di STEFANO BARDI
Fin dalla nascita e dal suo primo vagito il dialetto è per il poeta, critico letterario e docente universitario Fabio Maria Serpilli nato ad Ancona nel 1949, una lingua degna di valori morali, nobili principi, scopi pedagogico-sociali e non meramente una lingua insignificante, inutile e peggio ancora di terza categoria. Lingua, il vernacolo anconetano, da lui studiato e analizzato nel profondo attraverso la pubblicazione di antologie collettive di poesia vernacolare marchigiana e opere poetiche. Poeta, l’anconetano, che è stato definito da alcuni critici come l’erede vivente del poeta Franco Scataglini, ma, personalmente non condivido affatto questa affermazione perché il dialetto del poeta Franco Scataglini si basa su una lingua poetica di un autodidatta che usa il vernacolo del suo tempo a differenza del vernacolo usato da Fabio Maria Serpilli, che, è l’arcaico vernacolo del ceppo linguistico appartenente alla famiglia dell’anconetano da lui usato e rimodellato per creare liriche reminiscenziali, pedagogico-educative e socio-civili. A conferma di quello che dico, va precisata la perfetta grafia e struttura sintattico-grammaticale dell’arcaico vernacolo usate da Fabio Maria Serpilli.
Fatta questa premessa iniziano il nostro viaggio all’interno della poesia serpilliana, dalla raccolta Castalfretto nostro del 1989. Opera dedicata alla città anconetana di Castelferretti e in cui troviamo, la dichiarazione d’amore del poeta per il vernacolo da lui concepito, come una lingua popolare, cristallina e filosofica[1]. Città che non è solo una reminiscenza del passato, ma anche in parte, una città metafisica che risveglia nel nostro cuore i fischi della nostra passata esistenza[2] e che ci mostra, la vera faccia dei marchigiani caratterizzata da una perenna tristezza[3]. Metafisica che si trasforma in magia, attraverso il medievale castello che muta il centro storico locale in una fotografia senza colori, in cui il poeta rivede il suo lacrimante cuore e la sua passata puerizia animata dalla spensieratezza, dall’allegria e dalla solitudine[4]. Metafisica e magia affiancate dalla quotidiana religiosità castelfrettese, dal poeta esposta attraverso il ricordo di Don Franco Perani ricordato come un’eccellente oratore della giustizia e di Don Fausto Guidi, dal poeta rimembrato come un bonaccione e (forse) non tanto in grazia di Dio. Religiosità che inoltre si carica di un forte valore teologico nella poesia serpilliana e che muta la cittadina anconetana, nel paese in cui si vive in pieno la pietà cristiana, ovvero, l’amore che tutto dà e nulla chiede in cambio[5]. Amore, che, come ci insegna Fabio Maria Serpilli lo si può ritrovare anche nel dialogo con i morti e nella lode contemplativa a Dio. Tema il primo riscontrabile nella lirica “El cimitero” dove il locale camposanto, si trasforma in un immenso campo fiorito dove le anime dei nostri intimi e amicali affetti convivono fraternamente illuminando con i lori spiriti, le nostre brume esistenziali[6]. Tema il secondo riscontrabile nella lirica “Preghiera” dove il poeta contempla Dio, poiché ha Castelferretti dove in ogni strada, vicolo e quartiere si può vedere il volto del Padre Celeste[7]. Città che oltre a dare il volto del Padre Celeste, gli conferisce pure una paradisiaca e candida voce in grado di addolcire gli strazi, i dolori, le lacrime e le ferite dei suoi concittadini[8]. Città infine concepita da Fabio Maria Serpilli, come un paradisiaco ed elisiaco universo in cui riflettere sugli errori del passato per poter migliorare la futura esistenza.
