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Dialoghi in corso. Sud! Cosa l’immigrazione ci dice del Sud.

di Mimmo Perrotta By gli Asini

Fonte internet

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C’è una tensione che accomuna i giovani meridionali e i cittadini stranieri che vivono più o meno stabilmente in molte aree del Sud: il desiderio di andarsene. Il Sud, per molti stranieri come per molti “autoctoni”, non è un luogo in cui si desidera – o è possibile – vivere. Le similitudini, però, probabilmente finiscono qui, visto che i giovani meridionali possono godere di una più ampia libertà di circolazione, tanto all’interno del paese quanto nell’Unione Europea, grazie al possesso di un passaporto che consente questa mobilità. I cittadini stranieri, invece, come approfondiremo tra poco, sono spesso costretti a rimanervi a causa del loro status giuridico.

Alcuni dati: i residenti stranieri a Sud, isole comprese, sono meno di 850mila, su un totale di più di 5 milioni di stranieri residenti in Italia. La sola Lombardia ne conta più di 1,13 milioni, l’intero Nord quasi 3 milioni. Tra gli stranieri residenti nel Sud, le donne sono poco più della metà e prevale la componente europea, sebbene la rappresentazione prevalente sia quella dei giovani africani che lavorano in agricoltura e vivono nei “ghetti”. Sebbene cittadini stranieri risiedano ormai in tutti i comuni del Meridione, i territori con numeri importanti di insediamento stabile sono pochi: alcune aree urbane, come Napoli-Caserta, Palermo, Bari, e alcune aree rurali nelle quali da decenni si è strutturata una presenza di lavoratori per l’agricoltura in serra, che garantisce impiego tutto l’anno, come il ragusano in Sicilia e la Piana del Sele in Campania. La crescita delle “seconde generazioni”, cioè dei figli di migranti, al Sud avviene con numeri molto più bassi rispetto al Nord. Le acquisizioni di cittadinanza sono poche: nel 2017, su un totale nazionale di 146.605, al Sud e nelle isole ve ne sono state circa 13mila, nel Nord 105mila. E questo nonostante in alcune aree del Sud l’immigrazione risalga ormai a più di quaranta anni fa. Il Mezzogiorno, insomma, è per molti migranti soprattutto terra di passaggio. Non appena hanno la possibilità di raggiungere regioni con maggiori opportunità di lavoro, non esitano a partire.

La rappresentazione più comune dell’immigrazione al Sud, come detto, è quella di giovani maschi provenienti dai paesi dell’Africa Subsahariana che vivono in condizioni drammatiche nei “ghetti” del foggiano, della Piana di Gioia Tauro, della Basilicata, di Campobello di Mazara, così come nella zona rurale-urbana di Castelvolturno. Essi sono la parte più visibile e vulnerabile di una forza lavoro agricola che però è composta per lo più di migranti di altre nazionalità: rumeni, indiani, albanesi, marocchini, tunisini. Questa maggiore visibilità è dovuta alla stagionalità della loro presenza e alla segregazione abitativa; una segregazione che porta a episodi tragici, come le morti avvenute nell’ultimo anno nel ghetto di San Ferdinando in Calabria e negli incidenti stradali dell’agosto 2018 in Capitanata. Drammi a cui i governi degli ultimi anni hanno risposto non con politiche abitative strutturali per i lavoratori stagionali, ma con sgomberi e nuove tendopoli, che ripropongono i medesimi problemi; l’ultimo sgombero è stato quello voluto da Salvini alla tendopoli di San Ferdinando nel marzo 2019. Una persecuzione, per gli abitanti di queste bidonville, che spesso vi arrivano dopo essere usciti, con o senza permesso di soggiorno e senza altre prospettive, dai vari centri di accoglienza di tutto il territorio italiano: dopo che il decreto sicurezza, approvato a novembre, ha accelerato il processo di uscita dai centri, questi migranti si vedono cacciati anche dalla baraccopoli nella quale si erano “rifugiati”.

Nati a partire dai primi anni novanta come precari ripari per la manodopera stagionale necessaria all’agricoltura intensiva e monocolturale di queste regioni – l’agrumicoltura calabrese, i pomodori da industria pugliesi, le olive siciliane –, i ghetti rurali hanno assunto negli ultimi anni una funzione parzialmente differente: quella di camera di compensazione del mercato del lavoro nazionale e, forse, europeo. Fino a quando questi migranti non saranno utili ad altri settori dell’economia italiana, in presenza di una crescita di qualche tipo (e verranno quindi regolarizzati in qualche modo, magari con sanatorie, come accaduto in passato), essi saranno costretti a restare in questa situazione precaria.

