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Libri. Sei recensioni

Fonte internet

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Recensione Terra Alta

Terra Alta

Javier Cercas

Traduzione di Bruno Arpaia

Noir

Guanda Milano

2020 (orig. 2019)

Pag. 377 euro 19

Valerio Calzolaio

Gandesa, Terra Alta, Catalogna. Giugno 2021. Il poliziotto quasi trentenne Melchor Marín è ancora in ufficio durante il turno di notte. Quasi all’alba lo avvisano che ci sono almeno due morti nella masseria degli Adell, arrivando li ha trovati la cuoca ecuadoriana, due fagotti sanguinolenti. I cadaveri nel salone, meticolosamente torturati e mutilati, sono i due anziani religiosi ricchissimi padroni di casa, l’ultranovantenne austero imprenditore Francisco era il padrone della Gráficas Adell e di mezza cittadina. Hanno ucciso anche la domestica romena, nella sua stanza con un colpo in fronte. Non ci sono tracce di furto. Arrivano i vari poliziotti della zona. Melchor pensa che la scena sembri un rituale opera di professionisti, dice qualcosa ad alta voce, non tutti sono d’accordo. Il viceispettore Barrera, il sergente Blai e l’intera locale piccola Unità investigativa al completo lascia spazio e comando al viceispettore Gomà, nuovo capo dell’Unità territoriale di Tortosa, che forma una squadra con i propri agenti, quelli della Scientifica e solo due di Gandesa, Melchor e il caporale Salom. Lavorano per settimane; sospettano dell’aitante marito dell’unica figlia, del vecchio amministratore delegato, di altri dirigenti dell’azienda; riflettono sulla recente affiliazione all’Opus Dei e sulle motivazioni possibili della crudele esecuzione; ma non trovano indizi e piste. Melchor è felicemente sposato, s’intestardisce comunque, ha una storia precedente a Barcellona di adolescenza criminale e di investigazioni solitarie che lì pochi conoscono. Madre prostituta e padre ignoto, orfanatrofio, aveva presto cominciato a spacciare, era finito in galera. Dentro, aveva deciso di entrare nel corpo dei Mossos, soprattutto per trovare gli assassini della madre. Ci era riuscito e nel 2017 si era trovato a eliminare con grande mira e successo un gruppo terroristico. Poi, per proteggerlo, lo avevano allora spedito nella Terra Alta, dove aveva incontrato l’amata Olga (più grande di 15 anni) ed era nata la piccola Cosette.

Splendido romanzo del filologo, traduttore, saggista e grande scrittore spagnolo Javier Cercas (Ibahernando, Cáceres, Estremadura, 1962), alta letteratura. La narrazione è in terza persona fissa sul protagonista, alternando capitoli sull’efferato delitto contemporaneo (al presente) e capitoli sulla sua biografia (al passato), segnato dalla lettura in carcere di una spessa opera in due volumi, I Miserabili. Finì quel romanzo commosso, con la certezza di non essere più la stessa persona che aveva iniziato a leggerlo, e che non lo sarebbe più stata, innanzitutto perché scelse di continuare a leggere molto. Analoga certezza avrà molti anni dopo, conosciuta e sposata Olga, la bella bibliotecaria del paese. Nel corso del tempo lo rileggerà ancora centinaia di volte e gli accidenti esistenziali lo porteranno a identificarsi nel profondo, nei vari momenti, con ognuno dei personaggi principali. E, a capire meglio, contraddizioni e plurivalenze della storia collettiva e delle vite personali, lui che ha imparato a fare a meno di cocaina e alcol, beve solo Coca Cola. Non a caso, anche rispetto alla guerra civile spagnola (che molto interessò la Terra Alta), Olga osserva che “le vere ferite sono altre. Quelle che nessuno vede. Quelle che la gente tiene segrete. Sono quelle che spiegano tutto”. Del resto, la vita civilizzata consiste nell’imparare a convivere in maniera ragionevole con la frustrazione. La Terra Alta è una delle 41 comarche della Catalogna, con una popolazione di quasi 13 mila abitanti; fa parte della provincia di Tarragona (che comprende 10 comarche); appare come una povera pietraia di perdenti, un territorio scosceso, deserto, inospitale, agreste e isolato, a circa due ore mezza di macchina da Barcellona, verso sud (da cui il titolo). Buon vino rosso a chilometro zero con abbinamenti italiani: aceto di Modena, maccheroni alla bolognese. Non ha alibi chi resta a casa da solo ad ascoltare l’opera, quella sera Il crepuscolo degli dèi del maestro Wagner.

