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Il miele e la neve. Il ritorno di chi si era perso, l’avventura della Pars.

Il miele e la neve

Raimondo Giustozzi

Il libro, pubblicato nel 2015 dalla DitePars Edizioni, consta di 304 pagine ed è diviso in due parti. Nella prima, intitolata Rientrati nel mondo e divisa in tre capitoli, sono riportate le storie di ex tossico dipendenti rientrati nel mondo, dopo diverse esperienze vissute nella Pars. La seconda parte, dal titolo Dentro la Pars, divisa in cinque capitoli con le conclusioni, dà spazio alle voci di quanti a vario titolo hanno contribuito alla fondazione e alla vita della Pars. Un epilogo, seguito da alcune notizie riguardanti, la struttura della Pars, le persone, gli altri enti che le stanno attorno, il villaggio San Michele Arcangelo di Corridonia, la dimensione istituzionale della cooperativa sociale, un’appendice metodologica e fotografica completa il piano dell’opera. Come si dice nell’appendice metodologica, “la ricerca è stata condotta dal dicembre del 2014 al maggio del 2015, dentro un notevole arco di tempo per mettere tutto a punto.

La tecnica usata da Salvatore Abruzzese, autore del libro, sociologo e docente all’Università di Trento, è quella dell’intervista biografica, “un metodo ricorrente quando si vogliono mettere in evidenza i singoli percorsi di ciascuno, cercando di conservare le particolarità umane di ogni singola vicenda, di ogni persona che si incontra. E’ un modo per rispettare l’altro, ma anche per restituirgli il diritto ad avere una storia propria, non omologata, non schiacciata nei cliché delle categorie sociografiche” (Salvatore Abruzzese, Il miele e la neve, l’avventura della Pars, pag. 11, agosto 2015 Loreto – Trevi). La lettura del libro è piacevole in ogni sua parte. Le storie individuali, dei salvati, gli ex tossici dipendenti e dei temerari, i fondatori e gli operatori della Pars, non sono storie edificanti ma di vita vissuta con tutte le paure, le ansie, i successi e i fallimenti.

Il titolo del libro, il miele e la neve, altro non è che una metafora della vita. Si sa che produrre il miele, nel villaggio San Michele Arcangelo di Corridonia (MC) opera una cooperativa agricola, quarantacinque ettari di terreno, che produce tra l’altro anche il miele, richiede un lungo lavoro. La neve, che cade d’inverno anche sulle dolci colline che circondano la cittadina marchigiana, “ricorda gli inganni del mondo, nasconde i pericoli, può condurre ad incamminarsi sulla parte pericolosa del sentiero. Occorre saper raccogliere il miele, cioè saper fare; così come è necessario saper camminare sulla neve, sapendola ammirare senza scivolare, senza cadere. Il miele e la neve sono la realtà, nella quale si impara a vivere e si impara ad amare” (Ibidem, pag. 10). Anche gli insuccessi, che indubbiamente possono anche capitare, non devono far perdere di vista l’obiettivo finale: recuperare alla vita chi si è perso nei meandri della non vita.

La miseria, scrive Camus, è una fortezza senza ponti levatoi. Un povero, quando è nella miseria più estrema, non riesce a vedere più nessuno: i propri bisogni fisici come il mangiare, il ripararsi dal freddo, il dormire, lo hanno ormai completamente imprigionato. La droga è una miseria peggiore, il castello non solo non ha più ponti levatoi che comunichino con l’esterno, ma si rinserra ad ogni dose: il cibo e il caldo non sono quelli reali ma quelli tossici, elementi che anziché rasserenare e aprire all’esterno non fanno che sbarrare le porte, serrandole a doppia mandata” (Ibidem, pag. 19). Le storie di Sergio, Lorenzo, Roberto, Alberto, Gianfranco, Daniele, Marta, Raffaella, Carlo, Corrado, Benedetto, Mario, occupano tutta la prima parte del libro. Avevano tagliato i ponti con tutto e con tutti; grazie al percorso intrapreso nelle strutture della Pars, sono rientrati nel mondo.

