di Lino Palanca [1]
Incursioni, con umiltà, nelle letterature delle principali lingue europee neolatine: Francia, Spagna e Italia. E poi qualche ritorno a un vecchio amore: la storia, la tradizione e la lingua dei nostri territori.
Cadenza quindicinale. Assicuro l’impegno a presentare con fedeltà gioie, pene, estasi e tormenti e sogni che sono di chi li racconta in versi o prose, ma pure nostri.
Se mi riesce.
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FRANÇOIS VILLON [2]
Mais priez Dieu que tous nous vueil absouldre [3]
(Però pregate Dio che tutti ci voglia perdonare)
Si esce piuttosto spaesati e turbati dalla lettura del “Testament”, opera magna di Villon, ricca di figure e scenari percorsi dal sussulto freddo della miseria e dal lamento desolato dell’uomo povero, tradito, abbandonato quale spesso François si sentì, e fu; insieme, ci sfiora la brezza di sapiente ironia che non lo abbandona mai, pronta il più delle volte a scivolare nell’aperto sarcasmo mentre la memoria del poeta svela piaceri e malefatte ed evoca rimpianti e sgomento di fronte al nostro comune destino di morte. È in queste drammatiche ambiguità che germoglia il fascino del capolavoro della poesia francese medievale.
Ne ho fatto la prima conoscenza nelle aule universitarie. All’epoca erano rari i docenti di letteratura francese nei licei che sceglievano Villon per il loro programma di letteratura; faceva ostacolo la difficoltà di testi scritti in una lingua di mezzo millennio prima, che usciva sovente frastornata dalle versioni nel francese del XX secolo. Penso anche che si temesse, con qualche ragione, un impatto troppo duro sulla sensibilità degli adolescenti d’inizio triennio, con tutte quelle scene di impiccati, corpi erosi dalla morte, miseria e soprusi e violenze, col beffardo maître François che cantava, fingendo di condannarlo, il suo amore per la trasgressione e una vita tutta volta… a taverne e puttane [4].
Il senso di disorientamento denunciato in apertura di questa breve nota, ha pur motivo di essere per lo scarso interesse del poeta ad una presentazione ragionata e ordinata dell’immagine di se stesso, che sta regalando ai futuri lettori del Testament. Villon si abbandona al torrente in piena dei ricordi e dei rimpianti, tutto trascinando verso la sua valle ricca di lacrime e amarezze e delusioni dove la finzione dell’amor cortese, ancora così cara alla poesia del suo tempo, è ripudiata e il lirismo è quello dello spleen della vita quotidiana, col suo carico di storie relazionate a quella sua personale, lastricata con le nude pietre della pena di chi si considera nato dalla parte sbagliata della scala sociale.
Il tempo che passa e corre veloce verso il nulla è lo spettro che cattura le paure del poeta del “Testament”. E Lui, Thanatos, padrone assoluto della morte e dei destini, l’evento ineludibile rimosso in gioventù, riappare mentre veglia alle nostre porte col suo terribile, ghignante, gelido sorriso. Lo scheletro dell’orrore ha intrapreso la danza macabra intorno ai capestri di Montfaucon, volteggia nel nero mantello sopra messeri e dame, preti e laici, principi e prostitute; e intanto lascia che la sua falce sibili sinistra tra i marmi dei palazzi e lungo i vicoli spazzati dal vento della miseria … Pallida mors aequo pulsat pede pauperum tabernas regumque turres ….. Di fronte a lei non c’è riposo, non tregua, non salvezza; solo si leva l’appello alla fraternità, stupendo e commovente della “Ballata degli impiccati”, ché comune agli uomini è il cammino che avrà per meta il dolore del trapasso e il disfacimento del corpo, sorte cui nemmeno la bellezza muliebre potrà sottrarsi [5].
Prima di Villon, la letteratura francese ha conosciuto altri maestri del macabro (Deschamps, Regnier, Pierre de Nesson); va detto, anzi, che il macabro era una delle componenti principali dell’immaginario dell’epoca. Johan Huizinga ricorda: Nessun’ epoca ha coltivato l’idea della morte con tanta regolarità e con tanta insistenza quanto il secolo XV. Lungo tutta l’esistenza non tace mai il grido del “memento mori” [6].
