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Ricordi di infanzia e non solo, legati al Natale

Presepe

 

Il ciocco natalizio

Crepitava il ciocco natalizio messo sul fuoco del camino. Bruciava dalla mattina fino a sera inoltrata. Il legno da ardere era stato scelto tra i ceppi del gelso. I carboni venivano poi sparsi nei campi dopo l’Epifania. Era un’usanza legata alla religiosità popolare. Si pensava che i raccolti dell’estate sarebbero stati abbondanti, se fertilizzati con il carbone del ceppo natalizio. La famiglia si riuniva per la cena molto presto, dopo aver abbeverato le mucche nella stalla. Non c’era penuria di cibo. Si era già ucciso il maiale e si avevano salsicce e costarelle in abbondanza. Sulla spianatora, il grande tagliere che copriva il tavolo da cucina, fumava la polenta scodellata dal paiolo in rame e guarnita con salsicce e cotechini. Tutto si svolgeva in un’atmosfera di semplicità. Ogni giorno era uguale all’altro e non c’era nemmeno il tarlo dell’invidia a rovinare la felicità perché occasioni per frequentare le altre case di campagna non c’erano, soprattutto d’inverno.

Le monachine.  

I bambini frequentavano la locale Scuola Elementare, un turno al mattino, l’altro al pomeriggio, in pluriclassi. Dovevano fare i compiti e imparare a memoria le poesie. Ogni mese aveva quasi la sua. Nel periodo del Natale non si sfuggiva dalle Monachine, di Enrico Panzacchi, dalla Notte Santa, di Guido Gozzano e dalle Ciaramelle, di Giovanni Pascoli. Il papà e la mamma si prodigavano, anche se rotti dal lavoro della giornata, nello stare dietro ai figli. Cari e indimenticabili genitori che avete seguito e incoraggiato i propri figli con amore. Prima d’andare a letto,  attorno al fuoco del camino, i bambini recitavano la loro poesia: “Siedono i bimbi attorno al focolare / e pigliano diletto / coi visi rubicondi, a riguardare / le monachine mentre vanno a letto. // O monachine scintillanti e belle / che il camin nero inghiotte, / volate forse a riveder le stelle? / buona notte faville, buona notte! // Mandano i tizzi un vago scoppiettio, / mentre che voi partite; / forse è una voce di gentil desio, / che vi prega a restar, ma voi salite. // Ma voi salite frettolose, a schiere, / però che giunta è l’ora, / e vi tarda le stelle a rivedere, / e a se’ vi chiama una miglior dimora. // Dove li avete i candidi lettini, / a cui volate in frotte? / Forse fra i coppi, accanto agli uccellini? / Buona notte, faville, buona notte! // Siedono i bimbi intorno al focolare / assorti in un pensiero: / le monachine seguono a volare / su per la cappa del camino nero” ( Le monachine, Enrico Panzacchi).

Cosa darebbero quei figli, ora diventati nonni con le preoccupazioni verso i nipotini, per avervi ancora vicini. Nessuno muore sul cuore della terra finché vive nel ricordo di chi l’ha amato. E’ la pura verità. L’atmosfera della casa, il fuoco sul camino, i visi resi rossi dal calore facevano un tutt’uno con la poesia. Certo i lettini dei bambini non erano candidi come quelli della poesia. Poveri pagliericci facevano la funzione dei materassi. Scricchiolavano appena ci si rivoltava nel letto. Erano fatti di foglie di granturco, raramente di lana, il più delle volte di crine. Eppure nella povertà delle comodità si era contenti. A Natale, la felicità era assicurata dagli immancabili mandarini e raramente da qualche torrone, non c’era altro. Ma era il tempo per imparare a memoria l’altra poesie che la maestra dava sempre in occasione del Natale.

Le ciaramelle

“Udii tra il sonno le ciaramelle, / ho udito un suono di ninne nanne. / Ci sono in cielo tutte le stelle, / ci sono i lumi nelle capanne. // Sono venute dai monti oscuri / le ciaramelle senza dir niente; / hanno destata ne’ suoi tuguri / tutta la buona povera gente. // Ognuno è sorto dal suo giaciglio; / accende il lume sotto la trave; / sanno quei lumi d’ombra e sbadiglio, / di cauti passi, di voce grave. // Le pie lucerne brillano intorno, / là nella casa, qua su la siepe: / sembra la terra, prima di giorno, / un piccoletto grande presepe. // Nel cielo azzurro tutte le stelle / paion restare come in attesa; / ed ecco alzare le ciaramelle / il loro dolce suono di chiesa; // suono di chiesa, suono di chiostro, / suono di casa, suono di culla, / suono di mamma, suono del nostro / dolce e passato pianger di nulla. // O ciaramelle degli anni primi, / d’avanti il giorno, d’avanti il vero, / or che le stelle son là sublimi, / conscie del nostro breve mistero; // che non ancora si pensa al pane, / che non ancora s’accende il fuoco; / prima del grido delle campane / fateci dunque piangere un poco. // Non più di nulla, sì di qualcosa, / di tante cose! Ma il cuor lo vuole, / quel pianto grande che poi riposa, / quel gran dolore che poi non duole; //sopra le nuove pene sue vere / vuol quei singulti senza ragione: / sul suo martòro, sul suo piacere, / vuol quelle antiche lagrime buone!” ( Le ciaramelle, Giovanni Pascoli)

