di Tomaso Montanari
Prendendo a prestito un’espressione dal linguaggio dell’esegesi biblica, si potrebbe dire che le dimissioni di Lorenzo Fioramonti dal Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca sono un ‘segno contraddetto’. Un segno politicamente profetico: cioè un giudizio chiaro e critico sulla realtà, e dunque l’annuncio di una possibile diversità. Ma, appunto, un segno contraddetto: non riconosciuto come tale, contestato, non compreso. Un gesto radicalmente antisistema: che il sistema, dunque, rigetta.
In Italia i ministri si dimettono (quando, raramente, si dimettono) se travolti dallo scandalo, o più raramente per questioni politiche, per esempio per un cambio di maggioranza. Non ha forse precedenti nella storia repubblicana il caso di un ministro che si dimette perché il governo di cui fa parte, e dunque in primo luogo il suo presidente del Consiglio, non gli ha permesso di fare il proprio lavoro, onorando il giuramento sulla Costituzione.
Naturalmente, alcuni suoi colleghi di partito (o di movimento: ma davvero nulla cambia se non la parola) lo hanno immediatamente attaccato: accusandolo di codardia, diserzione, ‘animabellismo’. E così ha puntualmente fatto la stampa organica al governo. Segni tristissimi del sistema in cui si è così velocemente cristallizzata una forza politica che si diceva antisistema.
Ma la realtà è un’altra: ed è tanto lineare da essere incomprensibile per chi ragiona con la mentalità irreale della politica politicata. Dopo aver ben compreso, durante il disastroso dicastero Bussetti, quale fosse il limite minimo di galleggiamento della scuola e dell’università italiane in fatto di finanziamenti, Fioramonti aveva messo come condizione della sua accettazione del posto da ministro il raggiungimento di quel limite.
In soldoni: due miliardi per la scuola, un miliardo per l’università. Alla fine, le necessità minime della scuola sono state soddisfatte, ma quelle dell’università no. Giuseppe Conte ha trovato in poche ore 900 milioni per la Popolare di Bari, ma in tutti i mesi del suo secondo governo non ha voluto mettere sul tavolo un miliardo per l’università italiana. Fioramonti ha aspettato fino a quando la sua sconfitta non è stata certificata dal voto finale sulla legge di stabilità. Pochi giorni prima di Natale ha parlato con Conte e Mattarella, che sono stati capaci di dirgli soltanto che lo capivano, e che la sua posizione era seria e rispettabile: ma non hanno alzato un dito per creare le condizioni per farlo rimanere.
E così, alla fine, Fioramonti ha fatto quello che aveva detto: debolezza evidentemente imperdonabile per un politico italiano. Aspettare ancora, rimanere dopo la finanziaria, avrebbe voluto dichiarare che l’obiettivo era cambiato: dal servizio alla scuola e all’università alla gestione del proprio potere. Perché una cosa è evidente: dimettendosi, Fioramonti si è suicidato, sul piano politico. Nessuno capirebbe un suo sostegno ‘esterno’ a quel Conte che ne ha determinato le dimissioni con una scelta così grave. Né credo che un ennesimo gruppo parlamentare di transfughi avrebbe alcun senso. La logica della situazione dice che, presto o tardi, il futuro di Fioramonti sarà il ritorno alla sua vita di professore: a quella vita ‘altra’ dalla politica che gli ha consentito una libertà, un coraggio e una determinazione che i professionisti della politica (inclusi quelli, nuovissimi e tristissimi, a cinque stelle) non potranno mai avere.
Ma, a modo suo, Fioramonti non è uno sconfitto: anzi è uno che ha con questo gesto ha avuto uno straordinario successo. Ha scritto Michael Walzer: «Il successo così come viene misurato dal mondo non è il metro adatto a valutare la critica sociale. Il critico si misura dalle tracce che recano coloro che lo ascoltano e leggono le sue opere, dai conflitti che egli li costringe a sperimentare, non solo nel presente, ma anche nel futuro, e dai ricordi che quei conflitti lasciano. Egli non riscuote successo convincendo la gente – poiché a volte ciò è semplicemente impossibile – quanto mantenendo viva la discussione critica. Buber si sentì abbastanza spesso come un profeta nel deserto, ma la reazione giusta a questa sensazione, egli scrisse, non “è ritirarsi nel ruolo dello spettatore silenzioso, come fece Platone”. Il profeta deve continuare a parlare, “deve trasmettere il suo messaggio. Verrà frainteso, mal interpretato, usato in maniera impropria, o potrà persino rafforzare e indurire la gente nella sua mancanza di fede. Ma il suo pungiglione brucerà dentro di loro per tutto il tempo”».
Allora, la cosa davvero importante è riflettere su chi sono i ‘loro’ nei quali, in queste ore, brucia il pungiglione di Fioramonti. A mio giudizio sono tre: il Movimento 5 Stelle, il governo Conte, l’università italiana.
Fioramonti che lascia la poltrona (e in prospettiva la politica) perché non è riuscito a ottenere il risultato minimo necessario al cambiamento, ricorda ai Cinque Stelle la ragione per cui sono nati: cambiare questo Paese. Arrivati al potere, l’hanno completamente dimenticata: e infatti alle elezioni vengono massacrati, e avanti di questo passo finiranno con lo sparire. Qualunque esponente del Movimento prenderà quella poltrona senza ottenere quel miliardo mancante, finirà con l’essere il certificato vivente del tradimento di un Movimento capace di cambiare solo la vita dei miracolati che ha portato nei palazzi romani.
Quanto al Conte bis, un ministro (e di quale ministero!) che sbatte la porta, fa capire che sarebbe possibile cambiare: se solo lo si volesse. Se davvero questo governo tiepido, flaccido, insapore volesse fermare l’ascesa di Salvini, investire in istruzione, ricerca, università sarebbe la prima cosa da fare. La sconfitta di Fioramonti dice, invece, che il presidente del consiglio è nudo: e cioè che il fine di questo governo è solo stare al governo. Punto e basta.
Infine, c’è il magico mondo dell’università italiana, cui appartengo anche io che scrivo.
Una settimana fa, la Conferenza dei rettori ha detto per la prima volta che è a rischio «la tenuta del sistema universitario». Lo ha scritto a Mattarella, per sostenere le richieste di Fioramonti. Ebbene, ora che è evidente che tutto è stato inutile, i rettori stessi dovrebbero chiamare alla mobilitazione. E se le cappe di ermellino vietano ai magnifici rettori movimenti troppo rapidi, dovremmo essere noi professori a farlo: o infine gli studenti! In un paese minimamente ancora reattivo, le università dovrebbero essere occupate, gli esami sospesi, le tesi bloccate. È Natale, è vero: siamo tutti in vacanza. Ma quando la casa brucia, si può restare a casa?
Il segno delle dimissioni di Fioramonti è un segno grave e fatale. Indica la presenza di un bivio che da una parte porta a una mobilitazione di massa del mondo universitario, fino a una rifondazione dell’università pubblica; ma dall’altra porta a una sua massiccia privatizzazione, a un sistema a due velocità (che sarebbe la definitiva condanna del Mezzogiorno), a un tradimento del progetto costituzionale, e in definitiva a un colpo micidiale alla nostra democrazia.
Siamo ancora in tempo per scegliere la prima strada. Ma queste clamorose dimissioni natalizie potrebbero essere l’ultimo avvertimento.
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