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Sergio Endrigo, il cantautore senza compromessi. Dialogo con Piergiorgio Viti, autore di un tributo dedicato al grande artista

piergiorgio-viti-3Francesco Consiglio By Pangea

 

Quando penso a Sergio Endrigo, il cantautore della saudade all’italiana, mi viene in mente una frase di Emil Cioran che parla del dispiacere di “essere vissuto da sempre con la nostalgia di coincidere con qualcosa, senza, a dire il vero, sapere che cosa”. La nostalgia delle canzoni di Endrigo non è ricordo, è come un desiderio di qualcosa che non abbiamo vissuto e non vivremo mai. Direbbe ancora Cioran: “È nostalgia del paradiso, senza avere conosciuto un solo attacco di vera fede”. Endrigo è stato perseguitato da una falsa immagine di sé: il pubblico lo considerava un cantante triste, e questo marchio doloroso gli ha negato il successo di massa, solo sfiorato per una manciata d’anni, quelli sanremesi. Ma il rapporto con la Rai, che organizzava il Festival ed era l’unico canale percorribile se si voleva avere successo, fu pieno di inciampi. Nel 1963, la commissione giudicatrice s’indignò per l’espressione “Vacche magre”, contenuta nel brano Viva Maddalena. Due anni dopo, la stessa commissione, presieduta dal maestro Razzi, bocciò la canzone Teresa, perché includeva il termine “mica”, ritenuto non idoneo alla lingua italiana (forse perché richiamava una certa rima?). Endrigo fu costretto a farne una versione RAI in cui il verso incriminato: “Teresa, non sono mica nato ieri” diventava “Teresa, la vita è solo un’avventura”. Nel 1970, durante il festival di Sanremo, la sua canzone L’Arca di Noè fu duramente attaccata dai cattolici, Padre Ugolino in testa, che sentenziò: “Non lascia nessuno spiraglio alla speranza”. Una curiosità: lo scorso dicembre sono stato a Milano e ho scoperto che il numero 34 di via Broletto non esiste. Il luogo dove il protagonista della celebre canzone di Endrigo spara alla sua amante (un forellino rosso sotto il cuore, rosso come un fiore…) è un luogo immaginario). Anche di quello potremmo avere nostalgia.

 

Per discutere di Endrigo ho contattato Piergiorgio Viti, autore dello spettacolo La voce dell’uomo – Un tributo a Sergio Endrigo, messo in scena con la regia di Vanni Semplici. Viti insegna italiano, storia e geografia in una scuola media di Porto Recanati. Scherzando, mi ha detto che si tratta di un hobby, perché il suo vero mestiere, quello che ha in testa tutto il giorno, è il poeta. Chiacchierando, il discorso è scivolato via su un altro tema: poesia e cantautori.

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Nel 2015 hai pubblicato una raccolta poetica il cui titolo, Se le cose stanno così, è un omaggio a Sergio Endrigo, un cantautore che ha musicato testi di poeti, tra i quali vanno citati Rafael Alberti, José Martí, Lawrence Ferlinghetti, Vinicius De Moraes, Giuseppe Ungaretti. Nel 2020 hai scritto lo spettacolo La voce dell’uomo – Un tributo a Sergio Endrigo, messo in scena con la regia di Vanni Semplici. Cosa ti lega al cantautore di Pola? Gusti, tematiche, vicende umane?

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Endrigo è di una versatilità eccelsa: saprebbe rendere canzone anche una ricetta sul pollo al curry. Passa con disinvoltura da un genere all’altro, da un tema all’altro con nonchalance, rimanendo Endrigo. È uno dei motivi per cui lo ammiro, il fatto di rimanere sé stesso sempre, come probabilmente fu in vita come uomo; un tipo, insomma, da zero compromessi e sicuramente anche per questo accantonato, relegato alla damnatio memoriae. Penso mi leghino a Endrigo due aspetti fondamentali: il voler lavorare, artigianalmente direi, sulla parola (in questo percorso, per fortuna, non sono da solo, penso a molti bravi poeti che, spesso lontano dal mainstream, dall’‘industria poetica’, lavorano anch’essi in modo artigianale, quasi da orefici, sul testo); poi, mi lega a Sergio una dose q.b. di nostalgia (dolore per il ritorno, secondo l’etimologia). Provo spesso nostalgia e mi sono chiesto tante volte di che. Probabilmente, sono nostalgico di qualcosa che ho perduto o non ho mai avuto. Non chiedermi che cosa, non lo so: penso abbia a che fare con l’archè, con l’età dell’oro, con i miei antenati, qualcosa di irrecuperabile eppure radice.

