di Raimondo Giustozzi
Il “Dommusè” è il volume nel quale, dopo le “Storie paesane“, il libro d’esordio pubblicato nel 1968, Giuseppe Tontodonati raggiunge livelli altissimi di poesia. Come scrive Giuseppe Rosato nella prefazione – è una poesia che deflagra, schiodando d’un colpo le abbottonate maniere di tanta, forse tutta, la recente poesia dialettale abruzzese – ed è il volume che lo consacra “il poeta della storia d’Abruzzo” come scriveva il Prof. Francesco Desiderio in quanto tratta della presenza di Fra Pietro da Morrone-Celestino V sulla Majella e, nella seconda parte, l’epopea dei moti carbonari in Abruzzo. Argomenti raramente affrontati dai poeti, che fanno seguito ai numerosi sonetti dedicati al brigantaggio in Abruzzo inseriti all’interno del volume “Storie paesane” (Raffaello Tontodonati).
Il libro, pubblicato nel dicembre 1974, contiene settantatré sonetti, numerati dal primo all’ultimo. I primi cinquantacinque si riferiscono alla storia di Dommusè, alla sua tragica fine e alla rievocazione di Pietro da Morrone che molti secoli prima aveva attraversato gli stessi luoghi del protagonista, gli altri diciotto riguardano le gesta dei carbonari d’Abruzzo e non solo. Nei primi cinquantacinque sonetti i luoghi citati sono: il Morrone, la Majella, i paesi di Pennapiedimonte, Serramonacesca, Roccamorice, San Valentino. Gli altri diciotto sonetti, raccolti nella seconda parte del libro, dal titolo I Capitani, toccano anche altri paesi d’Abruzzo: Manoppello, San Clemente, Città Sant’Angelo, Penne, Farindola, Pescara. Diversi sono i personaggi: Carlo imperatore, Braccio da Montone, Gli Sforza, Papa Martino. I disegni del pittore Guido Galeotti costituiscono un valore aggiunto alla pubblicazione.
Dommusè.
I primi sei sonetti costituiscono il prologo della ballata. L’autore precisa meglio i contenuti della fatica letteraria. L’Abruzzo di cui vuole parlare non è quello del proprio tempo, una regione che ha strade asfaltate, bar, televisione, montagne aperte ad ogni stagione e forestieri che parlano una lingua incomprensibile. L’Abruzzo che il poeta cerca, nella storia raccontata oralmente dalle diverse generazioni e in parte registrata anche nei libri, è quello montanaro, da tregenda, dove vivevano l’orso, l’aquila e il lupo, dove l’abitante della Rocca, geloso dell’onore, ricorreva anche al coltello nel corso di una lite. Terminata la ricerca, per dare ordine ad una rustica ballata, per farci un pezzo originale, il poeta dice di aver pescato dal fondo del paniere: morte, arroganza e burle per fare del tutto una lirica corale. Dopo aver dipanato lentamente tutta la matassa, la marcia è diventata marziale, anche se ci può scappare qualche risata che stona per il finale tragico.
Insomma, Tontodonati è convinto di aver ridato fiato al corno bovino, dal suono cupo e lacerante che il pastore usava per richiamare il proprio gregge: “Arredà fiate a llu corne bbuccine, / lu son’arpupulate la mundagne / di vitteme di sande e mmalandrine, / cunvinde c’a stu mònne de cuccagne / gode chi sa fa fesse lu vicine: / li lupe che le pecure se magne” (Giuseppe Tontodonati, Dommusè, pag. 10 Editrice Itinerari, Lanciano 1974).
Traduzione: “Ho ridato fiato al corno bovino, / il suono ha ripopolato la montagna / di vittime, di santi e di malandrini, / convinto che in questo mondo di cuccagna, / gode chi sa far fesso il vicino; / è (sempre) il lupo che si mangia le pecore”. Con la riflessione finale, si apprezza una costante di tutto il poemetto. L’autore si ritaglia di tanto in tanto un proprio angolo per fissare aforismi e riflessioni che hanno il potere di spezzare momentaneamente la materia del racconto.
