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Raj Patel: «Ecco perché il pollo fritto del fast food è il simbolo del fallimento del capitalismo»

raj patel @Corriere-Web-Sezioni

raj patel @Corriere-Web-Sezioni

di Francesca Gambarini
Raj Patel: «Ecco perché il pollo fritto del fast food è il simbolo del fallimento del capitalismo» L’economista Raj Patel ospite dell’evento L’Economia del Futuro, alla Triennale di Milano lo scorso 14 novembre
Per cambiare il mondo ci vogliono leader visionari e coraggiosi. Se Greta striglia i potenti dal Palazzo di Vetro dell’Onu, Raj Patel la sua rivoluzione l’ha scritta nei saggi, I padroni del cibo, Il valore delle cose e Una storia del mondo a buon mercato, il più recente, e la porta in giro per il mondo, nei convegni e nelle università. In quelle pagine l’economista, docente alla University of Texas e scrittore britannico, uno dei maggiori esperti di crisi alimentari, spiega perché l’umanità, per sopravvivere, ha una strada molto chiara da percorre. Bisogna abbandonare il padrone unico delle economie sviluppate, il capitalismo, già messo alla dura prova dalle crisi geopolitiche, ambientali e sociali oggi sotto gli occhi di tutti. Ma, come ripete spesso Patel, è più facile per le persone immaginare la fine del mondo che quella del capitalismo. Eppure, sembra evidente che un sistema che ha come solo obiettivo quello di massimizzare i profitti, la produzione e il consumo non è in grado di risolvere le sfide della nostra epoca. A cominciare da quella alimentare: dare da mangiare a un mondo presto abitato da dieci miliardi di persone.

L’Economia del Futuro alla Triennale di Milano
L’Economia del Futuro alla Triennale di Milano
È stato di recente premiato, in Italia per le sue teorie su un cibo più sostenibile e democratico (con il Bologna Award): tutti hanno diritto a nutrirsi in modo sano. Come raggiungere l’obiettivo in una società percorsa da così profonde disuguaglianze?
«Non è certo per la mancanza di cibo che due miliardi di persone non si alimentano correttamente, con 821 milioni di esseri umani denutriti. La “fame” è una scelta politica. Lo è ridurre i sussidi e liberalizzare gli affitti, così che le classi lavoratrici debbano scegliere tra mangiare e avere una casa. È una scelta politica caricare i Paesi del Sud del mondo con debiti che i governi non potranno mai pagare, legando le loro economie alle esportazioni. E sarà solo una scelta politica quella di mettersi a un tavolo e ragionare su come interrompere queste ingiustizie».
Nel suo ultimo libro individua un simbolo di questo sistema alimentare sbagliato: il pollo fritto del fast food. Un cibo che racchiude, nel modo in cui è prodotto e consumato, «l’inganno del capitalismo». Che cosa significa?
«Il capitalismo è un sistema che non paga i suoi conti. Uso questo esempio per mostrare che sarebbe impossibile avere una crocchetta di pollo, un cibo economico, con poche proprietà nutritive e che proviene da una filiera altamente industrializzata, senza distruggere la natura, sfruttare gli animali, i lavoratori e le loro famiglie e facendo guadagnare i soliti noti».
Ma se scelgo di non mangiare al fast food, posso ritenermi fuori da questo circolo vizioso?
«È facile capire come i cibi lavorati e confezionati possano diventare emblema di un sistema sbagliato, meno immediato trovarne le tracce nei cibi freschi. Eppure, basta pensare che gli agricoltori, oltre a essere tra i lavoratori meno pagati del mondo, sono anche i più esposti a questo inganno. Uno scioccante studio mostra che i figli dei raccoglitori di fragole della California hanno un quoziente intellettivo inferiore di sette punti rispetto alla media, perché le loro madri sono state esposte ai pesticidi. Abbiamo danneggiato questi lavoratori generazione dopo generazione, e ora il risultato qual è? Che le fragole sono rosse e perfette, geometricamente progettate, pronte per essere comprate e mangiate».
Ma se il capitalismo non funziona più, e quindi nemmeno l’idea di massimizzare consumi e profitti, qual è l’alternativa?
«Negli Stati Uniti e in altre parti del mondo sta nascendo un Green New Deal. Il nome evoca la politica di Roosevelt e, come il suo antenato, questo movimento ha l’obiettivo di rifocalizzarsi su un’economia guidata dai lavoratori, per ribaltare il gioco di forze che ci ha portato alla catastrofe climatica. Senza una trasformazione di questo tipo su larghissima scala è difficile immaginare una vita dignitosa per la maggior parte dell’umanità nei prossimi secoli».
Ma non è proprio l’agricoltura uno dei maggiori indiziati della catastrofe climatica?
«L’agricoltura è insieme un esecutore e una vittima delle alte emissioni di gas serra ma, guardando più in profondità, è chiaro che chi provoca queste emissioni e chi le subisce non sono gli stessi. L’allevamento industriale di carne e l’agricoltura intensiva sono responsabili di quella che io chiamo “sesta estinzione”. Hanno spinto la deforestazione per avere più campi da coltivare, hanno distrutto il suolo e aumentato l’uso di pesticidi, erbicidi e fertilizzanti. Chi soffre il climate change sono i piccoli produttori. Quindi, se da un lato è semplicistico spingere le persone ad abbracciare la dieta mediterranea, dall’altro lato serve avere una strategia che coinvolga tutti gli attori del settore, con un approccio individuale non arriveremo mai all’obiettivo: cambiare il sistema economico».
Chi sono i leader che possono guidare la trasformazione oggi?
«Il primo New Deal è nato in un’era in cui il capitalismo aveva fallito, e in varie parti del mondo si stavano facendo strada le dittature. Sono molto preoccupato, anche alla luce del ritiro degli Stati Uniti dall’Accordo di Parigi, per una prossima rielezione di Trump. E sono ugualmente preoccupato dalla direzione in cui va l’India di Modi, o il Brasile di Bolsonaro. Ma una nuova generazione, penso a Greta Thunberg o ad Alexandra Ocasio-Cortez, è pronta a portare avanti la trasformazione. Di certo, la “vecchia guardia” non lascerà tanto facilmente».
Qual è la prima emergenza da affrontare? Il climate change o le migrazioni?
«Il climate change non è solamente il “cattivo tempo”, ma una serie di meccanismi sociali che si sono rotti e che hanno reso un numero sempre maggiore di persone vulnerabili. Le tempeste si trasformano in disastri per la mancanza di infrastrutture e le persone si spostano perché le strutture si sono talmente deteriorate che si è pronti a lasciare le proprie case per cercarne una migliore da un’altra parte. Quindi i due fenomeni, in parte, sono tra loro legati. Ma fino a quando il Nord del mondo sarà in grado di ricevere coloro che hanno come unica colpa quella di essere vittime di un uso sproporzionato delle energie da fonti fossili?».
L’umanità sopravviverà in mondo abitato, da qui a trent’anni, da dieci miliardi di persone?
«È facile immaginare un mondo dove dieci miliardi di persone consumano in maniera moderata, lavorano in modo sostenibile e si prendono cura l’uno dell’altro. La domanda che dobbiamo farci è: perché è così difficile pensare di poterlo mettere in pratica?».

by Corriere

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