di Raimondo Giustozzi
“Di famiglia d’antico ceppo abruzzese, Giuseppe Tontodonati non poteva non nutrire un forte sentimento di religiosità, in armonia con quella che si può dire la tradizione più profondamente radicata nell’anima della nostra gente. Una tradizione legata alle origini del cristianesimo pauperistico più che ai fasti e nefasti della Chiesa ufficiale, una tradizione che si richiama espressamente alla pratica evangelica d’un Celestino V, in aperta polemica con la cultura delle dispute teologiche e con la difesa delle posizioni teocratiche” (1).
Il 18 aprile 1988, nella Basilica di Collemaggio (AQ), si verificò il misterioso furto della salma di Celestino V. L’umile fraticello Pietro da Morrone, eletto pontefice con il nome di Celestino V, poco tempo dopo l’investitura, aveva abdicato al trono pontificio. Le spoglie dell’eremita vennero recuperate due giorni dopo all’interno di un loculo nel cimitero di Roccapassa, tra Amatrice (RI) e Montereale (AQ) ma i mandanti del furto non furono mai scoperti. Il corpo di Celestino V rientrò nella basilica la sera del 25 aprile dello stesso anno con una solenne cerimonia (2).
Sempre attento alla propria terra d’origine, l’Abruzzo, sebbene lontano, Giuseppe Tontodonati dedica all’episodio due sonetti. Nel primo grida allo scandalo del trafugamento e promette di recarsi anche a piedi nella città dell’Aquila per porre riparo all’oltraggio. Nel secondo, tra il giocoso e la forte ironia, prova ad ipotizzare i mandanti del furto: i parenti del cardinale Gaetani, eletto al trono pontificio con il nome di Bonifacio VIII dopo la rinuncia di Celestino V. Con garbo ma anche con malcelata rabbia spera che questo non si vero.
Primo sonetto. “Patre Sande, perdune sti feténde / c’a n’ome prufanàte Collemàgge. / Te le prumétte: facce nu vijàgge / come nu pilligrine peneténde…// Pure ciòppe – stu pete è nu turménde – / dàmme la fòrze, dàmme lu curàgge, / vuless’ areparà stu fier’ ultràage / e la Féde bbannì ‘lli quàttre vénde. // O Frate Céle! O ‘N’géleca Fehùre! / chesta Cetà se l’arecord’ angòre / gna passist’ accavàlle a la vettùre. // Bbiànghe vistite, nghe la Stòla d’ore / clu Pape porte pe la vestetùre / quande ntérre, di Ddi’, devé Pastòre” (3).
Traduzione: Padre Santo, perdona questi fetenti / che hanno profanato Collemaggio. / Te lo prometto: faccio un viaggio / come un pellegrino penitente. / Anche zoppo – questo piede è un tormento – / dammi la forza, dammi il coraggio, / vorrei riparare questo feroce oltraggio / e gridare la fede ai quattro venti. // Oh Frate Celestino! Oh Angelica figura, / questa città ricorda ancora / come passasti a cavallo della vettura. // Vestito di bianco, con la stola d’oro / che il Papa indossa per l’investitura / quando sulla terra, diventa il vicario di Cristo.
Secondo sonetto. “Sti sarracine làtre, mu’, rengràzie! / nce starrà miche ‘mmèzze co’ pparènde, / de chelu Cajietàne gahudénde, / eréteche, de Pàpe Bbunefàzie? // J’ spére che, ‘llundanne, ne fu sàzie / de perzeguì stu Sande Vjicchie. Sénde / Sam Biètre Pàpe pretecà ‘lla ggénde / e Marije acclamà “Piena de Gràzie”. // Arpùse o Patre Sàande, a ssu Sacélle, / nghe sta Cetà a huardie de ssu tròne, / all’ombre de stu Castèlle. // La glòrie dlu Reclùse de Fumòne, / fère da Sande Spirite alla Majèlle, / a Sand’ Unòfrie, appicche a lu Murròne! (4).