 

v.c.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Recensione Il gran teatro del mondo

 

Il gran teatro del mondo. Sul potere dell’immaginazione nell’epoca del caos

Philipp Blom

Traduzione di Francesco Peri

Storia

Marsilio Venezia

2021 (orig. 2020)

Pag. 140 euro 16

Valerio Calzolaio

Festival di Salisburgo. 1920-2020. Il Festival di Salisburgo (Salzburger Festspiele) è uno dei più importanti festival musicali mondiali, musica classica e opera lirica nella città di Mozart. Fu fondato nel 1877 ed ebbe vita altalenante per decenni, finché venne ufficialmente “rifondato” il 22 agosto 1920 con una rappresentazione di Hugo von Hofmannsthal, su un palco all’aperto, sito nella piazza del Duomo, rappresentazione divenuta poi una tradizione, ripetuta tutti gli anni sempre nello stesso posto. La stagione del festival è l’estate, per cinque settimane da fine luglio all’intero agosto: opere liriche, concerti sinfonici, recital, lavori teatrali, rassegne e altri generi di spettacolo. Per il 2020, in piena pandemia, presidentessa e direttore artistico hanno chiesto allo studioso tedesco Philipp Blom di scrivere un saggio riferito al centenario, lasciandogli carta bianca sulla scelta dei temi. Blom ha deciso di parlare delle grandi narrazioni collettive nelle fasi di gravi rivolgimenti storici. Un secolo fa i padri fondatori del festival, in anni d’incertezze geopolitiche, lo impostarono come “progetto di pace” (il drammaturgo Hofmannsthal) e “cibo per i bisognosi” (il regista Max Reinhardt): il teatro come strumento per inventare immagini nuove, dischiudere spazi sperimentali, creare concetti e sentimenti comuni di una futura condivisa realtà esistenziale per far fronte a crisi globali. Così si tentò allora dopo la prima guerra mondiale, così servirebbe oggi per narrare il bivio fra la possibile catastrofe climatica e la possibile catarsi della sopravvivenza umana sulla Terra. Non c’è dubbio: sempre più la specie sapiens “ha imparato a sopravvalutarsi, a prendersi dannatamente sul serio in un mondo nel quale contava poco o nulla… in chiave narcisistica…: l’essere umano è un organismo che comunica con i propri simili per mezzo di un grande teatro, il teatro del mondo” (da cui il titolo adottato dall’autore).

Il multidisciplinare giornalista e storico Philipp Blom (Amburgo, 1970) realizza un efficace colto affresco del narrare l’ignoto durante le svolte degli ecosistemi antropici negli ultimi secoli. Il volume è distinto in un prologo e cinque parti, inframezzate da cinque brevissime “ferite narcisistiche” che hanno ritardato le acquisizioni di grandi scienziati fisici e sociali (Galileo, Darwin, Freud, Hubble, Latour). Ogni parte ha due o tre capitoli che prendono spunto da un autore o da un libro o da un movimento o da una consapevolezza prioritaria per ripercorrere alcune crisi anche narrative del passato e ricavarne spunti: Calderón, il saggio dell’autore stesso sulla Piccola Era Glaciale (intorno alla metà del XVI secolo), Shakespeare, l’Illuminismo, la pompa a vapore, i combustibili fossili, i cambiamenti climatici antropici globali, Arendt, Bauman, Flusser, Gay, Polanyi, Rorty, Lévi-Strauss, Scott, Sennett, de Waal (autori poi citati nella bibliografia di approfondimento); sempre rimarcando come i nuovi pensieri abbiano preso piede tra la gente comune e l’opinione pubblica attraverso scrittori, e artisti, romanzi e teatro, dibattiti e articoli. Cita a proposito anche Gramsci: “La crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere. In questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati”. In esergo delle parti e dell’intero testo vi sono frasi di intellettuali d’età contemporanea e alcune lamentazioni dell’Antico Egitto. Se non vi è mai stata prima una vera età del (nostro) benessere condiviso, allora “manchiamo dei riflessi e del patrimonio di esperienze necessari per gestire una situazione di abbondanza protratta nel tempo”, nella quale la catastrofe climatica sta conducendo il pianeta a superare limiti biofisici. Il palcoscenico del dibattito sociale ha allora bisogno di nuovi copioni e di nuovi personaggi (come Greta), di trovare nuove immagini all’altezza della sfida: ecco il “progetto di pace” del presente. Tutto il resto ne consegue, anche a teatro, luogo di autoesame, di reinvenzione di sé.

