riconoscerebbe teoricamente uno Stato palestinese.
Fra qualche settimana verranno resi noti i complessivi dati del 2020, l’anno della pandemia da Covid-19, il 20 giugno si celebra infatti la “giornata mondiale dei rifugiati”. Fra interni e internazionali i “delocalizzati” sul pianeta non sono variati molto di numero negli ultimi anni, con una tendenza alla leggera crescita. Il problema è la durata la “delocalizzazione”. Per la maggioranza dei profughi interni (internally displaced people) si tratta di poco tempo, spesso meno di un anno; per la maggioranza dei Refugees si tratta mediamente di molti anni, per la metà di oltre cinque anni, pur se è difficile che si raggiunga una generazione; i palestinesi sono “delocalizzati” da generazioni, ovvero da quando esiste lo status internazionale di Refugee, la loro identità profuga (i loro nomi e cognomi di profughi) non sono mai cambiati. Spesso si dimentica questo dato della realtà, se non lo si cambia difficilmente vi saranno giustizia e stabilità all’orizzonte. Occorre dare sovranità costituzionale alla comunità palestinese, al cui interno evolveranno e si autodetermineranno (come in ogni comunità nazionale) scolarità e analfabetismo, sani e malati, lavoratori e nullafacenti, simpatici e antipatici, buoni e cattivi, civili e poliziotti, rispetto delle regole e comportamenti perseguibili (dalla loro stessa autorità), continuità territoriale e gestione delle risorse, arte e scienza. Quella sovranità era urgente e obbligatoria nel principio dei “due Stati” affermato nel 1947-48, quella sovranità esplicita è indispensabile oggi accanto allo Stato di Israele.
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