Il 1999 è l’anno della raccolta Mal’ Anconìa inserita nell’antologia Canto a cinque voci. Poeti in lingua e in dialetto insieme alle opere poetiche di Alessandro Mordini, Paolo Marzioni, Ada Giannella Abate e Francesco Gemini. Opera quella serpilliana traducibile come male di ancona e mestizia di Ancona, dal poeta esposti attraverso l’arcaico vernacolo anconetano rimodellato sul moderno vernacolo locale. Male rintracciabile nelle liriche “I corsi”, “Tremòto”, “Angonìa”, “Preludio” e “Gigante”. Poesia, la prima, in cui i corsi cittadini simboleggiano la vita degli uomini e delle donne, ovvero, un cammino animato da insensibili, brumose e cineree anime schiave di un falso tempo esistenziale, ma, soprattutto di un’incomprensibile, ragnatelico e labirintico presente[9]. Poesia, la seconda, dove il terremoto simboleggia la quotidiana esistenza di Ancona e degli anconetani scandita da un sadico tempo animato da ansiose voci, tumorali e infettanti affetti, folli sentimenti e derisori sguardi. Poesia, la terza, dove la città rappresenta una donna dallo spirito sofferente lanciante urla disperate e versante lacrime straziate, poiché i suoi calorosi affetti sono schiavi delle offuscate e tiranniche brume esistenziali[10]. Città, che, nella quarta poesia è paragonata alla Milano lombarda, ovvero, Ancona come una città dove la fratellanza etico-sociale è sostituita da un assordante silenzio lavorativo, linguistico e affettivo. Poesia, la quinta, dove gli anconetani sono rappresentati come creature affettivamente e moralmente insensibili alle sofferenze, alle lacrime e alle ferite altrui[11]. Mestizia riscontrabile invece nelle liriche “El Passetto”, “Cucale”, “Fantàsimi” e “Malincunie”. Poesia, la prima, dove il Passetto è concepito come il balcone del mondo dal quale vedere oltre le brume esistenziali e rispecchiarsi nel cristallino mare, in modo così da vedere le nostre passate gioie e poter volare liberi nell’aria, come un gabbiano che purifica il cielo e il mare con le sue candide ali[12]. Poesia, la terza, dove l’anima del poeta resuscita dal suo cadaverico corpo e vaga nella sua amata Ancona vista come un universo colmo di dolci melodie, argentee carnalità e lussuriose gioie. Poesia, la quarta, dove il Duomo di Ancona è uno scrigno colmo di beltà coccolate dalla paradisiaca ed elisiaca voce di Dio[13].
Il 2002 è l’anno della raccolta Èl paése e la cità all’interno dell’opera I luoghi dell’anima scritta a quattro mani, insieme al poeta anconetano Paolo Marzioni. Opera, quella serpilliana, in cui il vernacolo anconetano dipinge la città natale del poeta come un terreno Inferno in grado di oscurare l’anima di coloro che la adorano, come uno scrigno contenente arcaiche luci inesplorate, come la città della puerizia per eccellenza coccolata dal candido cielo e dal cristallino mare, come una città fortemente devota a Dio e come una città infine, dall’apollonico sole in grado di purificare le brume e rinvigorire le nature morte. Città, Ancona, dal suo figlio più illustre affiancata dalla sorella Castelferretti concepita come un luogo dalle oscure, mortali, aspre, ingorde emozioni e come un grande specchio riflettente una Vita sempre diversa nella sua terrena quotidianità.
Il 2009 è l’anno della raccolta Falconara e i quaranta padroni. Cose vechie… e guasi nove, in dialetto anconetano. Opera dedicata alla città anconetana e divisa, nelle sezioni Cose vechie e …E guasi nove. Sezione la prima dove è dipinta la Falconara Marittima di una volta con la stazione ferroviaria tutt’ora presente simboleggiante il cammino umano composto da partenze e fugaci pause, ma anche e soprattutto, da filosofiche e meditative attese in cui riviviamo i nostri passati flash-back esistenziali più commoventi, emozionanti e sanguinanti[14]. Stazione ferroviaria affiancata dalla spiaggia intesa come un immenso campo elisiaco, in cui percepire dolci e leggiadre melodie[15]. Stazione ferroviaria, spiaggia e infine Falconara Alta, come un Paradiso terrestre abbracciato da un cristallino cielo, da infermali colline simili a oscuri pozzi e da un trasparente mare come le anime dei falconaresi. Sezione la seconda concentrata sulla moderna Falconara Marittima, ovvero, il borgo di Falconara Bassa animato da blasfeme insincerità, irreali acque marittime, frenetiche esistenze, linguaggi interrazziali, infettate membra[16], drogate e allucinate dipartite[17], codarde parole ingorde di innocente sangue umano e incurabili emarginazioni psico-sociali[18].
Il 2017 è l’anno della raccolta Lengua de Aleluja all’interno dell’antologia Lingua lengua. Poeti in dialetto e in italiano insieme ai poeti marchigiani Jacopo Curi, Gianluca D’Annibali e Francesco Gemini. Opera questa in vernacolo anconetano e tematicamente differente da quelle precedenti, poiché, in questa raccolta si parla di Dio in chiave biblica ed evangelica. Padre Celeste visto dal poeta anconetano come la luce che ci guida nelle oscure brume, il sole apollonico che purifica le nostre ansie, il pane quotidiano che ci fa vivere a sua perfetta somiglianza[19] e come un essere dotato di uno spirito caritatevole, di una voce potente e gloriosa[20], di dorate mani creatrici di Paradisi terrestri[21], di inebrianti membra[22], di un’ombra in grado di lavare i cadaverici dolori e riscaldare le sanguinanti mani incarcerate nelle esistenziali brume[23], di irosi sguardi e infine, come un padre dal sanguinante cammino colmo degli umani dolori e parlante attraverso un compassionevole cuore[24].