Si tratta di questioni ormai molto conosciute. Mi sembra più interessante qui soffermarmi su come queste bidonville – appunto la faccia più visibile dell’immigrazione nel Sud Italia – ci mostrino la doppia subalternità, economica e politica, delle regioni del Mezzogiorno.

La necessità di impiegare manodopera economica e flessibile, oltre i confini della “legalità”, ci mostra la subalternità dei produttori agricoli meridionali all’interno delle catene del valore dei sistemi agroalimentari italiani e globali. Ben poco del valore prodotto all’interno di questi sistemi resta al Sud, altri sono gli attori che si appropriano di quote maggiori di profitti: commercianti, industrie alimentari, catene di supermercati. Questi attori sono per lo più basati in regioni non meridionali: 142 delle 170 industrie alimentari italiane con più di 250 addetti sono situate nelle regioni del Nord; le grandi catene di supermercati hanno quasi tutte sede nel Nord Italia o all’estero. Lo strozzamento degli agricoltori ha fatto sì che essi abbiano scaricato questa pressione sui lavoratori migranti; non è un caso che molti di questi agricoltori vedano con simpatia l’avanzata della Lega al Sud, con le sue retoriche anti-immigrati da un lato e “ruraliste” dall’altro.

Questa subalternità economica non viene meno, se non in piccola parte, anche quando si tratta di prodotti di “qualità”, come il biologico o i prodotti “tipici”, che alcune retoriche accademiche e politiche hanno voluto vedere come possibili strumenti di riscatto della componente contadina e a volte di interi territori fragili. Le poche ricerche disponibili ci mostrano che molto spesso anche i prodotti “di qualità”, che per la maggior parte vengono consumati lontano dai luoghi di produzione, favoriscono più commercianti e catene della distribuzione che non i produttori agricoli. Sicilia, Puglia e Calabria sono le regioni italiane che producono più biologico in Italia (messe assieme contano per il 46% delle superfici biologiche nazionali), oltre che tra quelle nelle quali si consuma meno cibo biologico. Ma i grandi gruppi e consorzi di cooperative che commercializzano l’ortofrutta bio meridionale hanno tutti la “testa” in altre regioni e i produttori agricoli lamentano un abbassamento generalizzato dei margini di profitto. Nel bio, come nell’agricoltura convenzionale, lo sfruttamento illegale del lavoro è una leva frequentemente utilizzata per restare sul mercato.

Allo stesso modo, la retorica dei prodotti “locali” non tiene conto del fatto che tali prodotti hanno valore solo se esportati (o venduti ai turisti), mentre gli abitanti del luogo continuano a comprare nei supermercati prodotti industriali che vengono da altrove. Non si tratta qui di cadere nella retorica del cibo “buono” solo perché “Made in Italy”, anzi. Ma di mostrare come il prodotto “tipico” esportato cada nelle stesse trappole del prodotto industriale: i produttori non controllano il mercato e la quota di valore che resta loro è minima. La recente rivolta dei pastori sardi racconta questa situazione: un formaggio Dop, il pecorino romano, per lo più esportato negli Stati Uniti, che in molte annate non consente alla base produttiva di rientrare nei costi di produzione. Non va dimenticato che il latte sardo è prodotto da aziende che impiegano massicciamente “servi pastori” non italiani, in particolare rumeni. I prodotti “di qualità”, insomma, seguono logiche molto simili a quelle del cibo più schiettamente industriale, come le insalate di quarta gamma (imbustate, già lavate, pronte a essere mangiate), di cui la Piana del Sele è la principale area di produzione italiana, anche in questo caso con il contributo decisivo di braccianti marocchini ed esteuropei (su questi temi, si vedano l’introduzione e gli articoli di Alessandra Corrado, Domenica Farinella e Gennaro Avallone sul numero dedicato ad Agricolture e cibo della rivista “Meridiana”, n. 93, 2018, nonché l’articolo di Domenica Farinella su “Gli Asini”, numero 62 di aprile 2019).

Su queste basi, fanno sorridere amaramente le retoriche, che hanno trovato voce anche in alcuni provvedimenti politici a livello regionale, che vedono i migranti come possibili “soluzioni” per ripopolare i paesi delle aree interne e montane del Sud, da cui buona parte degli autoctoni è fuggita. Come ha mostrato in parte anche l’esperienza di Riace, senza ricreare un tessuto economico sostenibile, è difficile pensare che dei migranti si fermino laddove gli autoctoni sono partiti.