Vittoriano Esposito scrive proprio su questo: “Al modo di un antico cantastorie, Tontodonati è capace di calarsi e immedesimarsi nelle figure e nelle vicende della sua materia ispiratrice, che arricchisce con inserti un po’ divaganti, ma atti a rallentare il ritmo lirico – narrativo senza tuttavia nuocere al tessuto unitario del canto. Nell’ultima parte di Dommusè, ad esempio, si trova uno spazio per accennare alla presenza polemica di Pier Celestino, con un salto indietro di alcuni secoli, ma solo per riflettere sulle piaghe della Chiesa d’ogni tempo. Frequenti sono, poi, certe pause descrittive, in ordine al paesaggio, agli usi e ai costumi; e certe pause meditative, vero e proprio cantuccio che il poeta si riserva, alla maniera manzoniana, per abbandonarsi più liberamente alla confessione dei suoi sentimenti” (Vittoriano Esposito, Itinerario poetico di Giuseppe Tontodonati, dalle “Storie Paesane” al “Canzoniere d’Abruzzo”, in Poesie inedite di Giuseppe Tontodonati, pag. 9, Collana di Studi Abruzzesi, Nuova Serie 16, L’Aquila).
Simpatica è la riflessione su quanto si è ripromesso di fare, dare voce al passato: “Tu sschirze troppe spesse nghe lu foche, / scarpone me’, ricùrdete sti cose ! / Chi sarchie la ramàcce è gne cchi vòche, / stracche le vràcce e ppèrde lu repose. // Essindammè, remmùcchie, cagne jòche, / fatte cchiù ssagge e mene vanetose! / la glòrie che n’llùce dure pòche: / passe lu tembe e sse perde le cose! // Recurde gna pe strad’ e ttamarìsce, / de feste, ssfilijènne lu furmagge / nzuppive de sudore la cammisce? // – Forz’a ssu tire, càlcule lu ragge / effàlle sscì de curve risciarìsce, / dopo vide ssa forme gna vihàgge!” (Dommusè, op. cit. pag. 11). Risciarìsce sta per rasentato al millimetro
Traduzione: “Tu scherzi troppo spesso con il fuoco, / fratello mio, ricordati queste cose! / Chi strappa la gramigna è come colui che voga, / stanca le braccia e perde il riposo. // Ascoltami, ritorna in te stesso, cambia gioco, / fatti più saggio e meno vanitoso! / La gloria che non brilla, dura poco: / il tempo passa e si perdono le occasioni! // Ricordati quando per strade e tamarici, / nei giorni di festa, sfilando il formaggio / inzuppavi la camicia di sudore? // Dai forza a questo tiro, calcola il raggio / e fallo uscire rasente alla curva (della strada), / dopo vedrai come corre (ruzzola) questa forma” (il formaggio). La metafora della ruzzola serve al poeta per dire che nel racconto dovrà dosare con saggezza tutte le diverse parti.
Nota al sonetto. Il poeta fa riferimento al gioco della ruzzola. Si giocava sula strade d’Abruzzo ma anche delle Marche. Si sceglievano le strade poco trafficate, in campagna. La ruzzola era una forma di formaggio pecorino, legata ad uno spago. Un capo era legato alla mano del giocatore, il resto era avvolto attorno al formaggio. Il giocatore lanciava la ruzzola, lo spago si srotolava e la ruzzola schizzava sulla strada. L’abilità del giocatore consisteva nel far percorrere alla forma di formaggio una traiettoria esatta, soprattutto nelle curve. La ruzzola, per non uscire dal tracciato, doveva correre sul ciglio della strada senza fuoriuscire. Se usciva, il nuovo lancio doveva avvenire nel punto in cui era uscita. Vinceva chi impiegava meno lanci per giungere al traguardo, fissato dagli organizzatori, anche dopo qualche chilometro di strada.
Riflessioni.
Nel sonetto N° 6 il poeta propone una lunga riflessione che ci può servire anche in questo tempo difficile, di tristezza senza fine per la pandemia in atto: “Lu monne mandemàne s’à perdute, / gne ll’ome c’à sbanìte lu cervelle, / pricipitàte sott’a nu funnute / ddò l’ombre pu tajjà nghe lu curtelle. // Te sembre gne chi à perze la salute / pe lu troppe cambà da puverelle / e ssa retrove mmezz’a nu ssperdute / nghe la morte c’arròte le mmasscèlle. // Quest’è na nebbie! … proprie na murajje / che cchiude tutt’e mmendre ta rebbele / sinde la puzze de la bbrucimajje. // J’, gne nu mmucculòne de cannele, / cerche tra sta fumìre nu spirajje / pe ll’ari’ e ppe la luce de lu cele” Dommusè, op. cit. pag. 14).