Quasi tutti i ragazzi e le ragazze, oggetto dell’intervista, amano parlare poco del loro passato remoto, quello della fuga dalla realtà, ma mettono in risalto il cammino nelle diverse strutture della Pars, attraverso il lavoro e le regole imposte dagli educatori. “E’ proprio attraverso la ricostruzione della vita quotidiana che riemergono i principi normativi, quella ripartizione tra bene e male che si rivela indispensabile” (pag. 80). Perno portante del recupero è il riferimento costante che tutti gli ex tossicodipendenti fanno agli educatori visti non come un qualcosa lontano ma come lo specchio nel quale riflettersi. José Berdini, uno dei fondatori della Pars, presidente della Cooperativa Sociale Koinonia, è un ex tossico, come più volte dichiarato nel corso dell’intervista a lui dedicata nella seconda parte del libro. Dice Corrado, un ex: tossico: “Avevo José come specchio perché dicevo: se c’è riuscito lui devo riuscirci anche io, costi quel che costi. Ma non c’è solo José, tutta la comunità finisce con lo svolgere un ruolo di testimonianza. Un giorno mi sono detto: ma queste persone, per quale cavolo di motivo stanno qui a mille euro al mese a farsi insultare solo per il gusto di donarti una vita diversa. Cazzo! O sono matto io e sono matti loro, però siccome sono più loro di me, allora il malato sono io” (pag. 82).

Corrado incontra nella Comunità zio Ferruccio, lo chiama così per un affetto che nutre verso di lui. E’ un pensionato che presta la propria opera nella Pars gratuitamente. Dice Corrado: “Lui (zio Ferruccio) era una persona al di fuori, che riusciva a convivere con noi come se l’avesse sempre fatto, eppure non aveva mai avuto esperienze, cioè nel senso che non aveva avuto un figlio che si drogava. Lui veniva da esperienze lavorative, aveva avuto un’impresa e stava in pensione da parecchi anni e aveva accettato questo incarico, chiamiamolo così, quest’esperienza, con le persone che vivevano in Comunità… Questa persona si spendeva tanto a livello lavorativo ma tanto anche a livello personale e forse secondo me in quel momento era la cosa che a me mancava” pag. 94- 95). Il lavoro nell’esperienza della Pars è una relazione, una compagnia tra persone che si riconoscono e non hanno timore di entrare in relazione tra di loro.

L’acronimo PARS sta per Prevenzione Assistenza Reinserimento Sociale. E’ Nicoletta Capriotti, la presidente, che nel libro fa la presentazione della Cooperativa: “La Pars è una cooperativa sociale ONLUS nata nel 1990 come associazione di fatto senza personalità giuridica e trasformata nel 1996 come cooperativa sociale. Dal punto di vista fattuale è una realtà strutturata sotto forma di cooperativa. Questa realtà è nata sotto esplicito invito di don Pierino Gelmini di aiutare i ragazzi che uscivano dalle sue comunità a reinserirsi nel mondo del lavoro e della società. E’ nata dietro questo input, questo fu l’inizio. Da questo sono nati dei rapporti, delle strutture. Oggi la Pars ha quasi venticinque anni, ha circa 350 dipendenti più vari collaboratori all’interno di sedi e di attività diverse che si sono sviluppate un po’ a catena a partire dalla riabilitazione e il reinserimento del tossicodipendente, fino all’area della famiglia, dei minori, gli anziani, i disabili, anche se il settore della tossicodipendenza e dei minori rappresenta il momento maggiore di continuità” (Ibidem, pag. 169).

Nell’intervista, José Berdini ripercorre la storia della Pars, partendo dalle sue origini. José aveva conosciuto personalmente il mondo della droga. Era entrato in una delle comunità di recupero fondate da don Pierino Gelmini. Uscito dalla comunità, incontra Giorgio Torresetti, altro fondatore della Comunità di San Michele Arcangelo, che militava in Comunione e Liberazione, il movimento fondato da don Luigi Giussani. José viene contattato da “quelli di CL” (Comunione e Liberazione), per fare una testimonianza sul libro del prete di Desio, Il senso religioso – “ Non ci capivo niente” pag. 140) –  confessa candidamente José. In seguito incontra Lora che diviene sua moglie. Conosce Giuseppe Mammana, direttore del SERT (Servizi per le tossicodipendenze) di Gravina di Puglia. Al Meeting di Rimini, don Gelmini fa la richiesta ricordata sopra da Nicoletta Capriotti. Giorgio Vittadini, uno dei più autorevoli rappresentanti di Comunione e Liberazione, gli chiede di prendere in casa una ragazza madre con la sua bambina. José era già sposato con Lora.

