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“Douce France” e dintorni di Lino Palanca

Foto Famiglia Castellani

Foto Famiglia Castellani

di Lino Palanca

Incursioni nelle letterature delle principali lingue europee neolatine: Francia, Spagna e Italia naturalmente. E ritorni a un vecchio amore: la storia, la tradizione e la lingua dei nostri territori.

Cadenza quindicinale. Assicuro l’impegno a evitare approcci da critico letterario (veste che non è la mia) mirando solo a presentare con fedeltà gioie e pene, estasi e tormenti che sono di chi li racconta in versi o prose, ma pure inevitabilmente nostri. Se mi riesce.

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Augusto Castellani

 

Giorni fa ho letto che il comune di Loreto ha organizzato un incontro pubblico con lettura di poesie di Augusto Castellani. Meno male, alla fine ce l’hanno fatta a ricordare un loro sindaco che ha onorato la città anche con i suoi scritti, oltre che con il suo impegno politico e amministrativo e una felice capacità creativa che lo portò, cito solo l’esempio più eclatante, all’invenzione della rassegna delle cappelle musicali, un successo europeo. Evito di strologare su “meglio tardi che mai” o “nessuno è profeta in patria” e simili (sarebbe troppo facile); mi auguro però che adesso non si pensi, all’ombra della Vergine nera, di aver messo un punto a ciò che si doveva fare e poi … ne riparleremo.

Occorre che ci sia un seguito fatto di cose che durano, vedi la creazione di un centro studi loretani da valorizzare come punto di riferimento per quanti vorranno preoccuparsi di dare un futuro alla ricerca sul dialetto, la storia, le tradizioni popolari. Sarebbe un miracolo, ma siccome siamo a Loreto le premesse perché accada ci sono.

Intanto approfitto di questo spazio su “Lo Specchio Magazine” per proporre un vecchio lavoro pubblicato sulla rivista del Centro Studi Portorecanatesi, “Potentia-Annali di Porto Recanati e dintorni”, all’indomani della morte di Augusto, poco più di quindici anni fa (1 ottobre 2005) [1].

 

Ho ripreso in mano alcuni volumi di poesie in dialetto loretano. Sono di Augusto Castellani. Li ho avuti da lui diversi anni fa, dono quanto altri pochi gradito, arrivati a casa mia dentro un pacco che ne conteneva parecchi. Ogni tanto li cavo dallo scaffale perché mi viene voglia di sfogliarli. Un motivo è che questa lettura mi lascia sempre un retrogusto piacevole, governato da saggia ironia e costruito su immagini del passato evocate con sereno rimpianto, non per slacrimarsi addosso bensì per essere messe a confronto col presente, rivitalizzate dunque e perciò ricche di attualità.

I versi di Castellani parlano soprattutto all’oggi, sovente irrispettosi della volontà del loro creatore al quale, irrispettosamente, sembrano felici di prendere la mano. Lui, Augusto, lascia comunque fare. Conosce bene la vita e gli uomini che la abitano; sa anche che in fin dei conti è meglio così. Perché restare solo incatenati a quello che è stato?

I sentieri tracciati dalla sua poesia sono numerosi e penso che varrà la pena nel prossimo futuro di ripercorrerli insieme a lui alla riscoperta di un poeta vero, non uno dei tanti (sono legioni) che la mattina si alzano, posano davanti allo specchio e si autobattezzano poeti, scultori o pittori.

In una delle sue prime raccolte ho trovato “Do pesi”, una breve lirica di sedici versi:

‘Gni anno che passa

è un anno in più

che se ggiunge a la sfilza

che già ciai.

Se sei munello

nun te dice gne’;

uno de più cus’è

solo un granello.

Un anno su diciotto

pesa gnente

leggero cume el gasse;

sopra sessantotto

senti che pesa

pesa ‘normemente

cume se te spiumbasse [2].