Traduzione: “Il mondo oggi si è perduto, / come l’uomo che ha perso il cervello, / precipitato sotto un luogo buio / dove le ombre si possono tagliare con il coltello // Ti sembra come chi ha perso la salute / per il troppo campare da poverello / e si ritrova in mezzo ad un luogo sperduto / con la morte che arrota le mascelle / Questa è una nebbia! … proprio una muraglia / che chiude tutto mentre ti ribelli / senti puzza di bruciaticcio. // Quanto a me, al pari di un moccolone di candela, / cerco tra questo letame uno spiraglio / per (assaporare) l’aria e le luce del cielo”. Ci vuol poco a cadere nella depressione più nera se non si riesce ad intravedere qualche spiraglio di luce in mezzo al buio più fitto.
Il protagonista del poemetto. Dommusè.
“Dommusè (Don Mosè) è protagonista di una storia tragica e comica, di quelle che la realtà sa presentare meglio d’ogni umana fantasia. Nominato parroco della Rocca, un paesino di montagna, Dommusè vi giunge, preceduto dalla triste fama di donnaiolo, come un Rodomonte a cavallo d’un mulo, ma viene accolto con fitte salve di fischi e lanci di pietre”(Vittoriano Esposito, Itinerario poetico di Giuseppe Tontodonati, dalle “Storie Paesane” al “Canzoniere d’Abruzzo”, in Poesie inedite di Giuseppe Tontodonati, pag. 9, Collana di Studi Abruzzesi, Nuova Serie 16, L’Aquila).
“Gna don Musè di Pennapedimònde / fu nnumenate parrech’a la Rocche / pe la cummunetà fu gne nu sciocche / e se sbarrò la strade de lu ponde. // Stu predone arrevò gne Rudumonde / accavall’a nu mule locche locche / stregnenne tra le mane na perocche / nghe nu sguarde ngiufate da bbesonde, // eddòpe ssciacculiàte ddu bbuscìjje / bbinidicéve addestre e mmanga mane / jastemènne ‘n latine litanìjje. // Ma stu paese èpproprie foramàne / – se lagne don Musè serve di Ddìjje – / speriàme de truvacce copputtàane! (Giuseppe Tontodonati, Dommusè ballata abruzzese, pag. 17, Editrice Itinerari, Lanciano 1974).
Traduzione: “Appena Don Mosè, di Pennapiedimonte / fu nominato parroco della Rocca / per la comunità fu come una frustata / fu sbarrata la strada all’altezza del ponte. / Questo predone arrivò come Rodomonte / in groppa ad un mulo lento lento / stringendo tra le mani una pesca / con lo sguardo torvo da bisonte / poi, biascicate due bugie / benediceva con le mani a destra e a sinistra / bestemmiando in latino le litanie. // Ma questo paese è proprio fuori mano / – / si lamenta don Mosè servo di Dio – / speriamo di trovarci qualche puttana!”.
“Al primo sermone dal pulpito, don Mosè ne approfitta per sfogare la sua rabbia con improperi e maledizioni. Ma bastano pochi giorni perché, incuriosite e sollecitate dalle voci che corrono su “stu verre lihunine”, le donne vadano a frotte da lui a scaricarsi dai peccati, trasformando la chiesa in una piazza da mercato. Addirittura, col tempo, Dommusè riesce ad imporre la sua autorità anche sugli uomini, benché appaia sempre più rotto a vizi di ogni genere” (Vittoriano Esposito, op. cit. pag. 9). “Cirti jùrne la chijsa parrucchiale / se imbiève gne na piazze de mercate / a don Musè da lu cunfissiunale / risscève gne nu tore carecate. // Ggiòvene fesche e ffèmmene spusate / sspinde da na curiusetà carnale / se vann’a scarecà di li piccate / senza mutànne sott’a lu zenale. // La fame de stu vèrre lihunine, / prutètte da la sanda riliggione, / mmumènde superò fra Ccilistìne / Forca Carus’ e fforca Canapine! … / – Che scàndele – disse la cucchiaròne – cchiù vùsceche e cchiù pùzze sta latrine! – “ (Giuseppe Tontodonati, Dommusè, op. cit. pag. 27).
Traduzione: “In certi giorni la chiesa parrocchiale / si riempiva come una piazza di mercato / e don Mosè dal confessionale / usciva come un toro caricato. // Giovani fresche e femmine sposate / spinte da una curiosità carnale / vanno a scaricarsi dei peccati / senza mutande sotto il grembiule. // La fama di questo porco leonino, / protetto dalla santa religione, / a momenti superò Fra Celestino / Forca Caruso e forca Canapina! / Che scandalo – disse il grande cucchiaio di legno d’acero – più la ripulisci, più puzza questa latrina”.