Traduzione. Questi ladri malandrini, ora ringrazio / non ci sarà mica in mezzo qualche parente, / di quel Caetani gaudente, / eretico di Papa Bonifacio? / Spero che, lontano si saziò / di perseguitare questo Santo Vecchio. / San Pietro ascolta, dice la leggenda / e Maria acclama “Piena di Grazie”. // Riposati o Padre Santo in questo sacello, / con questa città a guardia di questo trono, / all’ombra di questo castello. // La gloria del recluso del Fumone, / si diffonde da Santo Spirito a Majella, / a Sant’Onofrio, addossato al Morrone.
Note ai due sonetti.
- Dopo aver saputo della propria elezione a pontefice, Pietro Angelerio, il futuro Celestino V si avviò verso L’Aquila in sella ad un asino, tenuto per le briglie dal re Carlo II d’Angiò e scortato dal corteo reale.
- Il cardinale Benedetto Caetani prenderà il posto di Celestino V, fra Pietro Angelerio, dopo il rifiuto di quest’ultimo e sarà eletto Papa con il nome di Bonifacio VIII.
- Il castello o forte spagnolo è una fortezza militare, mai utilizzata a tale scopo; domina dall’alto la basilica di Santa Maria Maggiore di Collemaggio
- Bonifacio VIII, temendo che sul trono di Pietro possano trovarsi due papi, fa imprigionare Celestino nella rocca del monte Fumone, in provincia di Frosinone. I suoi più fedeli discepoli vengono imprigionati anche loro.
- Gli eremi di Santo Spirito sulla Majella e quello di Sant’Onofrio sul monte Morrone sono due luoghi cari, assieme a molti altri, a tutta la spiritualità degli eremiti che hanno abitato le due montagne abruzzesi. Sugli eremi suggerisco la lettura del libro curato e scritto da Edoardo Micati, Eremi e luoghi di culto rupestri della Majella e del Morrone, Caripe (Cassa di risparmio di Pescara e Loreto Aprutino), CARSA Edizioni S.r.l.1990. L’autore studia e analizza sul versante dell’archeologia, della storia, della religiosità popolare ben trentanove eremi e luoghi di culto rupestri distribuiti tra la Majella e il Morrone. E’ un’opera monumentale che vale la pena tenere nella propria biblioteca personale.
Sulla vicenda umana di frate Pietro Angelerio, rimando alla lettura di due articoli pubblicati in questo sito, il 21. 05. 2018; l’uno relativo ai testi: L’avventura di un povero cristiano e Egli si nascose, l’altro al romanzo Fontamara. Tutti i tre libri sono dello scrittore Ignazio Silone.
Luoghi della spiritualità di Pietro da Morrone.
Serramonacesca con la chiesa abbaziale di San Liberatore a Majella, le tombe rupestri di San Liberatore a Majella, Sulmona con l’eremo di Sant’Onofrio non distante dalla città di Ovidio, Fara San Martino con l’abbazia medievale di San Martino in valle, recuperata dopo una terribile alluvione, Roccamorice con gli eremi di San Bartolomeo e di Santo Spirito, Caramanico con l’eremo di San Giovanni all’Orfento sono località conosciutissime per la presenza dell’umile fraticello. Non c’era estate, quando ero a Scafa, che non le visitassi. E’ l’Abruzzo profondo, quale emerge dai romanzi di Ignazio Silone, una terra circondata da montagne con poche vallate, che si aprono verso il medio e basso corso dei fiumi. La religiosità è senza fronzoli con pochi segni esteriori che, per pudore, gli abitanti sembrano tenere quasi nascosti.
La religiosità popolare.