 

Quanti episodi di collaborazione tra poeti e cantanti conosci? Io, pochissimi. Pier Paolo Pasolini scrisse per Modugno i versi di Che cosa sono le nuvole. Endrigo e Luis Bacalov musicarono venti testi di Gianni Rodari, molti dei quali fanno parte di un album di successo intitolato Ci vuole un fiore. Dal sodalizio tra il poeta Roberto Roversi e Lucio Dalla nacquero tre dischi: Il giorno aveva cinque teste (1973), Anidride solforosa (1975) e Automobili (1976). Per il resto, poeti e scrittori non hanno mostrato alcun interesse ad accostarsi al mondo cantautorale. Per colpa di invidie mal celate, ritrosie, elitarismi, o cosa?

 

Jim Morrison partì proprio dalle sue poesie per comporre quelli che sarebbero diventati i successi dei Doors. Ungaretti tradusse alcune poesie di Vinícius de Moraes in italiano. Un cantautore italiano che ha sempre lavorato, un po’ un unicum, a stretto contatto con la poesia è Marco Parente, che infatti, ho letto da qualche parte, perché ne avevo perso le tracce, uscirà a breve con una performance dedicata a Dino Campana. Mi vengono in mente questi esempi di collaborazione, probabilmente ce ne saranno altri, non tantissimi a dire il vero; questo nonostante anticamente la poesia, prima di essere messa in forma scritta, venisse cantata (dagli aedi). Perché ora siamo arrivati a questo punto? Più che invidie, ritrosie, elitarismi, semplicemente penso che oggi tutto sia sottoposto alle dure regole del mercato discografico: potresti scrivere, tu poeta, il testo della canzone più bella del mondo, ma se poi ha un’intro troppo lunga o non rispetta i canoni rigidi del pop, le radio non te la passano, quindi? Ha senso una collaborazione se il poeta deve fare ciò che un paroliere o un cantautore è in grado benissimo di fare da solo?

 

Fabrizio De André è presente nelle antologie scolastiche, eppure ha scritto quasi sempre in collaborazione con altri (Bubola, De Gregori, Fossati) e molte canzoni sono traduzioni di brani di Georges Brassens e cantautori francesi. Persino il suo verso più famoso, Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior, riecheggia un antico detto buddista. Intendiamoci: a me piace, ma dopo la sua morte ha subito un processo di mitologizzazione che rende difficoltoso, se non impossibile, uno studio filologico dei testi.

 

Purtroppo, e lo dico da insegnante, nelle antologie scolastiche spesso si fanno scelte discutibili. Ad esempio, a parte rare e luminose eccezioni, viene del tutto ignorata la poesia dialettale, che invece è centrale nella nostra letteratura. Potrebbe esistere, oggi, un buon manuale senza un Baldini, un Loi, un Franzin, che hanno scritto pagine meravigliose utilizzando il dialetto? Non solo: nelle antologie scolastiche viene ignorata per esempio la poesia femminile (penso alla Rosselli, alla Oppezzo, ma non solo), e del tutto eclissati i poeti più significativi che hanno operato fuori dall’Italia, come se fuori dalla penisola non si scrivesse. Quindi, cosa dovrebbe fare un buon insegnante? Andare oltre le antologie. Su De André, che dirti, mi è sempre piaciuto, ma gli preferisco l’originale (scherzo), cioè Brassens. E poi, mi sta bene la sua mitologizzazione (anche se, come te, fatico a comprenderla), però a questo punto mitizziamo anche Lauzi, Bindi, Tenco, Graziani, Ciampi, Endrigo. E per par condicio, infiliamoci pure loro nelle antologie scolastiche, magari in un percorso ‘interdisciplinare’, tuttavia sempre di difficile attuazione nella scuola italiana, dove ancora esistono, parola orrenda, le ‘materie’.