Gli abitanti della Rocca non ci vedono più quando il parroco svende il pastorale di fra Celestino e la croce con il Cristo d’argento. Vedono nell’operazione un vero e proprio mercimonio. Dommusè non cambia, anzi peggiora: “Sta ggendajje pruteste pecchè venne / ddu ciùcchele vicchie, la riliggiòne / vattelafrecà senza la prubbènne!”.
Traduzione: “Questa gentaglia protesta perché vendo / roba di poco conto (il pastorale e il crocifisso con il Cristo d’argento) / E chi se ne frega della religione senza le prebenda”. Si arrabbia con la curia stessa che lo minaccia di interdizione. Scarica sui superiori, avari e pieni di ricchezze di ogni genere, tutte le colpe. Si sente un povero prete di montagna in mezzo ai cafoni. Si scaglia poi con veemenza contro la Roma dei cardinali che sono a capo di una mafia, che: “Chiude l’ucchie pi nderess’a la guerre / prèteche la caretà universale, / ma senza solde nùde t’assuttèrre!!”. “Chiude gli occhi alla guerra per interessi / predica la carità universale, / ma ti sotterra nudo e senza soldi”.
L’interesse di Dommusè verso l’universo femminile è risaputo da tutti in paese. La moglie di Nicola Scarsellone gli fa girare la testa, come confessa a don Zenone, un altro prete che è venuto occasionalmente a fargli visita. Le altre donne del paese, con i mariti emigrati per lavoro in terre lontane, rimaste sole a casa, vanno a farsi consolare da Dommusè. Eppure, quella stessa terra d’Abruzzo, un tempo, molti secoli prima era stata attraversata da Fra Celestino, il santo eremita. Il confronto tra i due servitori di Cristo serve al poeta per mettere in risalto l’abisso in cui è sprofondata la chiesa. Fra Celestino aveva comprato per pochi soldi, accanto al romitorio, a Roccamorice, una casa per dare ospitalità agli altri fraticelli. Dommusè viene a conoscenza che nei pressi della casa era stato seppellito un gran tesoro, motivo di guerra fratricida tra i briganti della zona. Anche lui ambisce a scoprire questa ricchezza per vivere in mezzo all’abbondanza senza curarsi minimamente del proprio ministero sacerdotale.
Un anno chiama a predicare la settimana santa un suo confratello di Manoppello, un paesino vicino a Roccamorice. Domenico Antonio Colasante, il predicatore, è come lui, “… un mezze sacrepande / e ngòrde magnatòre de purchette. // – Pe – Menecandonie Colasande / – diceve don Musè – ce vo rispette… / nghi li capune e lu vinelle sande / almène na pellastre pe lu lette! – // Scrutenne, pass’a a la rivisihòne / da la grate de lu cunfissiunàle / tutte la fimminile guarniggiòne. // – La vèdeve devot’ a San Pasquale / me sembre cchiù devot’ a lu stallone / c’affà l’isircizie spirituale!” (Dommusè, op. cit. pag. 53).
Traduzione: “(Colasante) è un uomo grande e grosso / e ingordo mangiatore di porchetta. // per don Domenico Antonio Colasante / – diceva don Mosè – ci vuole rispetto… / assieme ai capponi e al vino santo / almeno una pollastra per il letto! – // Scrutando, passa in rassegna / dalla grata del confessionale / tutta la guarnigione femminile. // – La vedova devota a San Pasquale / mi sembra più portata allo stallone / invece di fare gli esercizi spirituali”.
Ma anche per Dommusè arriva il giorno del giudizio. Una brutta notte, chiamato per assolvere l’anima di uno sconosciuto, viene assalito da una banda di briganti, capeggiata da “Nnecole lu curnute” (Nicola Scarsellone), e viene ucciso a coltellate. Il suo corpo viene gettato in un burrone. E’ la fine amara di un’esistenza destinata al proprio dissolvimento. Non è una storia recente ma lontana nel tempo, quella di Dommusè, raccolta dalla viva voce dei roccolani (Roccamorice) e che il poeta ha voluto raccogliere nuda e cruda, anche per gli insegnamenti che se ne possono ricavare” (Vittoriano Esposito, op. cit. pag. 9). La morte di don Mosè viene paragonata a quella di altri briganti che hanno insanguinato le valli d’Abruzzo. Anche la natura, colta e descritta nella stagione dell’Autunno inoltrato con tutti i colori che inducono alla malinconia, sembra partecipare alla fine del triste ribaldo.
