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Covid 19, la paura delle varianti che ci fa scoprire gli schiavi dei campi

Fonte internet

Fonte internet

di   Goffredo Buccini

30 aprile 2021 Corriere della Sera

 

Agro Pontino, a un’ora da Roma si cercano alcune centinaia di sikh, appartenenti a una comunità di circa trentamila indiani ormai stanziali, quali possibili vettori umani del virus mutato

 

Il Covid-19 è una lente d’ingrandimento puntata su guasti da cui tendiamo a distrarci: un monito che può perfino migliorare la nostra comunità, a saperlo intendere. La nuova ondata di paura, che monta adesso con la variante indiana e le sue incognite, sale ad esempio da un allarme in apparenza abbastanza localizzato ma del quale potrebbe essere utile cogliere il senso generale, la lezione che sembra impartire a tutti coloro che si voltano dall’altra parte di fronte alle iniquità: come, in fondo, capita talvolta a ciascuno di noi. Nell’Agro Pontino, a un’ora di macchina da Roma, medici e protezione civile tentano di rintracciare alcune centinaia di sikh, appartenenti a una comunità di circa trentamila indiani ormai stanziali in quelle zone, quali possibili vettori umani del virus mutato.

 

Chi sono costoro e perché si trovano qui? Sono i lavoratori dei campi, quei miti omini barbuti dal turbante arancione che i vacanzieri di Sabaudia o del Circeo possono intravedere talvolta di scorcio, sudati e chini sulle zolle, passando in macchina accanto a un campo di pomodori o di zucchine nel tragitto verso la spiaggia delle famose dune care a Moravia e Pasolini. Sono, e sono stati, anche la fortuna della filiera agricola della provincia di Latina, perché costano nemmeno un terzo dei braccianti italiani, accampano zero diritti, si lasciano sfruttare assai facilmente.

 

Almeno cinquemila di loro sono irregolari, per via di permessi scaduti o mai neppure ottenuti. Tutti hanno sgobbato per anni in silenzio, chiamando «padrone» il signorotto italiano del campo, spesso imbottiti di anfetamine dai suoi sgherri per rendere al di là dell’umana resistenza: in tredici negli ultimi tre anni, non resistendo più, si sono suicidati. Se le parole hanno un senso, i sikh dell’Agro Pontino sono in buona parte schiavi, anche se non più invisibili come prima: perché da tempo un coraggioso sociologo del posto, Marco Omizzolo, li ha studiati, ha riempito denunce e dossier contro i caporali, e ha infine organizzato il loro primo sciopero, ricevendone in cambio un titolo di Cavaliere al merito dal presidente Mattarella e minacce di ritorsione dal sistema agromafioso (che, nota Eurispes, sviluppa su base nazionale un business da 25 miliardi di euro l’anno e governa a tutt’oggi la grama esistenza di circa 450 mila lavoratori e lavoratrici nelle campagne italiane).

 

Questo sistema, del quale – ricordiamolo – si avvantaggia parte della filiera agricola anche legale, si regge su irregolarità e oscurità: proprio gli spettri che, in tempi di Covid-19, si rivolgono adesso contro di noi. Perché gli schiavi e gli invisibili sono restii a farsi ritracciare per definizione, temendo che un ricovero significhi perdere la misera paga giornaliera se non addirittura il rimpatrio forzato, e dunque sappiamo che circa sessanta o settanta braccianti stanno male ma vanno ugualmente a lavorare, che quasi trecento potrebbero essere positivi ai tamponi: la speranza, dal nostro angusto punto di vista, è che portino addosso solo il Covid «tradizionale», addomesticabile dai vaccini, e non quello ancora sconosciuto e mutato in India, da dove alcuni sono arrivati nelle ultime settimane, prima che alzassimo le barricate sanitarie.

 

L’infamia di questo ragionamento contiene una morale facilmente intuibile: la moderna schiavitù è una peste che infetta non solo chi la subisce ma anche chi la pratica. Perché non è difficile capire che gli schiavi delle campagne laziali potrebbero generare un cluster. Ne basterebbe anche solo il timore per provocare conseguenze gravi sul turismo del litorale e del Lazio, tali da assestare il colpo di grazia ad albergatori, ristoratori, balneari. La scelta di limitare, per ora, la zona rossa a Bella Farnia, la frazione di Sabaudia dove i sikh vivono in condizioni assai precarie, rientra appunto nell’ottica di limitare il danno.

 

Ma la questione bracciantile ha una ricaduta generale ancora più larga. È di un mese fa, su queste colonne, la constatazione che la sanatoria voluta nel 2020 dall’allora ministra Teresa Bellanova, a fronte di un’emergenza provocata dall’incrocio sul nostro territorio tra 600 mila stranieri irregolari e la pandemia, si è tradotta in un fallimento per mancanza di univoca volontà politica e per le strutturali lentezze della nostra macchina burocratica. Rivolta soprattutto ai lavoratori dei campi, è stata colta quasi solo da colf e badanti, e con esiti assai scarsi. «Oltre 207 mila persone si sono fidate dello Stato», scriveva proprio sul Corriere la Bellanova. Vero e confortante. Ma al 9 marzo, stando a un’interrogazione parlamentare del deputato Riccardo Magi, il numero delle domande finalizzate a sei mesi dalla chiusura dei termini era inferiore all’1% di quelle presentate. Un flop, salutato dalla destra come una vittoria del fronte anti-immigrazione. A raccontarci quanto sia miope questa posizione non c’è solo l’Agro Pontino, ci sono le cento baraccopoli, con altrettante etnie di migranti, sparse da Nord a Sud, ovunque la filiera agroalimentare abbia bisogno di braccia a buon mercato: potenziali focolai, un tempo di tensioni fra ultimi e penultimi, adesso anche di contagio.

 

Posto che gli irregolari esistono (e nemmeno un ministro molto di destra è riuscito a diminuirne il numero, anzi), prendersela con chi vuole regolarizzarli è come mordere il dito che indica la luna. Il Covid-19, nel suo infinito orrore, ha il merito di avere strappato un velo. L’umanità dolente, che prima sfruttavamo senza darcene pena, adesso ci sgomenta: perché non censita, perché non vaccinata, perché altro da noi. Joban Singh, l’ultimo sikh suicida, aveva implorato i padroni di regolarizzarlo: loro gli avevano chiesto in cambio diecimila euro, consegnandolo ai suoi demoni e alla nostra indifferenza. Un Paese che promette di rinascere dalla pandemia più giusto e più equo non può distogliere ancora lo sguardo.

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