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Voci dall’aldilà. Franco Berardelli e Salvatore Mannuzzu

Corpodi Stefano Bardi

Crepuscolarismo, termine che in Italia è stato contraddistinto da un movimento poetico durato dal 1904 al 1910 circa e basato su una lingua, che, non doveva mistificare la quotidiana esistenza e nasconderla in reminiscenziali ombre ormai del tutto logorate, ma anzi con coraggio e senza rimorsi, doveva scagliarsi contro le “illuminate” e romantiche poesie di quel tempo. Una lingua in parole più semplice, che, si esiliava dalle fastose esistenze per concentrarsi sulle insignificanti, discrete e annebbiate esistenze giornaliere.

Poesia quella crepuscolare trattante le malattie psico-fisiche e spirituali, le fragilità corporali, le emarginazioni sociali, gli irrecuperabili inverni esistenziali e la Morte da poeti come Corrado Govoni, Sergio Corazzini, Guido Gozzano, Tito Marrone, Fausto Maria Martini e in particolare, dal poeta Franco Berardelli nato a Martirano Lombardo nel 1908 e morto a Roma nel 1932 a soli ventiquattro anni per malattia.

 

Poeta dall’infausto destino esistenziale perché ancora oggi dopo 87 anni dalla sua dipartita, nessuno più si ricorda di lui. Infausto destino anche a livello editoriale, poiché a noi è giunta solo l’opera postuma del 1963 dal titolo L’altra cosa bella che secondo la volontà del poeta e della famiglia, doveva essere seguita dalle raccolte inedite Penduli di mughetto e Voci della notte insieme al poema La più grande felicità, ma così ancora oggi purtroppo non è stato. Fatto editorialmente parlando negativo e positivo allo stesso tempo, poiché ha trasformato l’opera postuma del 1963 nel testamento poetico e spirituale, del poeta calabrese.

Opera questa dove il giovane poeta dialoga con la Morte, da lui concepita non come dolore e lacrime, ma, come un’amica, una sorella e una madre che dona amore ai viventi e lo toglie agli agonizzanti in fin di vita. Nella prima sezione La morte lenta, assistiamo al dialogo del giovane poeta con la Morte quando ancora era in piene forze. Colloquio che inizia con il ricordo del fiume Adda, dal poeta visto come un padre che diffonde nostalgie, chimere e divine luci nel cuori dei suoi figli, ma, non del figlio poeta ormai irreparabilmente destinato alla Morte[1]. Accanto al padre ecco la madre Malinconia che uccide la gioia e la speranza nel cuore del figlio poeta per lasciare il posto, a un vacuo e agonizzante spirito ormai in decomposizione. Padre, madre e sorella Tristezza dal poeta concepita come un’oscura creatura dal cinereo volto, dallo spento sguardo, dalla cimiteriale lingua, dalle false carni luminose, dai furtivi passi, dai neutri profumi reminiscenziali e nelle cui braccia un giorno il fratello poeta desidererà riposare per l’eternità[2]. Sezione la prima, che, si conclude con il momento in cui la malattia colpisce il poeta nel corpo e nella mente come si evince, dalla lirica “Delirio notturno”. Malattia che creerà nel debole corpo del poeta laceranti parole, ansiosi aneliti e cimiteriali sogni premonitori della sua breve esistenza terrena[3]. Nella seconda sezione La morte triste assistiamo al momento esistenziale più traumatico del poeta, ovvero, nel preciso momento in cui la malattia sta avendo la meglio sul debole corpo del poeta spegnendo giorno dopo giorno i suoi battiti, i suoi aneliti, le sue parole, le sue lacrime e che gli mostrerà nella tomba la sua futura casa. Casa dove udirà i veri canti della Vita, ovvero, i lacrimanti rimorsi e gli urli di laceranti strazi[4]; e dove potrà rivedere i visi delle sorelle da lui tanto amate che diffondevano nel suo cuore malato un po’ di amore, purezza, luminosità spirituale e speranza esistenziale. Una casa infine che il poeta raggiungerà in una notte glaciale, come si evince dalla lirica “Notte di gelo”. Poesia questa in cui l’anima del poeta si separa dalle sue terreni carni per raggiungere la sua nuova casa ultraterrena nella quale dipartirà una seconda volta, a causa della morte dell’adorato padre[5].

Nella terza e ultima sezione La morte bella assistiamo a qualcosa di onirico e magico allo stesso tempo, poiché è lo Spirito del poeta ormai carnalmente defunto che parla. Parole quelle dello Spirito giunte sino a noi, attraverso la poesia “Testamento”. Lirica in cui capiamo come la Vita del giovane poeta fu sostanzialmente un cammino composto da vacuità, soli malati e oscure malinconie simili al suo freddo e insignificante sepolcro, che, a sua volta assomiglia a uno spettrale parco ormai del tutto abbandonato[6].

 