L’accoltellamento avviene di notte: “Pure la lune che ferève chiare / fu rrecuperte de na nuvelàjje / gne nu fazzole bbianghe se s’affiàre. // Mu lu silenzie addòre de battàjje, / rott’all’uscùre da lu strill’amare / de nu gufe ssperdute pe la plajje” ( Dommusè, op. cit. pag. 65).
Traduzione: “Anche la luna che brillava chiara / fu ricoperta da una nuvolaglia / come un fazzoletto bianco che brucia. // Ma il silenzio odora di battaglia, / rotto nell’oscurità dal verso amaro / di un gufo che vaga per i nudi pianori montani (plàjje)”. Quella di Dommusè è una storia triste per il finale tragico, ma anche oggi, commenta il poeta, il mondo è pieno di delinquenti, maturi per il ceppo e la corda e non bisogna comportarsi da pecoroni e starsene tranquilli, come fa il sordo che ride da ebete, perché non sente, tra la frana di pietre che rotolano a valle.
“Vittò, tra mezz’a ttande carnassciàle / ddo sspicchene bbaldràcch’ e mariunètte, / J’ prest’urecchie angor’ a la cecale / checcàand’ appiccicate a na sajètte // di pioppe na rumanza pasturale, / resòlie pe l’affànne de stu pette / uppresse da n’angustie universale / di guerre di suprus’ e ddi vendette. // J’ pure, amiche care, so’ d’accorde! … / Ogge lu monn’è ppiene di cagnùne / mature pe lu cepp’ e ppe la corde! // Vittò, ma nu’ n’nzème pucurune / pe stàrcene tranquille, gne lu sorde / che rride tra na frane di candùne!”(Dommusè, op. cit. pag. 74).
Traduzione: “Vittorio, in mezzo a tante carnevalate / dove spiccano baldracche e marionette, / Io presto ascolto ancora alla cicala / che canta attaccata ad una saetta // d a na sajètte esti pioppo per una romanza pastorale, / sollievo per gli affanni di questo petto / oppresso da un’angustia universale / di guerre, soprusi e vendette. // Io pure, amico caro, sono d’accordo!… / Oggi il mondo è pieno di delinquenti / pronti per essere messi al// Vittorio, ma noi non siamo dei pecoroni / per il quieto vivere, come il sordo / che ride tra la frana di un cantone”.
Li Capitane (I Capitani)
Questa seconda parte del libro si apre con una invocazione a San Liberatore a Majella, una splendida chiesa medievale, situata nel comune di Serramonacesca, luogo di preghiera, di penitenza, di culto e di bontà, frequentato da Pietro da Morrone. Il poeta si rifà ad una leggenda antica, che ha comunque un fondamento di verità. La chiesa venne edificata dall’imperatore Carlo Magno dopo la battaglia del 781 sostenuta e vinta contro i Longobardi. Lo scontro contro “lu bbarbarèsche more” avvenne nello stesso luogo in cui oggi sorge la grande abazia, che nel tempo comprendeva comunque un grande complesso monastico, di cui oggi rimangono solo delle flebili tracce. La fede lasciò il grande complesso monastico quando “calò l’orde di li pridature”, l’orda dei predatori: Fortebraccio da Montone, Papa Martino, Giovanna la puttana e gli Sforza, padre e figlio. “Muzio Attendolo Sforza fu capitano di ventura. Durante la guerra contro Braccio da Montone, annegò, travolto dalla corrente, nell’attraversare il fiume Pescara nei pressi della foce” (Dommusè, op. cit. pag. 122). Con tutti questi ribaldi arrivarono, colera, carestie, fame e guerre. Innanzi ad ogni cosa correva il cavallo della morte che falciava l’umanità e insanguinava la terra.
“Oho… San Liberatore a la Majelle! / nu vòte de re Carle mberatore / gna scunfìsse lu bbarbarèsche more / a la bbattàjje sopr’a Manappèlle. // Addò l’arie sfarfàlle tra le stelle / rembuste stà la Serra Munacòre, / cinòbbie di prijjère e de lavore / e nghe ll’azzurre cele pe mmandèlle. // Ciprisse nere, bbitùlle d’argende, / lu silenzie… che da mill’anni dure, / abbassa voce mòrmere l’Alende… // Ma la fede fu nghiuvàt a sti mure / gna lu sandàre se levò la bbende / e calò l’orde di li pridature!” (Dommusè, op. cit. pag. 85).