Sulla religiosità dell’Abruzzo, così scriveva Ignazio Silone: “Tutto quello che m’è avvenuto di scrivere, e probabilmente tutto quello che ancora scriverò, benché io abbia viaggiato e vissuto a lungo all’estero, si riferisce unicamente a quella parte della contrada che con lo sguardo si poteva abbracciare dalla casa in cui nacqui. È una contrada, come il resto d’Abruzzo, povera di storia civile, e di formazione quasi interamente cristiana e medievale. Non ha monumenti degni di nota che chiese e conventi. Per molti secoli non ha avuto altri figli illustri che santi e scalpellini. La condizione dell’esistenza umana vi è sempre stata particolarmente penosa; il dolore vi è sempre stato considerato come la prima delle fatalità naturali; e la Croce, in tal senso, accolta e onorata. Agli spiriti vivi le forme più accessibili di ribellione al destino sono sempre state, nella nostra terra, il francescanesimo e l’anarchia. Presso i più sofferenti, sotto la cenere dello scetticismo, non s’è mai spenta l’antica speranza del Regno, l’antica attesa della carità che sostituisca la legge, l’antico sogno di Gioacchino da Fiore, degli Spirituali, dei Celestini” (Ignazio Silone, Uscita di sicurezza, pag. 81, Longanesi, Milano, 1971).
E ancora: “I contadini non cantano, né in coro, né a soli; neppure quando sono ubriachi, tanto meno (e si capisce) andando al lavoro. Invece di cantare, volentieri bestemmiano. Per esprimere una grande emozione, la gioia, l’ira, e perfino la devozione religiosa, bestemmiano. Ma neppure nel bestemmiare portano molta fantasia e se la prendono sempre contro due tre santi di loro conoscenza, li mannaggiano sempre con le stesse rozze parolacce” (Ignazio Silone, Fontamara, pag. 22, Mondadori Editore, Milano 1949).
Mannaggiare sta per imprecare. Le prime volte che frequentavo Scafa (PE), il paese di mia moglie, ridevo divertito, perché non ne capivo il significato, ogni qualvolta sentivo qualche anziano imprecare contro un affare andato male, qualche disguido venuto così all’improvviso. Non se la prendeva mai né con Dio né con la Madonna, ma con qualche santo: mannaggia a Sant’Emidio (patrono di Pescara). C’era una variante al mannaggia, mo’ se ne va e si metteva il nome del santo. Mo’ se ne va Sant’Antonio ‘ngo tutto lu giglio (Sant’Antonio di Padova). Altre volte si metteva in mezzo Santo Rocco: mo’ se ne va santo Rocco ‘ngo tutta Roccamontepiana. Insomma ci ritrovavo tutto Silone e quello che avevo letto nei suoi romanzi. Le imprecazioni non erano però mai parolacce ma un intercalare simpatico che in parte avevo fatto mio.
Un’altra espressione dialettale di cui non capivo il significato era Chisciccise. Tradotta letteralmente significa che tu possa morire, ma è una traduzione che non rende affatto il significato più profondo. E’ un intercalare simpatico, che nella conversazione “assume sfumature ironiche, quasi dolci” (Internet). Serve conoscere la cultura di comunità diverse. Allarga gli orizzonti, non ti fa restare attaccato solo al proprio piccolo mondo. Permette di fare confronti e paragoni, indubbiamente è un valore aggiunto che arricchisce. Oggi, impossibilitati a muoverci per la pandemia in atto, rimane la lettura dei libri.
Santo Rocco è il compatrono d’Abruzzo assieme a San Gabriele dell’Addolorata. Roccamontepiana sta per Roccamontepiano, chiamato “Il giardino della Majella“. Sorge lungo le pendici del Montepiano, posto ai piedi del versante orientale del massiccio. E’ un comune sparso, diviso tra una parte pedemontana e montana. Sorge a cinquecento metri sul livello del mare. Sulla sommità del paese si gode di un panorama mozzafiato. Si scorge la città di Chieti e nelle giornate limpide anche il mare Adriatico.
Tra tutte le manifestazioni della religiosità popolare, quella più sentita, a Scafa era la processione del Venerdì Santo, quando si cantava Lu miserere. Il giorno dopo in paese non si parlava d’altro che della processione e del Miserere. Ogni anno era sempre lo stesso rito ma la gente diceva che come era stato contato il miserere in quell’anno non era mai stato cantato così bene negli anni precedenti. Magari non si andava mai o raramente alla messa di domenica, ma non si mancava mai alla processione del Venerdì Santo.