Accanto al poeta calabrese ecco un’altra voce che ci chiama dall’aldilà, ovvero, quella dello scrittore, poeta, critico, magistrato e deputato comunista Salvatore Mannuzzu (Pitigliano, 1930-Sassari, 2019). A dir la verità ed essere più esatti possiamo vedere l’oblio intellettuale dello scrittore toscano come una dimenticanza a metà, poiché abbastanza si conosce sul suo aspetto prosastico-saggistico e politico-legislativo, ma, poco e niente si conosce sull’aspetto poetico che si basa sulla raccolta Corpus del 1997 e che raccoglie le poesie dagli anni ’50 agli anni ’90. Corpo qui letto come un velato e spento sole destinato a srotolarsi fino a perdere, la sua più totale lucidità[7]. Una seconda chiave di lettura, lo concepisce come un’imperfetta fusione carnale basata sulle debolezza, sul vilipendio e come una fusione che crea figli dall’infausti destini caratterizzati da brumosi cammini esistenziali[8]. Fusione che però come tutte le cose imperfette, è destinata al fallimento comportando di conseguenza il ritorno dei corpi ai loro intimi affetti. Una terza chiave di lettura, ci mostra il corpo come uno specchio riflesso in cui il poeta rivede le sue vecchie amicizie, da lui rimembrate come esistenze quotidianamente in trincea e dalla candida voce incompresa. Una quarta chiave di lettura lo legge, come una Vita scheggiata composta da estreme reminiscenze di un’esistenza consumata nella follia e illuminata da vacui ricordi, che, si sciolgono nel quotidiano letame mangiato dagli Uomini[9]. Una quinta chiave di lettura lo legge come una città animata da brume, oscuri crepuscoli, artificiali profumi artificiali, sogni vocalmente muti e vacue lacrime colme di falsità. Una sesta chiave di lettura concepisce il corpo come un ultimo tramonto esistenziale la cui anima si stacca dalle terrene carni per lasciarle, alle avide e ingorde bocche degli avvoltoi[10]. Una settima chiave di lettura vede il corpo, come una strada per la ricerca e la conquista etico-spirituale della dell’inconquistabile verginità[11]. Una ottava e ultima chiave di lettura concepisce il corpo come la sera, poiché come essa ci accompagna in intimi viaggi e conserva tutti i nostri ricordi più luminosi[12].

[1] FRANCO BERARDELLI, L’altra cosa bella, Canesi Editore, Roma, 1963, pp. 16-17 (“[…] mi fermai sulle tue sponde, o fiume / dalle canzoni gioconde, / che porti al cuore dell’uomo, / col canto, i ricordi ed i sogni, / le dolce speranze. […]-[…] Chiamai, folle, piangendo, un nome / di donna!… Ah! La Vita! / Risento / quel nome salire / nell’onda, se, o fiume benigno, / riprendi il tuo canto. / Mi chino, ti guardo, sogghigno; / ma ho gli occhi bagnati di pianto, / e penso che devo morire.”)

[2] FRANCO BERARDELLI, L’altra cosa bella, Canesi Editore, Roma, 1963, pp. 30-31 (“[…] Il tuo piccolo volto / sepolto / tra i fiori / velato di geli notturni / i tuoi occhi taciturni, / le meste / parole, / la veste / intessuta di sole, / la strada percorsa / via in corsa / tra i lauri ed i mirti, / i tuoi profumi di viola / ricordo. […]-[…] Io chiuderò il mio ricordo / vicino una siepe fiorita, / dinanzi la porta / del cuore, / malate d’amore, / risorta. […]”)

[3] FRANCO BERARDELLI, L’altra cosa bella, Canesi Editore, Roma, 1963, p. 47 (“[…] I fuochi della fantasia / innumeri, ardenti / s’accendono, passano via / sugli occhi miei spenti!”)

[4] FRANCO BERARDELLI, L’altra cosa bella, Canesi Editore, Roma, 1963, p. 53 (“[…] Nell’antico / cimitero / bianco e nero / cantano. […]-[…] Non più canti / nei recinti / là, dei vinti:/ rantoli. […]”)

[5] FRANCO BERARDELLI, L’altra cosa bella, Canesi Editore, Roma, 1963, p. 65 (“[…] Stamane l’hanno trovato, / il fardello / di cenci, attaccato / al chiuso cancello: / lo sguardo rivolto / chissà, verso il babbo sepolto!”)

[6] FRANCO BERARDELLI, L’altra cosa bella, Canesi Editore, Roma, 1963, pp. 103-104 (“[…] Non voglio né l’ombra dei verdi / cipressi, né un fiore, / sul marmo / che chiuderà le mie ossa, / non vane parole / scolpite, / null’altro che il sole / e l’oblìo. […]-[…] Han chiuso lo steccato / con l’edera e coi glicini; / hanno murato le porte / coi fiori vermigli, / forse, perché somigli, /  a chi giunge di fuori, / la casa della Morte / un parco abbandonato.”)

[7] SALVATORE MANNUZZU, Corpus, Einaudi, Torino, 1997, p. 7 (“[…] opaco un sole si sfalda / troppo per sempre distratto.”)

[8] SALVATORE MANNUZZU, Corpus, Einaudi, Torino, 1997, p. 14 (“[…] La guerra fredda fra te e me / chissà quando è iniziata / chissà come finirà / tra incontinenza e oltraggio. / Chiamiamo questo amore: / un’oscura partenza, un malcerto / viaggio; un destino / in re.”)

[9] SALVATORE MANNUZZU, Corpus, Einaudi, Torino, 1997, p. 35 (“[…] e a) (tirando le somme) bruciati / i tempi lunghi non avanzano che questi / b) deve essere una cosa / assolutamente senza senso / però digeribile nel grande / Stomaco che sappiamo […]”)

[10] SALVATORE MANNUZZU, Corpus, Einaudi, Torino, 1997, p. 128 (“[…] Di sé lasciato (in testamento?): a quanto /  pare carne di porco.”)

[11] SALVATORE MANNUZZU, Corpus, Einaudi, Torino, 1997, p. 137 (“[…] per dire sono qui, ci sono, ma chi, come / nella vena precipita anima / sempre più piccola. Risponde invece il tu / tu del telefono e il fiato / del condizionatore morde impalpabile, è così / strade treni letti casuali, il suo urlo / inaudito. Non c’è più linea.”)

[12] SALVATORE MANNUZZU, Corpus, Einaudi, Torino, 1997, p. 174 (“[…] “Se il giorno è un soffio d’aria / la sera forse è il mio viaggio”. / Perché non si dimentica / e non si può attendere / ti porterà con sé / come un bagaglio.”)

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