Il 2018 infine è l’anno dell’antologia Poeti neodialettali marchigiani curata da Jacopo Curi e Fabio Maria Serpilli. Opera che può essere considerata un’opera omnia, dove poter leggere le poesie dei due curatori tratte dalle loro opere e le poesie, di poeti marchigiani e nati non marchigiani, ma, diventati figli adottivi della regione Marche.
Poesia, che, come capiamo da queste parole è una missione di Vita per Fabio Maria Serpilli.
Missione la sua continuata ai giorni nostri da giovani poeti, come per esempio il maceratese Jacopo Curi (San Severino Marche, 1990).
Poeta, che, ci lascia la raccolta Tutte ‘lle ‘orde che non g’ero in vernacolo appignanese-maceratese, all’interno dell’antologia del 2017. Opera dell’assenza divisa in quattro sezioni: Paesi de collina, Cerchènno Anteros, ‘U mitu de Sisifu e Radeche, porzòle e ‘u valore dell’introverzió’. Sezione la prima in cui la vacuità si manifesta in nature soffocate dall’assordante canto della fabbrica che uccide i divini nettari[25], in campagne dalle abissali emozioni[26] e in promontori dal cadaverico cuore. Sezione la seconda in cui la vacuità, si manifesta in amori evanescenti, nostalgicamente decrepiti e carnalmente sterili. Seziona la terza in cui la vacuità, si manifesta in avare beltà[27], in ancestrali fotografie[28], in folli chimere e in cadaverici fisici in eterna decomposizione[29]. Seziona la quarta in cui la vacuità, si manifesta in energie versanti lacrime di pietra[30].
[1] FABIO MARIA SERPILLI, Castalfretto nostro, Chiaravalle, Tipografia Tarabelli, 1989, p. 68. “[…] La bleza del dialeto vol dì questo: / parlare come t’ha inparato mama. […]-[…] Le regule passale a fil de lama / cuscì che possi dire mejo e presto. […]-[…] L’inpurtante è parlare bè del male / nel mete giusto dô parole in croce […]”.
[2] Ivi, p. 11. “[…] rumor de rote che rinbonba drento, / fischio inproviso che facea trasale”.
[3] Ivi, p. 14. “[…] E cuscì da ponte Murato a ponte / San Sebastià, avemo la stesa dote: / la stesa facia cun quel’aria chiochia…”.
[4] Ivi, p. 17. “[…] è mezo casco ma smuija al core / mio sbecato che crola e che nun crola. / Ce so’ crisciuto qui soto e da fiolo / giravotondo pe l’ore de l’ore / po’ fuge tuti e sei rimasto solo…”.
[5] Ivi, p. 22. “[…] La note nun smeteva mai da nengue / su la colina giù pe la spianata / cantava j’angiuleti in cento lengue. / Da Granceta ha sintito i pegurari, / più da longo s’è smosa Camerata, / sti päesi dintorni zanpugnari”.
[6] Ivi, p. 47. “[…] Che inpresió el cimitero che se vede / in baso. I morti cià le mani gionte. […]-[…] Mile fiamele fanne un lanpadaro: […]-[…] vivemo quando prima che sia tardi…”.
[7] Ivi, p. 70. “[…] Ma basta un strigulì de l’armunia / per dì che ridovunque el sguardo giro / in mezo Dio te vedo e cusì sia!”.
[8] Ivi, p. 38. “[…] Queli scì che meteva i sentimenti / che te faceva inteneritte el core / co l’armunìa de tuti i strumenti!”.
[9] FABIO MARIA SERPILLI, Mal’ Anconìa in FABIO MARIA SERPILLI-ALESSANDRO MORDINI-PAOLO MARZIONI-ADA GIANNELLA ABATE-FRANCESCO GEMINI, Canto a cinque voci. Poeti in dialetto e in lingua, Ancona, Humana, 1999, p. 17. “Andà ri-ndà per corsi trini / un cure solo, mile distini. / Orlògi che bate tut’i tempi / quelo d’adè nun arcapézi […]”.
[10] Ivi, p. 22. “[…] Cità de l’angonìa / quanto meno t’aspeti / alza tuti i canpanili / vié su cun tut’i téti”.