Giuseppe Mammana incontra i soci della Pars nel 1990; trova in loro un’affinità elettiva, nata non tanto da un’adesione interna all’esperienza di don Gelmini, né a quella di don Giussani, ma da un sentire comune, fondato nella relazione tra valori di fondo e vita professionale. Alcuni della Pars, in testa Giorgio Torresetti, avevano fatto esperienza nel movimento di Comunione e Liberazione fin da quando erano studenti. Mammana rilascia questa intervista: “In questo movimento cattolico e nella sua cultura era ben visibile la capacità di fare comunità ideale e valoriale nella società civile e laica in modo moderno. Soprattutto di loro mi colpiva la capacità di essere molto aderenti alla realtà, al lavoro, alle opere, una novità perché il mondo cattolico ed in generale cristiano sembrava rimasto invece un po’ più lontano dalla realtà quotidiana, soprattutto dal coraggio di affrontare con spirito innovativo fenomeni complessi, difficili e nuovi come quello delle tossicodipendenze” (pag. 158).

Col tempo, alla Cooperativa Sociale si affianca la Fraternità Laicale San Michele Arcangelo. Nasce gradualmente nell’arco di molti anni, nel 2014 è riconosciuta dall’arcivescovo di Fermo, mons. Luigi Conti, quale associazione privata di fedeli ai sensi del vigente Codice di diritto canonico. Di questa realtà è Silvia Santarelli a parlarne: “All’inizio eravamo Lora e Josè, Francesco e Barbara, io e Giorgio. Poi sono venuti Nicoletta e Stefano; dopo diversi anni si sono aggregata Maurizio e Elvira, Giovanni e Paola. Poi si è aggregato Giovanni che non è sposato, è stato un utente della Parsa e poi è entrato nella nostra fraternità, chiedendo di rimanere in quest’ambito di amicizia” (pag. 184). Silvia Santarelli, docente di Musica, è la moglie di Giorgio Torresetti. la Fraternità è una unità di sei famiglie, ognuna con figli, che abitano nelle proprie case del villaggio. Accanto alla Cooperativa Sociale che lavorava sui tossici, i primi fondatori e quelli che si aggregavano nel corso degli anni, avevano sentito urgente costruire una realtà che fosse la manifestazione reale della comunità apostolica, l’utopia tradotta in pratica.

Sull’origine della Fraternità Laicale San Michele Arcangelo, aggiunge Giorgio Torresetti: “Noi cercavamo un luogo, alla metà degli anni novanta, dove poter vivere in maniera più intensa la nostra fraternità. L’origine del villaggio viene da questa esigenza. In esso convivono famiglie, ciascuna nel proprio ambito, in vicinanza con le comunità degli adulti e dei minori. Noi abbiamo dato seguito ad una storia che si dimostrava buona ad ogni passo; questa ci indicava che la fraternità ed il lavoro di aiuto ai ragazzi, poteva trovare qui un luogo di sviluppo più bello e significativo” (pag. 206).

Giorgio Torresetti è professore di filosofia del diritto nella vicina università di Macerata, nonché studioso di Hannah Arendt. Nelle sale di lettura del villaggio girano testi di Arendt, di Papa Benedetto XVI, Papa Francesco e di don Luigi Giussani, ma non sono invasivi. E’ tangibile il riferimento all’esperienza di Comunione e Liberazione ma ognuno è libero di muoversi anche al di fuori del movimento. Basta che alla base dei rapporti con le persone ci sia l’amicizia, la condivisione e il lavoro, visto non con sofferenza ma come possibilità di vita piena e significativa. Anche il diversamente credente può trovarvi un suo spazio. La Comunità, le opere della Pars non sono state partorite a tavolino: “La cosa è venuta fuori in maniera quasi inavvertita, secondo l’esempio del seme. Quel poco di significativo che c’è è cresciuto a partire da alcuni fatti. Il filo è stato quello di seguire quello che accadeva, in particolare il rapporto con Josè è quello che ha cementato il tutto. Seguire ciò che accadeva, l’incontro con don Pierino, con don Giussani, anche l’amicizia con Vittadini è stata molto significativa, e poi l’esperienza di vita che ne è seguita, l’utilità che se ne vedeva per i ragazzi e per le famiglie” (pag. 206).

Giorgio Torresetti è di un’onestà impagabile. Non tutto è sempre andato per il meglio nella Comunità di Cigliano. L’esperienza più fallimentare è stata quella degli affidi: “Il fallimento è stato che i ragazzi (cinque) seguiti da noi (lui e la moglie Silvia) abbiano preferito andare altrove. Gli errori sono stati tanti; il rapporto con adolescenti cresciuti in altri ambienti di vita non è facile. A quell’età è importante far parte di un gruppo, che noi non potevamo offrire, poiché a quel tempo i nostri tre figli avevano già lasciato la famiglia per motivi di studio o di lavoro. In questo senso una comunità educativa offre maggiori strumenti d’intervento e coinvolgimento, così che si può essere più incisivi ed efficaci nella proposta educativa. Questo forse spiega la differenza dei risultati” (pag. 217- 218).