Le ciaramelle sono le zampogne, “strumento musicale a fiato simile all’oboe, di origine popolare, usato soprattutto in ambienti pastorali” (dizionario). Sono l’organo dei poveri. I suonatori sono gli zampognari, i mitici Scupiniri nel dialetto abruzzese. Martòro sta per tormento, sofferenza, pena. In questo periodo storico, tormenti, tristezza, tribolazione infinita sono rappresentati dalla pandemia del Covid 19 che ci obbliga a stare chiusi in casa e scoprire forse una dimensione del Natale che avevamo perso. L’isolamento è deleterio non la solitudine attraverso la quale è possibile fare un bilancio della propria vita.

La Notte Santa.

La poesia La Notte Santa di Guido Gozzano, una volta imparata a memoria, si prestava per essere recitata a scuola, davanti al presepe con gli alunni attori: Maria, Giuseppe, osti, angeli e il narratore esterno: “- Consolati, Maria, del tuo pellegrinare! / Siam giunti. Ecco Betlemme ornata di trofei. / Presso quell’osteria potremo riposare, / ché troppo stanco sono e troppo stanca sei. // Il campanile scocca / lentamente le sei. // – Avete un po’ di posto, o voi del Caval Grigio? / Un po’ di posto per me e per Giuseppe? / – Signori, ce ne duole: è notte di prodigio; / son troppi i forestieri; le stanze ho piene zeppe // Il campanile scocca / lentamente le sette. // – Oste del Moro, avete un rifugio per noi? / Mia moglie più non regge ed io son così rotto! / – Tutto l’albergo ho pieno, soppalchi e ballatoi: / Tentate al Cervo Bianco, quell’osteria più sotto. // Il campanile scocca / lentamente le otto. // – O voi del Cervo Bianco, un sottoscala almeno / avete per dormire? Non ci mandate altrove! / – S’attende la cometa. Tutto l’albergo ho pieno / d’astronomi e di dotti, qui giunti d’ogni dove. // Il campanile scocca / lentamente le nove. // – Ostessa dei Tre Merli, pietà d’una sorella! / Pensate in quale stato e quanta strada feci! / – Ma fin sui tetti ho gente: attendono la stella. / Son negromanti, magi persiani, egizi, greci… // Il campanile scocca / lentamente le dieci. // – Oste di Cesarea… – Un vecchio falegname? / Albergarlo? Sua moglie? Albergarli per niente? / L’albergo è tutto pieno di cavalieri e dame / non amo la miscela dell’alta e bassa gente. // Il campanile scocca / le undici lentamente. // La neve! – ecco una stalla! – Avrà posto per due? / – Che freddo! – Siamo a sosta – Ma quanta neve, quanta! / Un po’ ci scalderanno quell’asino e quel bue… / Maria già trascolora, divinamente affranta… / Il campanile scocca / La Mezzanotte Santa. // È nato! / Alleluja! Alleluja! // È nato il Sovrano Bambino. / La notte, che già fu sì buia, / risplende d’un astro divino. / Orsù, cornamuse, più gaje / suonate; squillate, campane! / Venite, pastori e massaie, / o genti vicine e lontane! // Non sete, non molli tappeti, / ma, come nei libri hanno detto / da quattro mill’anni i Profeti, / un poco di paglia ha per letto. / Per quattro mill’anni s’attese / quest’ora su tutte le ore. / È nato! È nato il Signore! / È nato nel nostro paese! / Risplende d’un astro divino / La notte che già fu sì buia. / È nato il Sovrano Bambino. // È nato! / Alleluja! Alleluja!” (Guido Gozzano, La Notte Santa).

 

Natà de lu riccu, Natà de lu purittu.