Traduzione: “Oh! San Liberatore a Majella! / voto di re Carlo Imperatore / quando sconfisse il moro barbaresco / nella battaglia sopra Manoppello. // Dove l’aria sfarfalla tra le stelle / a questa altitudine si trova Serramonacesca, / cenobio di preghiere e di lavoro / con il cielo azzurro per mantello. // Neri cipressi, betulle d’argento, / il silenzio che dura da mille anni, / a bassa voce mormora l’Alento… // Ma la fede fu inchiavata a queste mura / quando la santità appese le bende / e calò l’orda dei predatori”.
Note al sonetto. Il moro barbaresco è il popolo longobardo. Il termine moro è riferito ad ogni popolazione non italica. La Serra Munacòre è il monastero di San Liberatore a Majella, situato nel comune di Serramonacesca. Manoppello è un comune in provincia di Pescara. Il paese vecchio, alle falde della Majella, è sede di un famoso santuario che custodisce al suo interno in una teca, il Volto Santo, un piccolo sudario di lino che la tradizione attribuisce a Gesù Cristo, asciugato dalla Veronica lungo la strada che saliva al Calvario. Manoppello scalo, la frazione che si sviluppa nella sottostante pianura della Val Pescara, ha conosciuto negli ultimi anni uno sviluppo economico e un incremento demografico senza precedenti. E’ collegata a Pescara e a Roma con l’autostrada A 25, l’Asse Attrezzato, la ferrovia, la strada consolare Tiburtina Valeria. Lo scalo è sede di un moderno interporto. Vicino è anche l’aeroporto Pasquale Liberi di Pescara, con voli nazionali e internazionali. L’Allento è il fiume che scorre placido poco lontano dall’abazia.
I Moti Carbonari
Nel marzo 1814 Città Sant’Angelo, Penne, Castiglione Messer Raimondo e Penna Sant’Andrea furono protagonisti delle prime sollevazioni della Carboneria contro il regno borbonico. Erano le avvisaglie del Risorgimento italiano. La rivolta fu repressa dalle truppe di Gioacchino Murat, grazie al tradimento di un congiurato ed alla mancata adesione di diversi comuni che, dopo aver dato il loro parere positivo, rimasero quieti. I capi angolani della rivolta, Filippo La Noce e Domenico Marulli, Bernardo De Michaelis di Penna Sant’Andrea vennero fucilati il 17 luglio 1814 a Penne e le loro teste furono barbaramente esposte sulla Porta principale di città Sant’Angelo, mentre Michelangelo Castagna, un altro capo della rivolta riuscì a scappare, trovando ricovero dalla sorella nella città di Atri (Fonte. Internet).
Nella ballata di Giuseppe Tontodonati, anche il vicino Gran Sasso, la grande montagna abruzzese, assiste impotente allo scempio operato dagli assassini, soldati in divisa, che ridono soddisfatti per l’operazione compiuta, sotto lo sguardo impietrito della folla. “Casche lu sole arret’ a lu Gransasse / e s’ingènde lu céle da punènde. / Stese supine, la bella durmènde / segne d’azzurre mmèzz’a parnase. // Mèjjesse durmì gne tté core de sasse, / fata murgàne, sspirete lucènde, / gnurà dulure làgreme turmènde / e li dilitte de sta terra bbàsse. // Da lu vèscheve Franghe dissacràte, / Marulle ssvistì l’abbete talare / che ggià messe ‘j fu da lu prelate. // A San Frangèsche, sopr’a la spianate, / nu poche dopo rendunò li spare: / la morte sopre Penne a ggià passat!” (Dommusè, op. cit. pag.96).
Traduzione: “Tramonta il sole dietro al Gran Sasso / si incendia il cielo da ponente. / Stesa supina, la bella addormentata / si tinge d’azzurro in mezzo al Parnasso.// Meglio dormire come te cuore di sasso / fata morgana, spirito lucente, / lucente, / ignorare dolore, lagrime, tormenti / e i delitti in questa terra bassa.// Sconsacrato dal vescovo Franco, / Marulli svestì l’abito talare / che gli fu messo dal prelato. // A San Francesco, sopra alla spianata, / poco dopo rintronarono gli spari: / la morte è già passata sopra Penne”.