 

v.c.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Recensione Mastro Titta e l’accusa del sangue

 

Mastro Titta e l’accusa del sangue

Nicola Verde

Giallo

Frilli Genova

2021

Pag. 303 euro 14,90

Valerio Calzolaio

 

Roma. 1869 e 1859. A gennaio 1869 il giornalista scrittore Ernesto Mezzabotta torna a trovare il 90enne Giambattista Bugatti, detto “Mastro Titta”, bevono insieme un rosso dei Castelli. La precedente visita gli aveva garantito l’uscita di un bel fascicolo di memorie e il libro aveva avuto notevole successo, Perini editore. Bugatti era stato il boia al servizio dei papa per quasi settant’anni, ha decapitato oltre cinquecento condannati; ormai da cinque lo hanno messo a riposo, in pensione con un vitalizio mensile di 30 scudi; vive sopra la bottega dove faceva pure l’artigiano, l’ombrellaio, ora sprangata. Sa di avere i giorni contati, i soldi che riceverà potrebbero servire per un buon funerale, accetta di raccontare altro, continua a percorrere a ritroso alcuni casi particolari nei quali si è imbattuto. Il primo “caso” si era svolto fra il 1861 e il 1864. La seconda “faccenda” ripercorre vari mesi dopo la primavera 1859 con un prologo a Bologna nel giugno 1858, la famosa vicenda Mortara: Edgardo, un bambino ebreo malato, battezzato all’insaputa dei genitori per evitare il “limbo”, fu prelevato dai gendarmi e sottratto alla famiglia perché fosse allevato secondo i dettami della religione cristiana, sulla base del “favor fidei” prevalente su ogni altro diritto (compresa la potestà genitoriale), assegnando priorità alla salvezza dell’anima. Mesi dopo un caso analogo potrebbe essere avvenuto a Roma: scompare Charles Reynard, un neonato ebreo di poche settimane, non più di un paio di mesi, portato via da Amelia Corvaro, giovane fantesca di un ufficiale francese, il padre del frugoletto, che presta servizio nella caserma Serritori, dove alloggia insieme alla moglie. La donna ha pochi baiocchi, cerca in bottega Amilcare Laudadio, l’amico ispettore di Mastro Titta, si dirige verso il porto, vorrebbe aiuto e denaro per fuggire, ma incappa in varie drammatiche disavventure: molti gli inganni, i crimini, le sopraffazioni e i morti.

Il bravo scrittore romano Nicola Verde (Succivo, Caserta, 1951) prosegue la serie di accurati gialli storici dedicata al vero fervente papalino Giovanni Battista Bugatti (Senigallia, 6 marzo 1779 – Roma, 18 giugno 1869). Il caso Mortara è storia (e forse presto un film), l’”Affaire Reynard” non c’è mai stato, ma è la riuscita occasione per raccontare innanzitutto lo scontro religioso legato ai battesimi forzati e la calunniosa “accusa del sangue” agli ebrei di uccidere e mangiare i bambini cristiani secondo il presunto uso ashkenazita (da cui il titolo); poi il discutibile papato di Pio IX e i torbidi intrighi di “corte”, la costituenda alleanza franco-piemontese contro l’Austria alla vigilia dell’Unità d’Italia, la Roma ottocentesca puzzolente e seducente. La narrazione è per intero in terza varia al passato, un po’ su tutti i personaggi, pur se saldo è il legame fra i tre amici, investigatori per ragioni private: Mastro Titta, il giovane Amilcare (che aveva avuto una storia d’amore con Amelia) e il poeta e tornitore 87enne Giuseppe Marocco d’Imola, innocuo simpatizzante dell’Italia unita. La bibliografia finale, pur dichiaratamente essenziale, mostra l’attento lavoro effettuato per inserire soggetto e schemi della fiction all’interno di un contesto storico realistico. Alla locanda del giudìo, fuori dalla recinzione del Ghetto (fra segregazioni e autorizzazioni) si mangiano ovviamente ottimi carciofi fritti e baccalà, come pure l’amatriciana e i maccheroni (alla milanese). Il ragazzino che vende giornali, più o meno leciti, canticchia un’aria da Un ballo in maschera di Verdi.