Gianni, nome del tutto inventato, a dodici anni è già fuori di casa, prima dagli zii, dove frequenta la sesta classe dopo la Scuola Elementare; nei borghi agricoli c’era questa possibilità. Alla scuola del maestro Nazareno Sardellini ricorda ancora una poesia dialettale, Natà de lu riccu, Natà de lu purittu. Della poesia non ricorda i versi del Natale, come lo vive il bambino ricco, ma quelli del bambino povero, come lui. Automobile a pedali, palle, racchette e scarpe da tennis, trenino non li aveva mai visti, solo ceste d’arance, pere, mele, castagne e qualche torrone: “Prima ancora che lu sole / se leèsse, le carzòle, / ‘nfirza Pippo, e va a guardà; / java scarzu; era un purittu / pe’ la gran felicità. / E lu vidde lu panere / quattr’arange, un par de pere / velle grosse, e li marrù / Po’ la cénnera ce stava / pe’ le cose che non gnava, / ma, tramezzo… du’ torrò! / Du’ torrò!? Che cuntentezza! / Fece a tutti ‘na carezza / p’auguràje un Bon Natà. / O Vambinu Redentore / se lu primu adè un signore, / lu sicunnu è comme Te!” (Nazareno Sardellini, Natà de lu riccu, Natà de lu purittu).

Traduzione: Prima ancora che il sole / sorgesse, i pantaloni / si infila Pippo e va a guardare, / andava scalzo: era un poveretto / ma ogni passo era un salto / per la grande felicità. / E vide il paniere. / Quattro arance, un paio di pere / belle grandi, e le castagne! / Poi c’era la cenere / per le cose che non andavano bene / ma, lì in mezzo due torroni! / Due torroni! Che contentezza! / Fece a tutti una carezza / per augurare loro un Buon Natale / Oh Bambino Redentore / se il primo è un signore / il secondo è come Te”. Compagno di strada del bambino povero è Gesù che nasce in una mangiatoia.

Noël. Le ciel est noir, la terre est blanche.

Negli anni di Scuola Media ricorda ancora una poesia in francese, imparata a memoria, Noël, di Marie-Michèle Desrosiers. Aveva un professore di Francese, brillante, folle e geniale, una pasta d’uomo, come pochi. “Le ciel est noir, la terre est blanche / Cloches carillonnez gaiement / Jésus est né, la vierge penche / Sur lui son visage charmant // L’Enfant Jésus dans son berceau si misérable / Qu’il est aimable, oh! qu’il est beau / L’Enfant-Jésus dans son berceau. // Point de courtine confectionnée / Pour préserver l’Enfant du froid / Rien que des toiles d’araignées / Qui pendent des poutres du toit. // L’Enfant-Jésus dans son berceau si misérable / Qu’il est aimable, oh! qu’il est beau / L’Enfant-Jésus dans son berceau. // l tremble sur la paille fraîche / Ce cher petit Enfant-Jésus / Pour le réchauffer dans la crèche / L’âne et le boeuf soufflent dessus. // L’Enfant-Jésus dans son berceau si misérable / Qu’il est aimable, oh! qu’il est beau / L’Enfant-Jésus dans son berceau” (Noël, Le ciel est noir, la terre est blanche, di  Marie-Michèle Desrosiers).

Traduzione. “ Il cielo è nero, la terra è bianca / campane suonate a distesa / Gesù è nato, la mamma china / su di lui il suo viso raggiante // Il Bambino Gesù nella sua culla così miserabile / quanto è adorabile, Oh! Quanto è bello / il Bambino Gesù nella sua culla. // Non ci sono tende confezionate / per difendere il Bambino dal freddo / Nient’altro che ragnatele / che pendono dalle travi del tetto. // Il Bambino Gesù nella sua culla così miserabile / quanto è adorabile, quanto è bello / Il Bambino Gesù nella sua culla. // Trema sulla nuda paglia / questo piccolo e caro Bambino Gesù / per scaldarlo nella culla / l’asino e il bue gli soffiano sopra / Il Bambino Gesù nella sua culla così miserabile / quanto è adorabile, oh! Quanto è bello / il Bambino Gesù nella sua culla”.

Il Natale nella letteratura.

Tanti sono i testi che è possibile rileggere in questi giorni di festa. L’impossibilità di spostarsi è un’occasione per rispolverare altri ricordi. Il tema del Natale nella letteratura è estremamente ricco. Si può iniziare dal rileggere la poesia In Oriente, di Giovanni Pascoli, “Si vegliava sui monti. Erano pochi / pastori che vegliavano sui monti / di Giuda. Quasi spenti erano i fuochi”. Sono i primi tre versi della poesia “In Oriente”, un poemetto di quattro stanze con terzine dantesche e versi endecasillabi. Tra le poesie scritte da Giovanni Pascoli, forse è la più bella. Non spaventi la lunghezza. Tutto il poemetto si potrebbe dividere in tre parti o tempi e un brevissimo epilogo di un solo verso. Nella prima parte i pastori con i loro canti raccontano la fatica di vivere e l’angoscia di dover morire. Due pastori prestano le proprie voci anche agli altri: Maath e Addì.

