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“Douce France” e dintorni. Filastrocche

Perrault-Le-petit-poucet-illustrazione-di-G.-Doré-1867

Perrault-Le-petit-poucet-illustrazione-di-G.-Doré-1867

di Lino Palanca

Incursioni nelle letterature delle principali lingue europee neolatine: Francia, Spagna e Italia naturalmente. E ritorni a un vecchio amore: la storia, la tradizione e la lingua dei nostri territori.

Cadenza quindicinale. Assicuro l’impegno a evitare approcci da critico letterario (veste che non è la mia) mirando solo a presentare con fedeltà gioie e pene, estasi e tormenti che sono di chi li racconta in versi o prose, ma pure inevitabilmente nostri. Se mi riesce.

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Filastrocche

 

I testi della tradizione popolare, canzoni e serenate e stornelli e saltarelli, con molto altro, sono tutti testimoni della gioia e della pena del vivere quotidiano dei nostri maggiori, cocci sparsi della storia quotidiana dei padri e delle loro aspirazioni, sogni, fantasie e speranze.

Sono altresì manifestazioni di geniale inventiva. E pure dell’umore popolare, portato non poco nei canti, nelle filastrocche o nelle conte a mettere da parte ogni logica, almeno apparente, rendendosi preda volontaria delle scorrerie dell’estro e del pensiero libero, sciolto da ogni assillo d’ordine e di ratio espositiva.

Le persone ‘comuni’, che vuol dire quelle più vere, erano fatte anche così, come cantavano. Davano corso ai diritti del sentimento senza preoccuparsi delle convenienze stabilite in sfere sociali diverse e lontane. Gente aliena dall’esprit salottiero delle classi aduse ai giochi brillanti dell’intelletto. Però, regnano tanta saggezza e verità, vivacità di spirito e pronta intelligenza della realtà nelle storie raccontate dalle voci popolari.

Quelle che seguono sono tra le più genuine e innocenti e si chiamano filastrocche.

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Nà, nà, nà

che puzza de cristià

se lu chhiàppu

                                      me lu (v)òju magnà’ (dialetto di P. Recanati)

Richiamo alla favola “Il fagiolo magico”, protagonista un ragazzo di  nome Giacomino, ma anche richiamo all’odore di carne fresca di bambini che fiutava l’orco de “Le petit Poucet”, il celebre racconto di Charles Perrault (168-1703), tratto dalla tradizione orale e pubblicato nel 1697 nei “Contes de ma mère l’Oye”. Nella favola del fagiolo magico, il cattivo gigante rientra a casa la sera e fiuta la presenza di Giacomino, capitato lì senza volerlo e nascosto dalla buona moglie del mostro. Aggirandosi per casa il mostro ripete: Ucci, ucci, sento odor di cristianucci[1]

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Zucca pelata de centu capej,

tutta la notte te cantene i grilli,

te fanne ‘na bella cantata,

                        zucca pelata, zucca pelata (dialetto di P. Recanati)

Filastrocca del consistente filone del ‘non sense’ popolare. In alcune versioni la parola ‘zucca’ è sostituita da ‘cchiècchia’, cranio. In Abruzzo: Coccia pelate ‘nghe trenta capelle / tutta la notte ce canta li grelle / e li grelle ci ha cantate / bona notte coccia pelate.

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Àrzete garzó ch’è giorno;

se è giorno vòjo magnà’;

vòi magnà’ che non è giorno?

                              Se non è giorno vòjo dormì’ (raccolta a Recanati)

Come si dice da noi, al Porto,: se nu’ la vénge la ‘mpàtta (se proprio non può vincere, almeno la pareggia: non perde mai) cioè in qualsiasi modo cerca di aver ragione lui. Valentino Alessandro Valentini, cugino del famoso giornalista portorecanatese Attilio Valentini (1859-1892), cantava alla nipote Alessandra, che me lo ha riferito: Alzate ch’è dì / S’è dì vòjo magnà’ / E come vòi magnà’ se ‘ncora nun è dì? / Se nun è dì, lassàteme durmì [2].

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Pìja marito cara,

vedrai quanto se sciala,

i confetti con la pala

                           e bastonate in quantità (raccolta a Recanati)

Il testo racconta una verità troppo a lungo lasciata in ombra sulla condizione familiare delle donne, celata dietro il mito dei nostri nonni presentati sovente, da una certa letteratura leggera e inutilmente casalinga, come burberi all’apparenza ma sempre teneri di cuore. Sul colle di Recanati come in riva all’Adriatico la donna subiva giornalmente la prepotenza del marito senza poter più invocare la protezione dei suoi. Il terzo e il quarto verso sottolineano il repentino cambiamento di vita delle ragazze, dal matrimonio (confetti con la pala) a quello che seguirà subito dopo (bastonate in quantità).

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Cincirinella

ci aveva ‘na mula

che tutti i giorni

facea vettura

se ne andava

sul monte e pel piano

se nun cascava

‘ndava luntano.

E ci aveva

la brija e la sella

trotta trotta

                Cincirenella (dialetto di Loreto)

Raccolta da Daniela Ascani a Loreto, ma di sicura origine napoletana. Cincirinella o Cicerenella, è nome di fantasia, a volte di donna, ma per lo più si tratta di un uomo, come quello qui evocato e citato anche nella celebre canzone di Fabrizio De André “Don Raffaè”. In Toscana Cincirinella invece della mula poteva avere, di volta in volta, un gallo, un topo, una capra e un maiale come racconta Fiorenza Sannucci nel suo libro “ ‘Un si butta via niente” (Siena, ed. Cantagalli 2002, p. 124) [3].

 

 

[1] cchiàppu da cchiappà’, acchiappare.

[2] garzó, ragazzo apprendista.

[3] Per un quadro d’insieme della tradizione canora popolare nel territorio delle basse valli del Potenza e del Musone, vedi L. PALANCA, “Le undici di notte e l’aria oscura”, Recanati, Bieffe Grafiche, 2013 (ed. LO SPECCHIO MAGAZINE).

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