Questo è il Castellani meno letto e meditato. Non quello capace di scoppi di straordinaria comicità o l’innamorato della sua città che ne piange il degrado in tanti luoghi di una imponente produzione poetica; non il Castellani incantato di fronte all’immagine solenne e dolente della “bancarola” o della “curunara” tante volte richiamate alla memoria e riproposte perché non siano dimenticate o diventino vittime di una nostalgia mielosa; e nemmeno il Castellani di alcuni scoppiettanti dialoghi-scontro, “cagnare” si chiamano, tra donne loretane .[3].

Se ci diamo a seguire con troppa insistenza questo filone così tanto appariscente mettiamo in luce, certo, gli aspetti brillanti del lavoro del poeta, che non sono davvero da trascurare, ma rischiamo di non poter raccontare il Gustì più profondo, più intimo. Più vero.

Quanti di noi non hanno pensato, almeno una volta, al tempo che scorre senza sosta? Pochi, anzi credo nessuno. Ma poi, quanti di noi sono capaci di esprimere questa ineluttabilità nel modo del nostro poeta, così semplice e autentico, in una lingua scavata nella nostra stessa anima? Con quel tono “leggero cume el gasse” e però, ahinoi, carico di una ben più pesante verità.

Come quella che leggo in “Magnà, chi magna magna” dove la venatura malinconica di Castellani crea un sicuro capolavoro in “Adè ch’el sole more”, con la finestra che centrata dai raggi dell’astro … “sparpaja l’oro” tutto intorno, abbaglia, acceca, sprigiona lampi. Ma dura solo un attimo; basta che il sole si sposti e la finestra resta vedova della luce, … nun è più gnè

senza un filo d’oro

nisciù la guarda più:

senza ritorno

‘rtorna a esse

l’anonima finestra

de ‘gni giorno [4].

Forse Castellani vuol dirci che così se ne va la felicità, in un piccolo istante. Ricorda il sole di Quasimodo, fuggente ed effimero perché subito dopo cala la sera.

La stessa mistica della semplicità di vita e di costumi, così tipica di tanta poesia dialettale, rifugge da melense dolcitudini e scontate punte di populismo a buon mercato:

P’esse felice

a me

me basta gnè:

me basta solo na stella

e già la sera

me pare più bella.

Me basta el ricamo de un fiore

un tenue canto

pe famme sogna’.

S’è scuro el cielo

e l’albero passito

nun è tutto fenito

se po’ ‘ncora sperà

che rvenga el sole

a fallo germojà.

Me basta el dolce soriso

de un monello

per consolamme

e ‘ntenerimme

el core.

Sono anime spesso indifese, i poeti. Non che manchino loro gli artigli, e quando serve, li sanno adoperare meglio di altri. Però, se riesci a scavare in fondo ai loro sentimenti ti si sveleranno lunghi momenti di lucido sconforto, piaghe di solitudine, profondi spazi di malinconie. A volte graffiano, ma non hanno cuore di durare a lungo nella polemica, nell’attacco; non fanno guerre se non a se stessi e sono sempre in cerca di risposte. Che a volte non ci sono.

Io scrivo sempre

‘gni giorno

sul mio core

cu’ la matita

cu’ la penna a sfera

e quanno rmanno solo

verso sera

se guardo

e se ce trovo

frasi vote

amare

o pure scarabocchi

prima de durmì

de chiude i occhi

fago cuscì:

pijo la gomma

la passo sopra el core

provo a cancella’

tutti i segni sciocchi

ad uno ad uno

pe’ ffa’ turna’ de novo

la pagina pulita..

Ma a forza de gratta’

da urmai ‘na vita

la gomma s’è fenita

la pagina s’è fatta

trasparente

adesso ‘gna sta atente

‘gna scrive sempre be’

pe nun sbugia’

bell’e pulita

senza scarabocchi

la pagina del core

de la vita.

Che forte che sei Castellani.

 

 

 

 

[1] L’articolo è apparso nel n. 18, Anno VI, 2005, pp. 84-88.

[2] Tira el vento baja i ca’, Loreto, Lamberto Anconetani ed., 1992.

[3] vedi Gna che me sfogo, Loreto, Lamberto Anconetani ed., 1992, pp. 60 e 61.

[4] Magnà, chi magna magna, Loreto, Lamberto Anconetani ed. 1993, p. 21.

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