Il primo esprime la pena di un vivere che sembra senza scopo: “O Dio, noi siamo come questa greggia / che va e va, né posso dir che arrivi, / nemmen se giunga al pozzo della reggia”. Il canto di Addì è dominato dal pensiero della morte: “Tu, sola tu vivi, / o greggia, che non mai dalle tue strade / vedi la Morte ferma là nei trivi. // Vedo qualche smarrito astro che cade: / muore anche l’astro. Ma tu, pago il cuore, / stai ruminando sotto le rugiade”. Il riferimento al “Canto Notturno di un pastore errante nell’Asia” di Giacomo Leopardi è molto forte.

Nella seconda parte del poemetto, l’annuncio dell’angelo sembra appagare l’ansia dei cuori: “E un canto invase allora i cieli: Pace / sopra la terra! / E i fuochi quasi spenti / arsero, e desta scintillò la brace”. Il cuore sobbalza di gioia. Tutti i pastori muovono verso Betlemme per vedere “il Grande che non muore”. Trovano il Bambino Gesù. “Esso giacea nel fieno / del presepe, e sua madre, una straniera, / sopra la paglia / … Nella capanna povera le sue / lacrime sorridea sopra il suo nato, / su cui fiatava un asino ed un bue” (Giovanni Pascoli, In Oriente, Poemi conviviali).

Nella terza parte il dubbio risorge di fronte a quel Dio che morirà. La ragione respinge la fede. Il dramma si ricompone nell’ultimo verso che è l’epilogo di tutto il poemetto. Sono le ragioni del cuore a prevalere: “Noi cercavamo Quei che vive… – entrato / disse Maath. Ed ella con un pio / dubbio: il mio Figlio vive per quel fiato / Quei che non muore… – Ed ella: il figlio mio / morrà (disse, e piangeva su l’agnello / suo tremebondo) in una croce… – Dio // Rispose all’uomo l’Universo: E’ quello!”. La voce dell’universo, solenne e autorevole sembra concludere il dramma alla luce della fede, ma in realtà non elimina le cause profonde di un’alternativa sempre aperta. Nascita, morte e risurrezione sono unite. In un verso è raccolta tutta la storia della salvezza.

Si può proseguire con Natale, di Giuseppe Ungaretti: “Non ho voglia / di tuffarmi / in un gomitolo / di strade // Ho tanta / stanchezza / sulle spalle // Lasciatemi così / come una / cosa / posata / in un / angolo / e dimenticata // Qui / non si sente / altro / che il caldo buono // Sto / con le quattro / capriole / di fumo / del focolare” (Giuseppe Ungaretti, Vita d’un uomo. Tutte le poesie, Mondadori, 2009). Il gomitolo di strade richiama i cunicoli delle trincee. Viviamo nella precarietà più assoluta, causa la pandemia in atto. Il Natale di questo anno sarà diverso dagli altri anni. E’ umanamente impossibile far festa con i tanti, troppi morti, caduti nella case di riposo e negli ospedali. Dobbiamo forse ritornare all’essenzialità delle cose. La poesia, unita alla preghiera, ci deve essere di aiuto. Il Natale veniva anche negli anni di guerra. Nel 1916 Giuseppe Ungaretti si trova a Napoli in casa di amici, lontano dalla trincea, in un periodo di licenza militare. Scrive una poesia disadorna, priva di punteggiatura ma superba nel contenuto.

Italo Calvino ci ha lasciato delle pagine indelebili con I figli di Babbo Natale. Riporto solo l’incipit del racconto: “Non c’è epoca dell’anno più gentile e buona, per il mondo dell’industria e del commercio, che il Natale e le settimane precedenti. Sale dalle vie il tremulo suono delle zampogne; e le società anonime, fino a ieri freddamente intente a calcolare fatturato e dividendi, aprono il cuore agli affetti e al sorriso”. E’ un’immagine che stride con quanto stiamo vedendo in questi giorni in televisione: code di uomini, donne, bambini, in fila per chilometri nei pressi dei Centri Caritas o altri istituti per avere di che mangiare, causa la pandemia che ha messo in ginocchio tanti settori produttivi.