Dall’altra parte, le bidonville ci mostrano la subalternità politica delle regioni del Sud. Le politiche migratorie, anche quelle più poliziesche e sicuritarie, come è ormai noto, non hanno l’effetto di bloccare del tutto la mobilità degli individui, bensì quello di canalizzare, selezionare, ritardare questa mobilità, nel tempo e nello spazio. Fino alla crisi economica del 2008, decine, forse centinaia di migliaia di migranti, soprattutto di origine africana, hanno percorso una traiettoria simile: hanno vissuto per qualche anno, senza permessi di soggiorno, nelle regioni del Sud Italia, spesso lavorando in agricoltura, prima di accedere allo status di migranti regolari, di solito grazie a una delle sanatorie varate dai governi italiani negli anni ottanta, novanta e duemila, e di spostarsi nelle regioni del Nord e in settori produttivi con migliori condizioni di lavoro, come l’industria manifatturiera. La loro mobilità è stata ritardata e in qualche modo “accordata” alle necessità dei settori dell’economia nazionale.

Nel frattempo, gli accordi berlusconiani tra Italia e Libia del 2008 facevano della Libia il territorio in cui la mobilità di molti migranti veniva ritardata, a prezzi umani altissimi. I conflitti nel Mediterraneo cominciati nel 2011 hanno sconvolto questo equilibrio; il Sud Italia ha visto sbarcare tra il 2011 e il 2017 (fino al nuovo accordo del ministro Minniti con la Libia) 700mila migranti, non più bloccati in Libia. In questi anni, il Regolamento Dublino, attraverso la norma che obbliga i migranti a fare richiesta di protezione internazionale nel primo paese di sbarco dell’Ue, e a stabilirsi in questo paese, ha fatto dell’Italia la Libia d’Europa, impedendo a questi richiedenti asilo di spostarsi liberamente nell’Unione. Le baraccopoli dell’Italia del Sud, in questo senso, oltre a essere state il bacino a cui attingere manodopera agricola, possono essere viste come l’effetto più evidente di questa canalizzazione: il luogo in cui i migranti – richiedenti asilo, titolari di protezione umanitaria, diniegati o “dublinati” – sono costretti a restare per anni, in attesa che si aprano possibilità per spostarsi altrove. Questa situazione è paradossalmente peggiorata con le politiche migratorie inaugurate dal governo Lega-5stelle: da un lato, gli accordi con la Libia e il blocco dei porti hanno impedito nuovi sbarchi, riportando il confine in Libia; dall’altro lato, la chiusura di molti Sprar e Cas in tutte le regioni italiane ha ricreato un confine proprio nelle aree rurali in cui queste bidonville sono situate.

Le regioni del Sud non hanno saputo contrastare il ruolo di confinamento della componente più vulnerabile dei migranti che queste politiche hanno di volta in volta assegnato loro. In questo modo, esse hanno peggiorato le condizioni di vita sia di questi migranti sia dei cittadini “autoctoni”, contribuendo così non poco ad acuire i sentimenti di razzismo. D’altra parte, la tensione alla fuga dal Sud che accomuna i migranti e i giovani meridionali rende estremamente difficile pensare alla formazione di duraturi movimenti di protesta che provino a cambiare l’equilibrio politico esistente.

Non voglio chiudere solo con pessimismo, sebbene ce ne sarebbe ragione. Va segnalato come vi siano piccole esperienze, ancora molto fragili, nate qui e là nel Sud, che partono da un modo differente di intendere il cibo “locale”: non un prodotto “tipico” da valorizzare attraverso l’esportazione, ma un cibo che sia prodotto e distribuito all’interno di sistemi di scambio locali, al fine di costruire economie sostenibili e controllate in una certa misura dagli attori locali, ivi compresi i cittadini non italiani che hanno deciso di vivere in queste aree. Queste esperienze in parte si rifanno all’idea di “sovranità alimentare”, proposta da La Via Campesina a livello globale. È stato notato come alcuni tra i più importanti movimenti anticapitalisti degli ultimi decenni, molto diversi tra loro, il Movimento dei Sem Terra in Brasile e le comunità zapatiste in Messico, abbiano costruito la propria autonomia politica attraverso il controllo sulla produzione e distribuzione del cibo (Leandro Vergara-Camus, Land and Freedom. The MST, the Zapatistas and Peasant Alternatives to Neoliberalism, Londra, Zed Books, 2014). Non so se questa pratica possa essere percorsa nelle aree in via di spopolamento del Sud Italia. Quantomeno, essa può rappresentare un’utopia che ci consenta di camminare su quei sentieri.

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