Nessuno, però, in quell’epoca, ci ha trasmesso brividi e fremiti di umana pietà come Villon:
Je congnois que povres et riches, So che poveri e ricchi,
sages et folz, prestres et laiz, saggi e folli, preti e laici,
nobles, villains, larges et chiches, nobili, bifolchi, prodighi e avari
petitz et grans, et beaulx et laiz, umili e grandi, belli e brutti,
dames a rebrassez colletz, dame dall’ampia scollatura,
de quelconque condiction, qual che sia lor condizione,
portans atours et bourreletz, pur portando belle acconciature,
mort saisit sans exception. la morte ghermisce senza scampo.
Et meure Paris ou Helaine, E muoiono Elena e Paride,
quiconques meurt, meurt a douleur e chiunque muore, lo fa nel dolore
telle qu’il pert vent et alaine; perde fiato perde respiro;
son fiel se creve sur son cuer, si schianta il fiele nel cuore,
pui sue, Dieu scet quelle sueur! e suda, poi, Dio se suda!
Et n’est qui de ses maus l’alège: e nessuno corre in soccorso;
car enfant n’a, frere ne seur, né figli, né fratelli o sorelle,
qui lors vouloist estre son plege. verranno a prenderne il posto.
La mort le fait fremir, pallir, Freme livido in faccia alla morte,
le nez courber, les vaines tendre, si curva il naso, le vene si tendono,
le col enfler, la chair mollir, il collo ingrossa, molliccia la carne,
joinctes et nerfs croistre et estreindre. nervi s’enfiano e giunture s’incrinano.
Corps femenin, qui tant est tendre, Corpo di donna, così tanto morbido,
Poly, souef, si precieux, levigato, soffice, prezioso,
Te fauldra il ces maux attendre? questo anche a te è riservato?
Oy, ou tout vif aller es cieuls. Oppure salirai vivo in cielo.
Sotto il segno della fragile, precaria condizione dell’essere umano, si svolge il lungo monologo di Villon con se stesso; l’imperterrito folleggiante, spavaldo protagonista d’ogni bravata, capisce ora di essere nient’altro che il povero Villon, nero come uno scovolo, arrivato ormai, spoglio d’ogni ornamento e ricco solo della propria sincerità, all’orlo dell’abisso nella sua esperienza di vita.
Il Testament ci consegna un uomo ricco quant’altri pochi di sensibilità poetica, che al mondo ha cercato invano di strappare il segreto della felicità trovandosi invece a berne, fino in fondo, il calice delle amarezze. Un figlio del suo tempo, ma pure un universale fratello di sventura, che a Dio chiede il perdono delle sue colpe e alla fine svanisce in un orizzonte di nebbia dalla quale nessuno è ancora riuscito a trarlo.
L’uomo: un compagno affascinante, ma scomodo e certo da non imitare nella sua condotta di vita.
Il poeta: irrinunciabile.
[1] Vanni Semplici mi ha amichevolmente sollecitato a rifarmi vivo in questo blog. Volentieri. Per cominciare ho riesumato, rivedendolo e ampliandolo, un vecchio testo su Villon già apparso diversi anni fa da qualche parte nel web, chissà se proprio in questo sito.
[2] François Villon nasce a Parigi nel 1431, l’anno della morte di Giovanna d’Arco. Consegue un diploma alla facoltà delle arti della Sorbona. Vita tumultuosa: nel 1455 ferisce a morte un prete in un rissa. Fuga da Parigi e rientro l’anno successivo, amnistiato. Poco dopo, con cinque compagni, compie un furto al Collège de Navarre, sempre nella capitale. Poi si allontana verso il sud della Francia. È di nuovo in prigione a Meung sur Loire, anche qui amnistiato causa la visita del re in città. Nel ‘61, identificato come uno degli autori del furto al Collège de Navarre, torna in carcere da dove esce con l’impegno di rimborsare i derubati. Nel ‘62 viene condannato a morte per impiccagione in seguito all’ennesima rissa. La sentenza è commutata in esilio decennale da Parigi. Da qui si perdono, per sempre, le tracce del poeta, autore del “Lais” (ballata, canto, poema ma anche lascito) e del “Testament” che saranno pubblicati nel 1489.
[3] Ritornello della Ballade des pendus (seconda metà del XV secolo).
[4] In corsivo le traduzioni dal testo di Villon.
[5] Thanatos (o Thánatos): personificazione della morte nella mitologia greca. * Montfaucon: la collina parigina dove si levava il patibolo degli impiccati. * Orazio: La pallida morte bussa con lo stesso piede / ai tuguri dei poveri e ai palazzi dei re (Carmina, I, IV, vv. 13-14).
[6] J. Huizinga, L’autunno del Medio Evo, all’inizio del capitolo XI, “L’immagine della morte”, Milano, Sansoni 1983.
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