Altri classici da rileggere possono essere:  Natale in casa Cupiello di Edoardo De Filippo, il Canto di Natale di Charles Dickens, Racconto di Natale di Dino Buzzati, Natale a Regalpetra di Leonardo Sciascia, Natale di Salvatore Quasimodo, A Gesù Bambino di Umberto Saba, Natale 1989 di Alda Merini, l’albero dei poveri, il pianeta degli alberi di Natale, il magico Natale, lo zampognaro di Gianni Rodari, poi tante altre poesie e brani di narrativa. Mi piace segnalare il mirabile testo di don Tonino Bello, Andiamo fino a Betlemme.

Andiamo fino a Betlemme. Il viaggio è lungo, lo so. Molto più lungo di quanto non sia stato per i pastori ai quali bastò abbassarsi sulle orecchie avvampate dalla brace il copricapo di lana, allacciarsi alle gambe i velli di pecora, impugnare il bastone, e scendere, lungo i sentieri profumati di menta, giù per le gole di Giudea.

Per noi ci vuole molto di più che una mezzora di strada. Dobbiamo valicare il pendio di una civiltà che, pur qualificandosi cristiana, stenta a trovare l’antico tratturo che la congiunge alla sua ricchissima sorgente: la capanna povera di Gesù.

Andiamo fino a Betlemme. Il viaggio è faticoso, lo so. Molto più faticoso di quanto sia stato per i pastori i quali, in fondo, non dovettero lasciare altro che le ceneri del bivacco, le pecore ruminanti tra i dirupi dei monti, e la sonnolenza delle nenie accordate sui rozzi flauti d’Oriente.

Noi, invece, dobbiamo abbandonare i recinti di cento sicurezze, i calcoli smaliziati della nostra sufficienza, le lusinghe di raffinatissimi patrimoni culturali, la superbia delle nostre conquiste… per andare a trovare che? «Un bambino avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia».

Andiamo fino a Betlemme. Il viaggio è difficile, lo so. Molto più difficile di quanto sia stato per i pastori ai quali, perché si mettessero in cammino, bastarono il canto delle schiere celesti e la luce da cui furono avvolti.

Per noi, disperatamente in cerca di pace, ma disorientati da sussurri e grida che annunziano salvatori da tutte le parti, e costretti ad avanzare a tentoni dentro infiniti egoismi, ogni passo verso Betlemme sembra un salto nel buio.

Andiamo fino a Betlemme. E’ un viaggio lungo, faticoso, difficile, lo so. Ma questo, che dobbiamo compiere «all’indietro», è l’unico viaggio che può farci andare «avanti» sulla strada della felicità.

Quella felicità che stiamo inseguendo da una vita, e che cerchiamo di tradurre col linguaggio dei presepi, in cui la limpidezza dei ruscelli, o il verde intenso del muschio, o i fiocchi di neve sugli abeti sono divenuti frammenti simbolici che imprigionano non si sa bene se le nostre nostalgie di trasparenze perdute, o i sogni di un futuro riscattato dall’ipoteca della morte.

Andiamo fino a Betlemme, come i pastori. L’importante è muoversi. Per Gesù Cristo vale la pena lasciare tutto: ve lo assicuro. E se, invece di un Dio glorioso, ci imbattiamo nella fragilità di un bambino, con tutte le connotazioni della miseria, non ci venga il dubbio di aver sbagliato percorso. Perché, da quella notte, le fasce della debolezza e la mangiatoia della povertà sono divenuti i simboli nuovi della onnipotenza di Dio. Anzi, da quel Natale, il volto spaurito degli oppressi, le membra dei sofferenti, la solitudine degli infelici, l’amarezza di tutti gli ultimi della terra, sono divenuti il luogo dove Egli continua a vivere in clandestinità.

A noi il compito di cercarlo. E saremo beati se sapremo riconoscere il tempo della sua visita.

Mettiamoci in cammino, dunque, senza paura. Il Natale di quest’anno ci farà trovare Gesù e, con Lui, il bandolo della nostra esistenza redenta, la festa di vivere, il gusto dell’essenziale, il sapore delle cose semplici, la fontana della pace, la gioia del dialogo, il piacere della collaborazione, la voglia dell’impegno storico, lo stupore della vera libertà, la tenerezza della preghiera.

Allora, finalmente, non solo il cielo dei nostri presepi, ma anche quello della nostra anima sarà libero di smog, privo di segni di morte e illuminato di stelle.

E dal nostro cuore, non più pietrificato dalle delusioni, strariperà la speranza (Mons. Tonino Bello).

Buon Natale a tutti i lettori del sito www.specchiomagazine.it

Raimondo Giustozzi

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