 

v.c.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Recensione Libro di furti

 

Libro di furti. 301 vite rubate alla mia

Eugenio Baroncelli

Microbiografie

Sellerio Palermo

2021

Pag. 293 euro 14

Valerio Calzolaio

 

Esistenze. Ovunque. Nel “Libro di furti” il ravennate Eugenio Dedi Baroncelli (1944) gioca ancora splendidamente con le parole, con singole storie (più o meno famose) e con sé stesso. In esergo, due frasi su pagine diverse: “Al vento, non importa quale, che manda all’aria gli scialli delle donne e le parole per dirlo”; “Penso: La mano con cui scrivo mi deruba del pensiero”. Rendono l’idea. Quando Eugenio va a dormire, Baroncelli rammenda vite incomplete, poche frasi ciascuna, raggruppate in ordine alfabetico per voci (poche tornano in più d’una): Alienati e alieni (Poe, per esempio), Bestiario (Proust), Carta bianca (Foucault), Carta cantava (i Sellerio, Marx), Come le foglie ((Joyce), Giro di morte (Lolita), Montaliana, Questi fantasmi (Seneca), Racconto delle due città (Ravenna e Rimini), Remake, Ritratti di famiglia (due dei suoi morti preferiti), Russe e russi, Secondo furto (Darwin), Vestirsi, Stanze, Le vite parallele (Gadda & Kafka). Un gioco di maestria curioso e divertente.

 

v.c.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Recensione Rumore

 

Rumore

Bruce Weigl

Traduzione e cura di Giulio Segato

Introduzione di Raffaella Baritono

Poesie

Ventura Senigallia

2021 (orig. 1980-2019)

Pag. 151 euro 13

Valerio Calzolaio

 

Stati Uniti. 1965-1975. Da sempre vi sono potenze che influenzano aree lontane. Da secoli alcune condizionano con armi e commerci ecosistemi distanti dalla propria comunità, colonie, Stati indipendenti. Per l’identità e l’immaginario degli USA la relazione con il Vietnam è cruciale, in particolare dopo che Johnson decise nel 1965 di inviare unità combattenti fino al ritiro nel 1973 (e alla caduta di Saigon nel 1975). Molta letteratura americana dell’ultimo cinquantennio vi ha fatto riferimento. E tanti poeti. Bruce Weigl (Lorain, Ohio, 1949) si arruolò volontario per avere risorse per laurearsi. Rimase in Vietnam un anno, poi fu uno dei pochi reduci a iniziare una carriera poetica, intensa e poco nota da noi. “Rumore”, uno splendido componimento, dà il titolo a una bella raccolta, selezionata da Weigl e pensata dal giovane anglista Giulio Segato che racconta l’autore nella postfazione, mentre la premessa dell’esperta Baritono aggiorna storia e geopolitica di quella “ferita aperta”.

 

v.c.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Recensione Ricucire il mondo

 

Ricucire il mondo. La necessaria sinergia fra diritti fondamentali e beni comuni

AAVV.

A cura di Tecla Mazzarese

In appendice un saggio di Stefano Rodotà

Filosofia del diritto

Brixia University Press

2021

Pag. 146 euro 15

Valerio Calzolaio

 

Mondo umano e non umano. Prima e dopo di noi. Il volume “Ricucire il mondo” raccoglie alcuni testi di un ciclo di incontri per gli studenti bresciani del corso di Filosofia del diritto, pensati prima della pandemia da Covid-19 e svoltisi nel 2020 durante l’emergenza sanitaria, a distanza. Gli autori sono docenti universitari di varie discipline: Ulderico Pomarici, Antonello Ciervo, Roberto Cammarata, Maurizio Tira e la curatrice, sia del libro che del corso, Tecla Mazzarese. L’obiettivo è mostrare la drammatica urgenza di individuare, e soprattutto mettere prontamente in atto, misure per garantire, nella loro complementarietà, un’effettiva tutela di diritti fondamentali e beni comuni, nella consapevolezza sia degli effetti nefasti che l’alterazione dell’ambiente produce per la salute umana sia della collocazione dei medicinali (e dei vaccini) fra i beni comuni di generale gratuito accesso, riprendendo le ricerche e il magistero del grande giurista Stefano Rodotà (1933 – 2017).

 

v.c.

 

 

 

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