Certo l’Abruzzo di oggi non è più quello di Ignazio Silone né quello di Giuseppe Tontodonati. La regione è attraversata da ben due autostrade per Roma, l’A24 e l’A25, che hanno rotto l’isolamento, ha un bel aeroporto che collega Pescara con i maggiori scali italiani ed europei, è attraversata lungo la costa dall’autostrada A14 ed è collegata al Tirreno dalla ferrovia Pescara – Sulmona- Avezzano – Roma e dall’antica strada consolare Tiburtina Valeria. Prima, da Roma arrivava a Tibur (Tivoli), poi con il console Valerio venne prolungata fino a Pescara. La città di Gabriele D’annunzio ha sposato da tempo la modernità. Molti orafi fiorentini l’hanno scelta come residenza definitiva.
Luoghi: Fara San Martino
In un’altra poesia, Giuseppe Tontodonati manifesta tutta l’ammirazione per l’umiltà di San Martino: “Chi po’ capì la vulundà divine / gna da ngéle precipete na stelle’ / nu quatrare vené da la Majelle, / ddò l’acqu’ è chiare e l’aria cilistrine. // E çî spartite nghe stu pilligrine / la caretà, la fede, da fratelle. / Sott’ a le spoglie de stu poverelle / hî viste l’òme nòve, o San Mmartine. // Inzimbre ve ne jest alla ventùre / nghe ‘’lla mezza mandélle de fustàgne / magnénne prògne e rràteche macrégne. // Allindisti allu mmàste che la cegne / a Fara Sa’ Martin, a ch’ la mundàgne / che, gne nna mamme. Allàtte la natture” (5).
Traduzione. Chi potrà mai sondare la volontà divina / come dal cielo precipita una stella / un ragazzo è venuto dalla Majella, / dove l’acqua è chiara e l’aria celestina. // Ha condiviso con questo pellegrino, la carità, la fede, da fratello. / Sotto le spoglie di questo poverello / ho visto l’uomo nuovo, O San Martino. // Insieme ve ne andaste alla ventura / con quella mezza mantella di fustagno / mangiando prugne e radici amarognole. // Sciogliesti il basto dall’asino / a Fara San Martino, che ha la montagna vicina / come una mamma che allatta la propria creatura.
Fara San Martino (6) è un ridente paesello alle pendici della Majella, in Abruzzo. Nel testo si fa riferimento all’abbazia medievale dedicata a San Martino. Martino di Tours ( 316 – 397 d.C.) è stato un vescovo cristiano del IV secolo d. C. Originario della Pannonia, nell’odierna Ungheria, esercitò il suo ministero nella Gallia del tardo impero romano. Si festeggia l’11 novembre, giorno dei suoi funerali avvenuti nell’odierna Tours. In Italia ci sono oltre novecento chiese dedicate a lui. E’ stato il fondatore del monachesimo occidentale. Prima di abbracciare la religione cristiana fu un semplice servitore dell’esercito romano. Fu reclutato nelle Scholae imperiali, un corpo scelto di 5.000 unità perfettamente equipaggiate. Venne inviato in Gallia, presso la città di Amiens, Il suo compito era quello di mantenere l’ordine pubblico, montare di guardia durante la notte, ispezionare i posti di guardia. Durante una di queste ronde avvenne l’episodio che gli cambiò la vita. Nel rigido inverno del 335 Martino incontrò un mendicante seminudo. Vedendolo sofferente, tagliò in due il suo mantello militare, la clamide bianca della guardia imperiale, e lo condivise con il mendicante.
L’uomo nuovo, annunciato da Cristo, reincarnato nel Santo poverello (Pietro da Morrone ma anche Martino di Tours) deve essere il modello del vero cristianesimo. La chiesa dovrebbe riaccendere la fiaccola di una fede così concepita, se vuole ritrovare il suo retto cammino: “Armettéte alla lume lu stuppine… / la notte cale e ll’òme, pe la strade, / cerche la luce lunghe lu cammine” (7). Traduzione: Rimettete lo stoppino alla lucerna / la notte scende e l’uomo per la strada, / cerca la luce lungo il cammino.