[11] Ivi, p. 28. “[…] l’onbra / l’onbra tua se slonga / per vìgoli e per slarghi / in tuta la cità”.
[12] Ivi, pp. 18-19. “[…] Da alto guardi / fin dove apare / fin’a che punto / si l’aria schiara / senza calígo / senza mai tere / mare più mare. […]-[…] cucale / in mezo al cèlo / con dó lale”.
[13] Ivi, p. 35. “[…] conchija fonda indove / calato Dio rimaso el sòno”.
[14] FABIO MARIA SERPILLI, Falconara e i quaranta padroni. Cose vechie… e guasi nove, Falconara Marittima, L’Orecchio di Van Gogh, 2009, p. 9. “[…] Ma i treni e i treni che viènene e vànene / ce dà na nazionale sensazió / sibene tuti pasa e nun rimànene. […]-[…] io ancora te ‘speto in sala d’aspeto…”.
[15] Ivi, p. 10. “[…] lasci el sono del mare a ‘na cunchija, / l’onda co’ l’onda fa ‘na melodia”.
[16] Ivi, p. 34. “[…] La vita? / Chi la pìa e chi la dàndula: / el sessometra pìa le forme / dei seni a màndurla. / Ilario, / davanti al forno je viè dito: / “Chi cià el pà nun cià i denti!” / e l’incuntrario”.
[17] Ivi, p. 38. “[…] famo na fine in rima / malamente / se dopo pogo vive / se more eternamente! / E lia senza più denti / a capofito de / stupefacenti / …”.
[18] Ivi, p. 47. “[…] a stà al mondo ce vole / un fisico bestiale… / o l’indèlma de Charlot! / Nun c’è de che! / Giù el sipario…”.
[19] FABIO MARIA SERPILLI, Lengua de Aleluja in JACOPO CURI-GIANLUCA D’ANNIBALI-FRANCESCO GEMINI-FABIO MARIA SERPILLI, Lingua lengua. Poeti in dialetto e in italiano, Ancona, Italic, 2017, p. 143. “[…] Biato chi sequèla al Signore / de note un lume apena / e de giorno pieno sole. / È pianta che vòle sole e piova / e tempo al tempo méte i fiori / e tempo al tempo i fruti / de stagió nova. […]”.
[20] Ivi, p. 146. “Al son del’organo e de canne / se leva un canto de le meravije / un canto che prencipia piano piano / e ‘npò a la volta ingrande e se magnifica […]”.
[21] Ivi, p. 150. “Ho rivisto la tera stamatina: / è tuta tua da cima a fondo / in lungo e in largo l’hai sfojata, / Signore, quant’è granda! […]-[…] Hai disegnato i cieli / cui diti de le mani / come ‘n artista, / de stele li ricami […]”.
[22] Ivi, p. 154. “[…] Librate, spirto mio, / al greve de la carne! / Sòrti for de pèle / legero come un brivido…”.
[23] Ivi, p. 160. “[…] Te cerco in campi brini / e verso i monti argenti / alzo le mà che trema / ai nubi trasparenti […]”.
[24] Ivi, p. 180. “[…] “Ve darò un core novo” / acrobatica profezia / pe na nova apocalise / e cusì sia”.
[25] JACOPO CURI, Tutte ‘lle ‘orde che non g’ero in JACOPO CURI-GIANLUCA D’ANNIBALI-FRANCESCO GEMINI-FABIO MARIA SERPILLI, Lingua lengua. Poeti in dialetto e in italiano, Ancona, Italic, 2017, p. 13. “[…] Su ppe’ i viculi se ‘nganala / ‘u ventu che scòte l’ombre / e ‘u runzìu de ‘a fabbrica / sguèrcia sèculi de cambagna”.
[26] Ivi, p. 14. “[…] i cambi fa’ l’eco ‘a terra / se l’ha rpijati mango fosse / ‘na matre devota”.
[27] Ivi, p. 33. “[…] Mettamoce a sedé’ pe’ terra / e spettamo che óggi / facesse male domà”.
[28] Ivi, p. 36. “[…] Quanno me resvejo / tróo ‘na reardà disanimata / esistita addre mille orde. / E addre mille orde esisterà / senza rendecene condo”.
[29] Ivi, p. 45. “[…] Spetto l’Apocalisse / su ‘a testa pe’ vedella / e avecce tembu”.
[30] Ivi, p. 54. “[…] de ‘na polaroid che bbruscia / ‘a mia ‘a vedrà i fiji che non c’arrò / da rreto ‘u muru che sparte / chi esiste da chi no / carghi vòti […]”.
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