C’era un problema prima della fucilazione. Domenico Marulli era un sacerdote, in quanto tale, non poteva essere ucciso, a meno che non fosse ridotto allo stato laicale. Ci pensò subito il vescovo della diocesi Atri – Penne a sconsacrarlo, lui che lo aveva ordinato sacerdote qualche anno prima. La connivenza tra trono ed altare ha prodotto sempre danni nel corso della storia, quello di Penne è uno dei tanti. Dopo la fucilazione, il boia fece calare la mannaia e staccò anche le teste di Filippo La Noce e di Domenico Marulli. La testa di Bernardo De Michaelis venne portata a Penna Sant’Andrea. I corpi furono seppelliti nel cimitero di Penne, grazie alla pietà dei Pennesi. Le teste dei primi due vennero messe dentro una carretta dai soldati e portate a Città Sant’Angelo. Qui, infilzate sulle baionette, furono esposte davanti ad un pubblico costretto ad applaudire ai carnefici. Terenzi Michelangelo, il sindaco di allora della città Sant’Angelo, marito di Anna La Noce, sorella di Filippo La Noce, fu costretto davanti alla testa mozzata del cognato ad applaudire e a gridare Viva il re e morte ai Carbonari.
“Fiume Saline… acque de la Pescàre… / surgend’ a la vetelle de Farinde! / Conde poche li bbùne sindimìnde / gna ti defrònde nu lupemannàre! … // Chiuse le còcce dendr’a na cellàre / lu bbòjje ndemurise li parinde / e Terenzie strillò male cunvinde: / – Vive lu rrè, mort’ a li carbunàre!… “(Dommusè, op. cit. pag.99).
Traduzione: “Fiume Saline, acqua del Pescara / sorgenti poco distanti da Farindola! / Contano poco i buoni sentimenti / quando hai di fronte un lupo mannaro! … // Chiuse le teste dentro ad una gabbia / il boia minacciò i parenti / e Terenzi gridò di mala voglia: / Vive il re, morte ai Carbonari”.
La testa di Bernardo De Michelis fu portata invece alla porta nuova di Penna Sant’Andrea: “O Penna Sand’André! … gna de Bbernarde / ssfàtte arrevò la coccia decullàte, / pevvulundà de lu galle bbastàrde / ingim’ a la Portanòve fu nfelzàte. // Lu pahèse nzilènzie piàgne egguàrde / che lu miser’ avànze, pannecàte / de mosche, de ssputàzze, che leccàrde / nu can’ annùse mmèzz’a li suldate. // Na jurnàte de mort’ e dde terròre! / la ggende lu terànne mmalidisse / essòrde sindì mbètte nu rangòre. // Lu sole se sscurò gne pe n’aclisse! … / tra la folle lu Criste accusatòre / lu vràcce sullevò, ebbinidisse” ( Dommusè, op. cit. pag. 104).
Traduzione: “Penna Sant’Andrea! Quando di Bernardo / arrivò sfatta la testa decapitata / per volere del francese bastardo / fu infilzata in cima ala Porta Nuova. // Il paese in silenzio piange e guarda / che il misero avanzo, ricoperto di mosche, di sputi, / viene leccato da un cane / che annusa in mezzo ai soldati. // Una giornata di morte e di terrore! / Il popolo maledisse il tiranno / e trattenne in petto un sordo rancore. // Il sole si oscurò come per un’eclissi / tra la folla il Cristo accusatore / sollevò le braccia e benedisse”.
Anche la città di Roccamorice, attaccata dal capitano di ventura Braccio da Montone con schiere di fanti, di cavalli, armati di archibugi e di alabarde, fu rasa al suolo: “La ggende fupassàt’ affìl de spade! / essèguette l’iccid’ e li turtùre / finghè la terre nutre sta ramàcce! …”. Traduzione: “La popolazione fu passata a fil di spada / seguirono gli eccidi e le torture / finché la terra nutre questa gramigna”.
Accanto ai capitani di ventura che hanno portato guerra, morte e distruzioni, ai mascalzoni e ai tiranni di ogni risma, l’Abruzzo ha avuto altri capitani, campioni della fede, tra tutti Fra Celestino V (Pietro Angelerio da Morrone). E’ il 1176 quando Leonate, illustre abate, ricostruisce la Basilica di San Clemente a Casauria, devastata dai numerosi saccheggi ad opera dei Saraceni nel 920 e, nel 1076, distrutta dal conte normanno di Manoppello, Ugo Malmozzetto. Il Cristianesimo degli eremi d’Abruzzo e delle abazie medievali è un altro tema caro al poeta. Il sonetto 70 è un canto alla splendida abazia di San Clemente, restaurata dopo il terremoto dell’Aquila del 2009. E’ monumento nazionale. E’ facile da raggiungere da Pescara con l’autostrada A25 per Roma, uscita al casello autostradale di Torre de’ Passeri, l’antica città romana di Turris Passum (Torre del Passo).
