di STEFANO BARDI
Un angelo troppo velocemente volato in cielo è stato il poeta Simone Cattaneo nato a Saronno nel 1974 e morto suicida a Saronno, nel 2009. Suicido sul quale ancora oggi dopo undici anni si discute senza capirne il motivo, ma, di sicuro il poeta ha compiuto questo infausto gesto a causa di un lacerante, straziante, sanguinante e doloroso pianto spirituale che sì lo ha condotto alla morte volontaria, ma allo stesso tempo, lo ha trasformato in un essere immortale per la gioia dei nostri oceanici sguardi.
Immortalità conquista anche attraverso la scrittura poetica, in cui riversò il disperato urlo e il rabbioso canto di dolore verso un Mondo, in cui dal 2001 in poi si estraniò sempre di più. Il 2001 è l’anno della raccolta Nome e soprannome dove si possono vedere rimandi pirandelliani, poiché nell’opera del poeta saronnese l’Io che parla in versi e prose poetiche, si distanzia dal suo terreno corpo ormai da tempo dilaniato e incapace di versare calde lacrime colme d’affetto, poiché si sono trasformate in sanguinose e fameliche grida[1]. Sangue ormai che non ha più importanza per questo nuovo Io, che, si è trasformato in acqua vacua di sapori e di luminose trasparenze[2]. Un sangue in poche parole, che, è ormai privo di un’anima e non più in grado, di medicare nessuna straziante reminiscenza e nessuna cimiteriale lacrima[3]. Io qui dotato di nuovi occhi in grado di scrutare oltre l’esistenziale bruma a differenza dei suoi terreni occhi, che, sono dei pozzi prosciugati da Apollo al pari della luna incapace di conservare le sue lacrime[4]. Occhi che hanno il compito di trovare un soffice voce colma d’amore e in particolare, una voce capace di pronunciare parole colme di odio, sangue, morte, insignificanti commiserazioni[5] e capaci allo stesso tempo, di mutarsi in nostalgiche brume e cristalline melodie invisibili ai famelici sguardi umani[6]. Occhi, anzi sguardi, che sono purificati dalla loro resurrezione seppur comunque conservano nel loro oscuro abisso visioni mortali, ardenti passioni e melodie scheggiate. Sangue, occhi, parole e membra le cui passate ferite sono purificate dalle passionalità, dalle purezze e dalle cristallinità delle sue movenze che riflettono la sua passata esistenza come un’insignificante nostalgia[7]. Membra infine dannate come il poeta saronnese, poiché anch’esse schiave e incarcerate in una Vita materiale da esse non voluta[8].
Viaggio quello dell’Io che procede e si ferma nuovamente, all’interno di Made in Italy del 2008. Opera in cui l’Io del poeta saronnese prende le distanze dalla terra in cui è nato, poiché non è più per lui la dolce e compassionevole casa che lo ha allevato, ma, è vista come una vagina famelica di depravati e lussuriosi peni[9], come un trasgressivo e sadomaso corpo erotico[10], come una latrina di sputi e bestemmie, come una quotidiana malattia[11], come una beltà in perenne decomposizione[12], come una donna da scopare, come una sadica cupidigia, come una fastidiosa nostalgia, come una ferita infinitamente sanguinante[13] e infine come una naturale fuga.
Viaggio che si conclude per l’Io nell’opera postuma Peace&Love del 2012 e poi ristampata, nel 2014. Pace qui concepita come un Mondo, in cui l’anormalità è l’unica realtà accettabile e dove la senilità, è la fonte battesimale per eccellenza. Anormalità in cui si immerge l’Io di Simone Cattaneo, che, vorrebbe trasformarsi in una brina infettante[14], poiché l’umana esistenza altro non è che uno scheggiato sogno. Anormalità in cui l’amore è un sentimento selvaggio, putrido, portatore di morte[15] ed è concepito, come una fusione carnale di fisici depravati[16]. Un amore infine rintracciabile nella figura della donna, anzi delle donne che popolano questo universo e concepite da Simone Cattaneo, come creature da dissanguare e spegnere selvaggiamente attraverso ingordi peni maschili[17].
[1] SIMONE CATTANEO, Peace&Love, Rovigo, Il Ponte del Sale, 2014, p. 12. “[…] ho scavato la mia carne / come fosse una vela / e ho gettato sabbia sopra il pianto / ho creduto nella pena, nel silenzio, / nella domanda liscia della fame”.
[2] Ivi, p. 13. “[…] per poi dividersi e sciogliersi nell’acqua / osservando la terra slacciarsi dal cielo / in un colore senza più sorgente né mistero”.
[3] Ivi, p. 15. “[…] Non c’è bisogno di nessun sacrificio, / la memoria del sangue qui non cicatrizza / alcuna ferita”.
[4] Ivi, p. 18. “[…] Stamani l’alba ha prosciugato tutta la luce. / La luna è solo acqua che non s’assorbe”.
[5] Ivi, p. 26. […] affinché tu possa dire / di aver razionato l’orizzonte / senza alcuna misericordia”.
[6] Ivi, p. 34. “[…] un vapore brillante che ti lega a sé / come un torrente d’acciaio in fonderia / che gli occhi non devono vedere / per non lasciarsi consumare / dalla rabbia del rame”.
[7] Ivi, p. 40. “[…] è conoscenza / d’un male così calmo / da rimanere trasparente / ad ogni mio passaggio”.
[8] Ivi, p. 45. “[…] qui c’è da lavorare, / da leggere ciò che scrivo, / d’abbracciarsi ancora un poco”.
[9] Ivi, p. 54. “[…] È strana la vita in primavera, i sensi si svegliano e il cielo sembra / un grande defibrillatore”.
[10] Ivi, p. 55 “[…] e divertiamoci sul serio, non ho voglia di perdere tempo con te / non è il momento delle congratulazioni / dobbiamo darci dentro”.
[11] Ivi, p. 57. “[…] in attesa di una nuova leucemia”.
[12] Ivi, p. 60. “[…] stropicciata e senza nervi faticavi a contare / quante dita delle mani servono per sollevare / una tazza di caffè. È stato piacevole guardarti […]”.
[13] Ivi, p. 75. “Non è importante ciò che resta o si è fatto, / sono le cicatrici suppergiù visibili / disegnate sul corpo come una mappa di punti interrogativi / che mi piombano addosso e mi inchiodano qui davanti a te, / frontiere avide di dubbi latitanti / che non puoi risanare né ingabbiare […]”.
[14] Ivi, p. 95. “[…] Vorrei essere una rugiada di sangue”.
[15] Ivi, p. 99. “[…] uno sporco ricchione, un cazzo marcio invertito, / un topo in gola che trasmette la rogna”.
[16] Ivi, p. 102. “[…] una maschera africana attaccata alle stelle di ogni città, / con la propria lingua e la propria inerzia / uno stallone castrato senza più fiato”; p. 107. “Vieni figlio mio, portami cento occhi in un cesto da frutta e poi / vestiti da donna, ungi il tuo corpo su quei muri pieni di cocci / di bottiglia sotto i riflettori di una scintilla e spompina ogni / profugo che incontri, buttati dal quinto piano di un palazzo per / cercare / un taxi, muovi i tuoi fianchi e il denaro non ti mancherà figlio mio, […]”.
[17] Ivi, p. 122. “[…] sei nata per formicare con i miei artigli inchiodati / alla tua camera da letto”.
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