Le “Poesie inedite” di Giuseppe Tontodonati, raccolte e commentate dal prof. Vittoriano Esposito, sono ordinate per argomenti secondo una struttura che ne agevola la comprensione e l’analisi. Sono 135 pagine che si leggono con piacere, soprattutto quando si conoscono direttamente le località dell’Abruzzo e non solo. Queste le tematiche dentro le quali sono raccolte le poesie in lingua e in dialetto: l’Abruzzo e la sua gente, la sfera degli affetti, natura e paesaggio, vita militare e prigionia, la poesia come testimonianza, chiesa e religione (di cui ho dato solo qualche spunto), amicizia tra arte e cultura, poesie per musica e canto, tra realtà e favola, tra satira, gioco e ironia, impegno etico – civile, lu vijagge, l’eroe – ad Alceo Tontodonati nel 70° della vittoria, li ggiahande de préte, poesie varie. Il volume contiene anche notizie bio – bibliografiche sia su Giuseppe Tontodonati sia sul prof. Vittoriano Esposito. La poesia Ave Maria, pubblicata su questo sito, è stata scritta da Giuseppe Tontodonati nel 1965, ricopiata su pergamena di suo pugno, quando volle farne dono alla chiesa di Scafa, dedicata alla Madonna del Carmelo; appartiene al primo periodo della produzione poetica, è nella raccolta curata dal prof. Vittoriano Esposito.
Note
- Vittoriano Esposito, Poesie inedite di Giuseppe Tontodonati, Collana di Studi Abruzzesi, nuova serie, 16, Pag. 67, Regione Abruzzo, Consiglio Regionale, 1993.
- Mausoleo di Celestino V. Fonte Wikipedia.
- Giuseppe Tontodonati, Nu Sacrelegge, in Vittoriano Esposito, Poesie inedite di Giuseppe Tontodonati, Collana di Studi Abruzzesi, nuova serie, 16, Pag. 68, Regione Abruzzo, Consiglio Regionale, 1993.
- Ibidem, pag. 68.
- Giuseppe Tontodonati, Sa’ Martine, Ibidem, pag.70
- Il termine Fara indica uno dei corpi di spedizione in cui si divideva il popolo longobardo durante gli spostamenti, forse coincidente con un gruppo parentale. I longobardi scesero in Italia e vi si distribuirono raggruppati in fare. Il termine passò a designare anche l’insediamento sorto sul terreno assegnato (Fonte Internet, Wikipedia). Oggi, Fara San Martino è conosciuta in tutta Italia per la presenza dei più noti pastifici: De Cecco, Valverde. Altro località non lontana da Fara San Martino è Fara Filiorum Petri. Il toponimo è di chiara origine longobarda, che significa “terra dei figli di Pietro”, il comune viene fondato nel periodo della dominazione di tale popolazione germanica, tra il VI secolo e l’VIII secolo. il comune appartiene all’unione dei comuni della Valle del Foro. Nelle Marche, e in Umbria, paesi di origine longobarda sono Gualdo di Macerata e Gualdo Tadino. La parola Gualdo deriva dal longobardo wald “bosco”, talora usata anche per indicare terreni privi di copertura forestale, diffusa in buona parte delle aree interessate dalla colonizzazione longobarda come appellativo di insediamenti (Fonte Internet, Wikipedia).
- Giuseppe Tontodonati, Cummende d’Ocre, ibidem, pag. 70.
La vita e le opere di Giuseppe Tontodonati ( Scafa 1917 – Bologna 1989) sono riportate nel sito ufficiale che è anche un viaggio nell’arte , nella storia italiana del XX secolo e nelle tradizioni della cultura popolare abruzzese. http://www.giuseppetontodonati.it/public/cms/index.php
Raimondo Giustozzi
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