“N’anzie de pace tra lu verd’argende / de la cambagna casaurie, bisbìjje / li pine sscinnijàte da lu vende, / na luce… fughe d’arche… o meravìjje! // E Lleonàte agglòrie di Ddìjje, / ddò la Pescare sspàcche la currende, / arivistì di luce st’Abbazzìjje / e de splendòre d’arte San Clemende. // Lu rennuvàte sspìrete talare, / ssculpìte nghe nu verze lihunine, / imbugnò la spade e vvenerò l’altare: // caretà e ffède bbinidittìne / allumenò sta terre gne nu fare / gna vacillò la fiàaccula latine!”. (Dommusè, op. cit. pag. 103).
Traduzione: “Un po’ di pace tra il verde argenteo / della campagna casauria, sussurrano / i pini agitati dal vento, / una luce…fughe d’archi… oh meraviglia! // Leonate per la gloria di Dio, / dove il Pescara spacca la corrente, / rivestì di luce questa abazia / e di splendore d’arte San Clemente. // Il rinnovato spirito religioso, / scolpito con un verso leonino, / gettò la spada e venerò l’altare: / carità e fede benedettina / illuminarono questa terra come un faro / quando la cultura latina scomparve”.
Note al testo. L’abazia di San Clemente, nel comune di Castiglione a Casauria, è uno splendido esempio d’arte romanico gotica. L’ingresso dell’abazia è una fuga d’archi, come scrive il poeta Giuseppe Tontodonati. Anche l’interno dell’edificio sacro è ricco di archi che danno a tutto il complesso architettonico una grande monumentalità. Gli occhi non si stancano mai di guardare verso l’alto. Causa i ripetuti lockdown, resisi necessari per contenere i contagi dal Covid 19, non scendo più in Abruzzo da più di un anno. Conservo intatto il ricordo delle ripetute visite fatte alla abazia di San Clemente a Casauria, di cui, per caso, parlai con una collega, quando insegnavo nella scuola Media di Verano Brianza. Anche lei, brianzola doc, aveva visitato la splendida abazia nel corso di un’estate e ne era rimasta affascinata. L’arte valica i confini geografici e appartiene a tutti.
Il fiume Pescara, la cui corrente è molto impetuosa proprio in questo tratto, corre poco lontano dall’abazia ecco perché il poeta scrive che il “Pescara spacca la corrente”.
La ballata si chiude con un inno al Gran Sasso, muto spettatore di storie antiche e recenti: “Turrègge majjstòse lu Granzàsse / gnell’andiche tetane Ggirihòne / da lefòrre di pizze Cefallòne / a le treccìme de lu Corne bbasse. // E’ la magnificenze de stu sasse / cheppell’azzùrre affònne lu speròne / accelebbrà sta terre e sta criggiòne / ddò Rome pure ci signò lu passe. // Da quande cummannò lu Crihatòre / de reteràss’ all’acque de lu mare / dell’Appennine devendò signore: // tembràte da na càreca sulare, / sscise da lu lavàcre de calore / nghe la roccia bbrunite gnell’acciarre” (Dommusè, op. cit. pag. 108).
Traduzione: “Torreggia maestoso il Gran Sasso / come l’antico mostro Gerione / dalla forra della vetta Cefalone / alle tre cime del Piccolo Corno. // E’ la grandezza di questo sasso / che affonda lo sperone nell’azzurro del cielo / per celebrare questa terra e questa regione / dove anche Roma segnò il passo. // da quando il Creatore ha comandato / all’acqua di ritirarsi dal mare / (il Grande Sasso) diventò signore dell’Appennino / temprato da una carica di sole, / si prosciugò per il gran calore / come la roccia brunita nell’acciaio”.
Raimondo Giustozzi
Bibliografia
- Giuseppe Tontodonati, Dommusè ballata abruzzese, pag. 17, Editrice Itinerari, Lanciano 1974.
- Vittoriano Esposito, Itinerario poetico di Giuseppe Tontodonati, dalle “Storie Paesane” al “Canzoniere d’Abruzzo”, in Poesie inedite di Giuseppe Tontodonati, pag. 9, Collana di Studi Abruzzesi, Nuova Serie 16, L’Aquila.
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