 

Mario Luzi non ha avuto il Nobel, Bob Dylan sì. Mi ricordo che Baricco disse: “È un grandissimo cantautore ma, per quanto mi sforzi, non capisco che cosa c’entri con la letteratura”. Non riesco a dargli torto e penso che bisognerebbe istituire delle nuove categorie di premi, ad esempio per i testi delle canzoni o per quelli teatrali (analoga polemica si scatenò con l’assegnazione del Nobel a Dario Fo). Perché se il Nobel per la letteratura diventa un calderone della parola scritta, allora anche un pubblicitario potrebbe conquistarlo.

 

Non ho mai considerato il Nobel come cartina di tornasole di quello che succede in letteratura. Raymond Carver, uno dei miei scrittori preferiti, non l’ha mai vinto, per esempio. Così come non lo hanno mai vinto Borges, Calvino, Tolstoj, Joyce, la Yourcenar, ecc. Cosa voglio dire? Che il Premio Nobel è un premio come un altro, assegnato da persone che amano la letteratura come me e te. La letteratura non è matematica: il gusto personale è, appunto, qualcosa di confutabile, a differenza dei risultati di una divisione o di una sottrazione. Nicola Crocetti, famoso editore e traduttore, raccontò, ospite a Recanati, molti aneddoti sul Nobel, e per l’Italia, mi ricordo, disse che il referente dell’Accademia svedese era, fino a pochi anni fa, un semplice professore di italiano che insegnava all’estero.

 

Per Vecchioni, “I poeti hanno visto la guerra / con gli occhi degli altri / che tanto per vivere han perso la pelle. / Così scrivon piangendo cipolle / su barbe profetiche intinte nel vino / che pure gli serve” (I poeti, 1975). Per Bertoli, “Il poeta è un uomo stanco che si sveglia a mezzogiorno / che si affaccia dal balcone e si guarda appena intorno / insicuro e sempre incerto si trascina alla sua tana / caffelatte con le uova che la mamma gli prepara” (I poeti, 1981). Infine, per De Gregori, “Alcuni sono ipocriti e gelosi come gatti / scrivono versi apocrifi, faticosi e sciatti. / Sognano di vittorie e premi letterari / pugnalano alle spalle gli amici più cari” (Poeti per l’estate, 1985). Quanti stereotipi, e quanto disprezzo per una cultura alta con cui non si mangia!

 

Molti degli stereotipi sul poeta risalgono al Romanticismo: chiuso solo nella stanza, è lì che compone versi, isolato da tutto e da tutti. Penso siano idee fuorvianti, da rigettare o quantomeno da aggiornare! Il poeta, in quanto testimone della società in cui vive, deve, appunto, vivere, non isolarsi in una torre d’avorio, a meno che non stia scrivendo. Quindi, il poeta moderno, nella mia visione, dovrebbe essere esperto, o quantomeno curioso, di tanti argomenti (non si può scrivere nulla su ciò che non si conosce!) perché, soprattutto, non può permettersi il lusso di essere monocorde (e parlare solo di natura, per esempio); dovrebbe viaggiare molto, perché stimolato dal confronto con luoghi, persone, abitudini diverse; dovrebbe informarsi su quanto accade nel mondo, affinché  la complessità del mondo diventi la complessità del suo pensiero e del suo linguaggio; soprattutto dovrebbe leggere, leggere parecchio, non solo poesia, ovviamente.

 

*Piergiorgio Viti vive in Italia, a Porto Recanati, dove è professore di lettere. Nel 2011 ha pubblicato la prima raccolta poetica, Accorgimenti, mentre nel 2015, per Italic, esce Se le cose stanno così. Ha scritto per il teatro: La fiabola di Virginio e Virgilio con Tosca protagonista, e I sogni di Ray con Carlo Di Maio. È andato in scena come autore e voce recitante ne La voce dell’uomo, un tributo al cantautore Sergio Endrigo. Ha tradotto I Preludi di Alphonse de Lamartine, letti da Ugo Pagliai e Paola Gassmann per il festival ‘Armonie della Sera’. Nel 2020 ha partecipato, unico italiano, al progetto internazionale ‘Infusions poétiques’ dell’artista Cécile A. Holdban, con altri 170 poeti di tutto il mondo. Il progetto prevedeva che ogni poeta, durante il lockdown causato dalla pandemia COVID-19, scegliesse un proprio verso pieno di fiducia e di speranza per il futuro; il verso è stato illustrato dall’artista su dei sacchetti da tè assemblati in un unico, grande tappeto, dalle gigantesche dimensioni. Il progetto è stato presentato nello spazio Andrée Chedid, a Issy-les-Moulineaux.

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