Continua, ricordando questa sconfitta: “Abbiamo sperimentato l’impotenza. In quest’occasione ho scoperto che Dio stesso vive questa esperienza di fronte all’uomo che è libero di rifiutarlo. Soprattutto con il Figlio consegnato all’arbitrio degli uomini. Si può dire che ha amato di più la nostra libertà del suo stesso figlio, altrimenti l’avrebbe difeso con le schiere dei suo angeli” (pag. 216). L’esperienza dell’impotenza è preziosa perchè aiuta a sfuggire al fascino di qualsiasi deriva di potere. Il potere infatti, posto davanti alla sconfitta, finisce per perdere tutto il suo fascino: “Nell’immediato la gratuità non produce nessun risultato e questo protegge dai rischi del potere, dell’orgoglio, della superbia. La povertà, il fallimento, l’insuccesso non sono più obiezione, se in essa possiamo capire di più chi è Dio e sentirci più vicini a Lui” (pag. 216). Sono riflessioni che dovrebbero essere fatte da tutti, cattolici e no, laici e preti, soprattutto questi ultimi quando si riparano all’ombra del clericalismo sempre imperante e quando i laici cattolici, per non esser da meno, diventano anche loro clericali. Sono considerazioni che mi sento di fare, anche per esperienza personale.

Anche Josè Berdini non va per il sottile sulle sconfitte e sulle difficoltà che la vita di comunità comporta. La Pars propone regole da rispettare, ordine, lavoro, pulizia della persona, dei locali, la cura della bellezza in ogni suo dettaglio. Chiede Salvatore Abruzzese, l’autore del libro, – “Immagino che uno voglia andare via da una struttura simile. La risposta di Josè è solare. Assolutamente sì, specialmente quando trovano appoggi esterni, compresi i genitori, o la propria donna, o i servizi pubblici che a volte danno sponde. Ovviamente i ragazzi ci provano. Sono pochi quelli che hanno dentro di loro una struttura predisposta al bene, ammesso che qualcuno ce l’abbia e poi, nei fatti, nessuno ce l’ha. E’ un sacrificio stare in comunità”( pag. 145). Chiede l’interlocutore: “Come fate a trattenerli?  E’ dietro queste due domande dirette che emerge la novità: non vi sono gabbie, né catene, né porte sbarrate. La forza della comunità è il gruppo, loro stessi formano la forza. Chi si convince di rimanere, chi percepisce il valore dello stare nel mondo – quindi anche in comunità che è un piccolo mondo che prepara a stare nel mondo più grande – diviene oggetto di aiuto per chi arriva. Fa da testimone non verbale, una compagnia in cui il destino delle cose viene messo a tema continuativamente, con le parole loro, con i modi loro” (pag. 145).

Ricordo i giorni terribili vissuti dopo l’orribile morte di Pamela Mastropietro (30 gennaio 2019). Macerata, da tranquilla città di provincia, si ritrovò ad essere all’improvviso quasi l’ombelico del mondo, al centro del circolo mediatico e punto di riferimento per le forze politiche a seguito anche del folle raid razzista compiuto da Luca Traini che aveva individuato negli uomini e donne di colore la causa di tutto. Pamela Mastropietro era ospite presso la Pars di Corridonia. La Voce delle Marche mi aveva chiesto di scrivere qualcosa attorno all’evento. Volevo prendere i contatti con i suoi operatori. Scelsi il silenzio, perché di questo avevano bisogno, unito al rispetto per il dolore. Preferii solo uscire con un articolo del 26 marzo 2018, dal titolo droga, scuola e famiglia, pubblicato dal periodico www.lavocedellemarche.it

Il libro Il miele e la neve Il ritorno di chi si era perso, l’avventura della Pars era già stato pubblicato circa tre anni prima (agosto 2015). L’ho letto solo in questi giorni. Me l’ha donato un amico. Ho voluto farne una recensione, perché l’ho trovato interessante e va letto più volte. Una lettura critica, che è sempre una lettura seconda, direbbero gli esperti di Semiotica, favorisce sempre altre risposte. I momenti di apparente sconfitta, avrebbe detto don Milani, si vincono sempre con la grinta e la voglia di fare domani mattina qualcosa di grande che non si è riusciti a fare oggi. E’ un modo tutto mio per stare dalla parte degli operatori che lavorano nella Pars e di tutti i ragazzi e ragazze che sono stati o sono ospiti della Cooperativa.

Raimondo Giustozzi

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